Molti anni fa un recensore del
“Times Literary Supplement”,
salutando la pubblicazione
di un grosso volume dedicato
alle stampe di Pietro Testa, sottolineava
come il libro costasse (vado
a memoria) cento sterline e in
giro per le bancarelle di Roma i
fogli incisi di Testa si potessero
(ancora) comprare per sessanta.
Analoga vertigine coglie di primo
acchito il lettore di fronte allo sbilancio fra le dimensioni del libro di Denis Viva e quelle del suo oggetto, l’articolo, di quattro pagine, con cui Achille Bonito Oliva presentava nel numero di ottobre-novembre del 1979 di “Flash Art” la neonata transavanguardia.
In quest’ultimo scritto, il gruppo risulta composto ancora da sette artisti (oltre ai canonici Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Mimmo Paladino, anche da Remo Salvadori e Marco Bagnoli) perché, ci informa Viva, l’articolo fu consegnato in redazione fra maggio e settembre, prima della decisione del critico di ridurre a cinque i componenti. Dal libro apprendiamo tutto sulle circostanze della stesura dell’articolo, sui suoi prestiti da testi scritti da Bonito Oliva nel passato e
riproposti nel nuovo scritto, con piccole, ma significative variazioni. Veniamo guidati attraverso una rete complessa in cui evidenzia le continuità con il pensiero di Bonito Oliva prima della transavanguardia e mette in luce le discontinuità, dovute soprattutto alla crescente impazienza del critico nei riguardi dell’arte postminimalista e concettuale, che si accompagna alla disillusione nei confronti delle capacità dell’arte di cambiare il mondo. Dopo la crisi degli ideali degli anni sessanta, all’artista, come ai manieristi cinquecenteschi, non resta che giocare autoreferenzialmente con il linguaggio. È il tema di L’ideologia del traditore, il saggio sul manierismo del 1976 per Feltrinelli (poi Electa, 1998), scritto da Bonito Oliva pensando in egual misura al passato e al presente dell’arte italiana.
Più che rivolgersi al lavoro degli artisti della transavanguardia, l’esercizio rigoroso e sovente impassibile di Viva si rivolge al suo critico: lo marca stretto, lo osserva nelle sue evoluzioni, gli riconosce la prontezza nell’impadronirsi di nozioni che la critica d’arte italiana non aveva ancora assimilato (per esempio l’idea lacaniana del quadro come “doma-sguardo”, la cui funzione è quella – dice Viva – di “pacificare e distrarre le …necessità pulsionali” dell’occhio).
L’autore mette a fuoco l’abilità politica e il successo di Bonito Oliva nell’intestarsi la paternità di un fenomeno di “ritorno alla pittura” in realtà assai più diffuso, vincendo la concorrenza, fra gli altri, di Renato Barilli e Maurizio Calvesi. Viene da chiedersi, rispetto soprattutto a Barilli che aveva incluso artisti confluiti nella transavanguardia in alcune sue mostre prima che Bonito Oliva perimetrasse il fenomeno, se l’abilità dell’inventore della Transavanguardia non sia consistita proprio nello scegliere bene i suoi artisti, delimitando il campo a pochi nomi, in fondo omogenei malgrado il (o grazie al) dichiarato cinismo culturale.
Tenere così implacabilmente sotto osservazione Bonito Oliva lascia in grigio figure in quel contesto significative, ma prive di interazioni importanti con il critico (il nome di Mario Diacono, per esempio, compare solo due volte). Tuttavia gli
sfondi principali contro i quali misurare il senso dell’operazione di Bonito Oliva ci sono tutti: quello storico-critico, quello sociologico, quello politico. La concentrazione stretta sul suo oggetto non costituisce quindi un limite, ma una qualità del testo.
Viva è molto esperto dei modi in cui nell’arte italiana fra gli anni sessanta e gli anni ottanta si sviluppa e cambia l’idea della pittura, nella teoria e nelle pratiche, dal lavoro di Giulio Paolini alla “pittura colta”, alla stessa Transavanguardia. Nel tour de force del libro sono proprio le parti dedicate alle dimensioni assunte dalla pittura, appunto, alle angolazioni critiche da cui si guarda al pastiche linguistico estremo (e felicemente “bulimico”) condotto dagli artisti del gruppo nei primi anni di quell’avventura, ai rapporti con altri “ritorni alla pittura”, nazionali e non, quelle che si leggono con maggiore piacere, pur riconoscendo il valore dei punti in cui Viva affronta aspetti di più stretta analisi testuale. Il libro è pieno di idee nuove, ad esempio quando applica alla transavanguardia la nozione di “auto-orientalismo”: una sorta di (pseudo)vernacolare italico, fatto apposta per “venire accolta da una cultura dominante o straniera”.
Il testo di Viva, nel rigore e nelle intuizioni che lo caratterizzano, è un sintomo importante del bisogno di revisione storica di alcuni momenti decisivi dell’arte italiana tra gli anni sessanta e gli anni ottanta e una prova dell’apertura di ampi spazi per coloro che vogliano farsi carico di questo lavoro, difficile ma necessario.