È, uscito da Quodlibet il carteggio
1961-1968 tra Franco Fortini e
Hans Magnus Enzensberger, con il titolo
Così anche noi in un'eco (a cura di Matilde
Manara, pp. 174, euro 18). Le ragioni per
cui l'ho letto e ne parlo sono ragioni forti,
ragioni anche autobiografiche. Quando i
due poeti e saggisti, l'italiano nato nel
1917 e il tedesco nato ne11929, cominciarono a scriversi, non avevo ancora diciotto anni, e di loro non sapevo niente. Ma
tre o quattro anni più tardi, studente universitario in cerca di una propria identità contemporanea, lessi Dieci inverni del
primo, Questioni di dettaglio del secondo,
e scelsi proprio loro come autori-bussola. In quello che scrivevano mi attirava
la compresenza di sociologia e poesia, di
critica letteraria e discussione politica.
Stavo seguendo (lo feci per tre anni) le
lezioni sul romanzo del Novecento di
Giacomo Debenedetti, avevo letto Eliot e
Camus, un po' di Adorno e di Simone
Weil, le poesie di Lorca e Brecht, Neruda e Majakovskij, L'immaginazione sociologica di Charles W. Mills, nonché diversi
numeri di «Problemi del socialismo», la rivista di Lelio Basso, e avevo studiato l'estetica marxista laboriosamente e inutilmente edificata da Galvano della Volpe
in Critica del gusto. Con Opera aperta il
giovane Eco lo mise subito in ombra.
Così Fortini e Enzensberger mi erano entrambi di particolare utilità. Li
sentivo prossimi, mi interessava e confortava la loro sintonia nell'usare il genere poetico e il genere saggistico in
parallelo e in controcanto: una poesia
fatta di idee e una saggistica condensata sia nel citino che nella concisione
argomentativa.
Ora, nel loro carteggio, me li ritrovo
davanti come erano negli anni in cui li
scoprivo e sono costretto a ripensare a
come erano, a come ero, a che cosa cercavo e soprattutto a che tempi erano
quelli, a che generazioni erano le loro,
a che generazione era la mia.
Quando Fortini aveva vent'anni,
quella che dominava nella sua Firenze era la cultura letteraria dell'Ermetismo, fra Montale, Carlo Bo e Mario
Luzi: e lui scelse come alternativa il
classicismo cattolico e la poesia in dialetto veneto di Giacomo Noventa.
Qualche anno dopo, nel 1945, fu accanto a Vittorini che fondava Il politecnico,
la rivista dell'antifascismo internazionale e di una rinnovata, sperabilinente rinnovabile società italiana.
Enzensberger, di dodici anni più
giovane, nel terribile e meraviglioso
"anno zero", il 1945 tedesco, era solo
un sedicenne che imparava l'inglese
facendo da cameriere agli occupanti
angloamericani.
All'inizio degli anni Sessanta i due
entrarono in contatto. Enzensberger
viveva in Italia con la sua prima moglie norvegese, mentre Fortini dialogava con il socialista di sinistra Raniero Panzicri che a Torino, la città della
Fiat, fondava con un gruppo di giovani
la rivista «Quaderni rossi», rileggeva
Marx e studiava la nuova classe operaia del neocapitalismo italiano.
Ma Fortini, anche lui socialista di sinistra, cioè marxista eterodosso, cominciava a sua volta a essere un punto
di riferimento per i più giovani e al
trentenne Piergiorgio Bellocchio
scrisse una lettera che era un vero
programma di critica politica e culturale all'altezza dei tempi. Così, nel
1962, nasceva un'altra rivista, Quaderni piacentini, che ebbe vita molto più
lunga di «Quaderni rossi» (Panzieri morì
poco più che quarantenne nel 1964) e
continuò a essere letta per i successivi
vent'anni.
Interessante e curioso è il fatto che
mentre in Italia, grazie a Renato Solmi
e Giovanni Jervis, si cominciavano a
leggere i "francofortesi" Adorno, Marcuse e Benjamin, di cui si sentirà l'influenza sul Sessantotto tedesco di Dutschke e Krahl, succedeva invece che
Enzensberger trovasse la sinistra intellettuale italiana molto più consapevole e aggiornata di quella tedesca. Ne
parlò in una lettera a Fortini e qualche anno dopo, nel 1965, fondò in Germania la rivista Kursbuch ("orario ferroviario"), a metà strada tra l'inglese
«New Left Review» e «Quaderni piacentini».
L'epistolario Fortini-Enzensberger
ora pubblicato sfiora i temi politici ma
documenta soprattutto le ragioni di
reciproco interesse fra due poeti nel
momento in cui sono impegnati a tradursi. Dopo essersi confessati le proprie lacune linguistiche (ma l'italiano
di Enzensberger era un po' più efficiente del tedesco di Fortini, che poteva contare sulla moglie svizzera tedesca Ruth Leiser), i due notano che al di
là di certi parallelismi di poetica
(l'idea e il problema di una poesia politicamente consapevole), Fortini è
più legato, secondo Enzensberger, al
solido e secolare classicismo italiano,
mentre Enzensberger, secondo Fortini, risente maggiormente di libertà
formali novecentesche alle quali lui si
sente estraneo.
Il dissenso politico non si era ancora manifestato del tutto; venne fuori
chiaramente dieci e vent'anni dopo. A
Sessantotto esaurito con il contributo
letale del terrorismo, il marxista eretico Fortini si scoprì piuttosto ortodosso
nella sua fedeltà all'idea marxista e
anche leninista di rivoluzione: certo,
più o meno da riformulare, ma non da
considerare superata. Nel 1981 scriverà: "Per Enzensberger la storia della
rivoluzione è finita da tempo. Per lui
`impegnarsi' è ridicolo".
Vero o falso? Bisognava, si poteva
ancora impegnarsi? Sì? No? Forse, ma
come? Fu da allora che sentii Enzensberger più vicino e Fortini sempre
più lontano. Nel 1985 Picrgiorgio Bellocchio e io fondammo la rivista "personale" Diario, che durò fino al 1993,
molto satirica e poco teorica: su molte
questioni attuali lasciavamo volentieri la parola a Kierkegaard, Leopardi,
Herzen, Thoreau, Orwell... Un'imperdonabile, semplicistica regressione!
Fortini non ci scrisse mai una lettera,
non ci fece mai una telefonata. Enzensberger ci disse che anche in Germania avevamo "qualche lettore fervente". Uno era lui.