Recensioni / Prende forma di rosa il dialetto di Scataglini

Ogni avventura poetica presuppone la conquista di una lingua e si compie nel riconoscimento di una forma. Ma raramente la combinazione di questi due elementi fondamentali si manifesta con la chiarezza e addirittura con la perfezione che contraddistingue l'opera di Franco Scataglini. Tutte le poesie dell'autore marchigiano (nato ad Ancona nel 1930, morto a Numana nel 1994) escono ora da Quodlibet nell'elegante edizione curata da Paolo Canettieri, accompagnata da una prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo e introdotta da un'avvertenza di Giorgio Agamben, per il quale - giustamente - questa pubblicazione «segna una data nella storia della poesia italiana contemporanea».
Non che Scataglini non si fosse già conquistato un posto di tutto rispetto nel nostro Secondo Novecento. Poeta dapprima per pochi, se non per pochissimi, aveva raggiunto nel tempo una notorietà sempre maggiore, fino all'apice toccato nel 1992 con La rosa. Operazione magnifica e temeraria, per molti aspetti paragonabile a quella pressoché contemporanea di L'Angel di Franco Loi, apparso nel 1994 e da poco riproposto da Mondadori. Se il poema di Loi era l'esito di una mitologia privata, consapevolmente rimodulata in termini di parabola universale, il lavoro di Scataglini si collocava invece nel solco di una tradizione assimilata così profondamente da poter essere trascritta in modo vertiginoso e inatteso.
La rosa era infatti la versione in dialetto anconitano (o agontano, secondo la dizione dell'autore) del Roman de la Rose, la grande visione allegorica del Duecento francese le cui ramificazioni si spingono fino alla Commedia dantesca. Anzi, com'è noto, Gianfranco Contini era persuaso che il volgarizzamento toscano del poema, Il Fiore, fosse da attribuire allo stesso Dante. La notazione chiama direttamente in causa l'autodidatta e rigoroso Scataglini, tra le cui letture fondamentali risultano proprio i Poeti del Duecento curati da Contini all'inizio dei Sessanta. Insieme con Lo spirito romanzo di Ezra Pound, Poeti del Duecento è il libro attraverso il quale Scataglini mette a fuoco la sua poetica. Un percorso non dissimile da quello del famoso "Uomo vivo" di G.K. Chesterton o del protagonista di Il dottor Bergelon, romanzo di Georges Simenon appena pubblicato da Adelphi: personaggi che compiono un periplo più o meno tortuoso per tornare a casa. Nel caso di Scataglini, si tratta di andare da Valle Miano a Valle Miano, rione della periferia di Ancona la cui parlata viene gradualmente trasfigurata in quello che, con felice formula, Canettieri definisce l' idialetto" di Scataglini. Un dialetto, cioè, che assume i connotati di personale lingua dell'interiorità (l'idioletto, appunto) e di formidabile strumento letterario.
Prima di essere applicati con paradossale rigore filologico alla prima sezione del Roman de la Rose, che va sotto il nome di Guillaume de Lorris, suoni e segni dell'agontano avevano consentito a Scataglini di trovare la propria voce. E il motivo per cui la sequenza di Tutte le poesie si apre con E per un frutto piace tutto l'orto (1973), che sarebbe la seconda raccolta, ma è la prima composta nel suo "idialetto". La silloge di esordio, Echi, rientra nell'appendice (peraltro corposa e non priva di felici ritrovamenti) dedicata alle poesie in italiano. Pubblicata nel 1950 da un autore appena ventenne, porta ancora il segno dell'iniziazione propiziata dalla lettura di Montale. A permettere il consolidarsi della vocazione di Scataglini sarà, da lì a breve, il confronto con Pier Paolo Pasolini, in particolare come promotore e teorico della poesia dialettale. A ben vedere, l'Academiuta di Casarsa è il modello di una più vasta riconfigurazione delle lingue locali in termini letterari. Ciò che Pasolini fa con il friulano, altri lo faranno con le parole della rispettiva intimità domestica e paesana. Paolo Bertolani con la cadenza della Serra, piccolo borgo sul golfo di Lerici, Raffaello Baldini con il romagnolo di Sant'Arcangelo, lo stesso Loi con il suo milanese fantasioso e cantabile. Poeti di levatura indiscussa, rispetto ai quali Scataglini si pone tuttavia in una postura singolare, che può ricordare il raffinato plurilinguismo di Fernando Bandini, a suo agio tra gli esametri latini e le sottigliezze del vicentino. Analogie a parte (se ne potrebbero elencare molte), la caratteristica principale di Scataglini rimane un'esattezza conseguita per via di semplicità. Non per niente, il tema della "cancellatura" si ripresenta nei suoi versi, come in questo frammento tratto da So'rimaso la spina (1977): «Per me vita e scritura / ène compagni, el sai, / tuta scancelatura / dopo dulor de sbai». Questa dei settenari disposti in quartina è la configurazione classica della poesia di Scataglini, messa a punto con un lavorio minuzioso del quale danno conto i manoscritti riprodotti da Canettieri a integrazione della sua eccellente ricognizione critica. Il settenario agontano si presta a memorabili bozzetti sentimentali, come questo di Carta Laniena (1982): «La viuza del mio amore / (al sbando, verso sera, / de sot' al piatto, còre / de lampadina - a pera). Ma può anche essere declinato in termini di complessità metafisica («Per colpa e malandanza / c'émi do scarpe sole: / dulor cugí le sole / ce le scugí speranza», si legge in La tortora quinaria). Può, più che altro, restituire al presente l'immaginazione di uno sfuggente poeta del Medioevo: «Tuto quel che se sogna / fola è detto e menzogna / ma è tanti i sogni certi / che poi se vede operti / come se sogna e vole / sotto al lume del sole», scandisce l'incipit della Rosa. Conquistata la lingua, anche la forma si lascia finalmente riconoscere.