Recensioni / Le potenzialità della “differenza italiana” nell’età della globalizzazione

La collocazione editoriale del libro di Claverini – assegnista di ricerca in Filosofia presso l’Università di Salerno – non è casuale e permette immediatamente al lettore di intuirne la proposta: il testo è stato pubblicato, infatti, nella collana “Materiali IT” di Quodlibet, sezione speciale volta a valorizzare il pensiero italiano contemporaneo, e non solo, e a stimolarne lo sviluppo a partire dal riconoscimento del successo che, negli ultimi anni, la nostra tradizione filoso- fica ha riscosso nel panorama filosofico internazionale – soprattutto negli Stati Uniti – sotto la dicitura di “Italian Thought” o “Italian Theory”, tra i cui più noti esponenti vi sono – tra gli altri – Roberto Esposito, Giorgio Agamben, Adriana Cavarero, Giacomo Marramao e Antonio Negri. A dimostrazione dello stato di salute di cui gode il pensiero filosofico italiano e del riconoscimento del contributo che la nostra comunità filosofica può dare nel contesto del dibattito filosofico internazionale, vi è, per la quarta volta nella storia, l’assegnazione all’Italia del 25° Congresso Mondiale di Filosofia – dedicato al tema “Pensare oltre le frontiere” – che si terrà alla Sapienza di Roma nel 2024.
Corrado Claverini apre la propria riflessione sul tema ponendo ed esaminando una serie di domande fondamentali: ha senso parlare di nazionalità della filosofia? Ammettendo che la filosofia sia determinata da fattori storico-geografici, ciò entra in contraddizione con la sua aspirazione universalistica? Come si articola il rapporto tra l’elemento territoriale e quello globalistico? Esiste una tradizione filosofica specificamente italiana? E, se esiste, quali sono i tuoi tratti peculiari? In ultima istanza, cosa significa ripensare la tradizione italiana? Quali sono gli strumenti rintracciabili nel pensiero italiano, utili per interpretare l’attualità e favorire la ricostruzione intellettuale delle nostre società?
Il libro illustra e dibatte quattro autori paradigmatici della filosofia italiana – facce dello stesso prisma, dunque, non reciprocamente escludentesi – che hanno particolarmente insistito su tali tematiche con l’obiettivo di delineare essenza e confini della “specificità” o “anomalia” italiana, ovvero di individuare e valorizzare gli aspetti che rendono originale il nostro patrimonio di pensiero, sullo sfondo della grande tradizione europea. L’interrogativo da cui l’autore muove riguarda innanzitutto la possibilità di pensare una tradizione filosofica nazionale specifica e, in caso di risposta affermativa, la ricerca dei suoi caratteri peculiari, distintivi e duraturi. Claverini accompagna così il lettore in un fecondo percorso di ricostruzione critica, di ripensamento ermeneutico non solo di “chi siamo stati”, filosoficamente parlando, ma anche di “chi vogliamo essere” e, dunque, che contributo possiamo e vogliamo dare oggi e nel futuro. È proprio nelle conclusioni, poi, che – con la chiarezza espositiva che caratterizza l’intero libro – si aprono percorsi analitici stimolanti relativi alla prospettiva dell’interdisciplinarità, al rapporto tra filosofia e letteratura ma anche tra pensiero e lingua che, come scrive Claverini, «non possono non essere considerati insieme in uno studio completo sull’identità della nostra cultura».
Il nucleo nevralgico e originario della nostra tradizione filosofica viene presentato nel primo paradigma, il “filosofo militante” Bertrando Spaventa che, nell’anno accademico 1861-1862, tenne presso l’Università di Napoli un ciclo di lezioni sulla storia della filosofia italiana nelle sue relazioni con quella europea. Egli elaborò per primo la categoria del precorrimento in base a cui la filosofia italiana può essere intesa come genio precursore della modernità e per cui, quindi, Campanella, Bruno e Vico anticiparono rispettivamente il soggetto cartesiano, il panteismo spinoziano e tutta la filosofia tedesca da Kant a Hegel. La tesi di Spaventa, conosciuta come la teoria della “circolazione europea del pensiero italiano”, non si limita però solo a postulare la deterritorializzazione e migrazione della nostra produzione filosofica nazionale in Europa – determinata in parte anche dall’assenza di libertà filosofica nel nostro paese – ma anche il ritorno in Italia delle grandi acquisizioni della filosofia moderna e la loro riappropriazione da parte di Galluppi, Rosmini e Gioberti. Fu proprio questa grande lezione spaventiana a dare inizio, per certi versi, alla volontà di restituire al pensiero italiano la sua potenza teoretica e il suo impatto concreto, dimostrando come essa ab- bia tutti i titoli per tenere testa alla tradizione europea.
Il secondo paradigma è rappresentato, invece, da Giovanni Gentile che, animato da una forte istanza etica e politica, si dedicò attivamente all’impegno di riscrivere la storia della filosofia italiana – concepita nei termini del superamento della trascendenza medievale a favore di un graduale processo di immanentizzazione – ribadendone, in accordo con Spaventa, la nazionalità in termini di carattere storico, ovvero nella misura in cui nell’opera dei filosofi si raccoglie, inevitabilmente, la realtà dell’epoca in cui essi vivono. Su questo punto, è evidente il contrasto con la posizione crociana secondo cui, invece, non ha senso parlare di una filosofia francese, tedesca o italiana ma solo ed esclusivamente di “Filosofia”, senza aggettivi né determinazioni territoriali. Tuttavia, Gentile va addirittura oltre Spaventa nell’affermare non semplicemente la nazionalità della filosofia ma addirittura il suo essere “personale” in quanto riflessione concreta, sviluppata dall’uomo “pratico”, non alienato e isolato all’interno della stanza chiusa del pensiero solitario e meramente speculativo ma saldamente inserito nel contesto storico e sociopolitico che lo circonda.
Nel primo dopoguerra è Eugenio Garin, terzo paradigma, che eredita da Gentile l’idea di completare una storia della filosofia italiana, che quest’ultimo – fermandosi all’umanesimo – non era riuscito a portare a termine avendo dovuto dedicarsi a coprire i “vuoti storiografici” lasciati da Spaventa relativi ad autori come Beccari, Capponi, Genovesi o Filangeri. Anch’egli sottolinea la vocazione etico – civile del pensiero italiano ma lo fa in modo nuovo, abbandonando l’idealismo dei due paradigmi precedenti e riconoscendo i limiti costitutivi dell’essere umano e delle sue opere – politica inclusa – in una dialettica costante di utopia e disincanto che non nega la discontinuità storica né tenta di giustificarne i mutamenti affidandosi ad un principio teleologico.
È la concezione gariniana di una tradizione nazionale non monolitica né unitaria, fatta di sfumature, che – intersecandosi e sovrapponendosi ai paradigmi precedenti – torna a materializzarsi in un quarto movimento: la vasta galassia di impostazione storico - teoretica nota come Italian Though, divenuta oggetto di analisi nel nostro paese a partire dalla pubblicazione nel 2010 del libro di Roberto Esposito intitolato “Pensiero Vivente” e particolarmente apprezzata all’estero per la sua capacità di rispondere ad un sempre più diffuso bisogno di concretezza e di categorie nuove, all’altezza dei tempi. Quasi a incarnare la tesi iniziale di Spaventa, quest’ultimo paradigma porta alla nostra attenzione una filosofia italiana – forte del proprio patrimonio concettuale e capace di svilupparlo e adattarlo alla necessità emergenti nel mondo globalizzato – apolide, estroflessa, dispersa nei grandi paesi stranieri – Stati Uniti da un lato, Francia, Inghilterra e Germania dall’altro ma non solo –, costituendosi come un prodotto intellettuale originale al di fuori del proprio contesto di origine, accettato da un’altra cultura che l’ha reso un proprio paradigma di lettura della realtà.
La proposta qualificante del lavoro di Claverini riguarda proprio la necessità di andare oltre una concezione paradigmatica esclusiva, scoprendo la validità e la ricchezza non di una singola, sistematica e monolitica filosofia nazionale – tanto che gli stessi autori paradigmatici presi in esame ne sottolineano ora alcuni aspetti e categorie, ora altri – ma di ciò che la caratterizza nel profondo, cioè la pluralità delle tradizioni, dei filoni di pensiero.
Lo sviluppo del pensiero italiano può essere considerato alla luce di una dialettica triplice: quella tra vita, storia e politica. Lontana dai dilemmi metafisici e ontologici e dall’ossessione trascendentale, quella italiana si contrassegna come una filosofia intrinsecamente “pratica”, della “ragione impura”, che si fa “idea politica”, calandosi nella storia, nel problema della vita e nell’agone della società civile, in quanto scienza dell’uomo e delle sue attività, rivolta a quella che Machiavelli avrebbe chiamato la “verità effettuale”. Il filosofo italiano non si raccoglie nello spazio chiuso e silente del proprio pensiero: si pensi, ad esempio, all’utopia della Città del Sole di Campanella, non fantasia letteraria per evadere dalla realtà bensì progetto concreto, militante, il cui tentativo di realizzazione in Calabria nel 1600 gli costò 27 anni di carcere a Napoli.
È proprio in questa vocazione etica, politica, pedagogica e in questa capacità di resistenza che risiede l’essenza e, a maggior ragione, l’attualità, della tradizione filosofia italiana. Quella che per lungo tempo è stata scambiata per “marginalità”, quasi “provincialismo” – quasi come a paragonare la storia della filosofia italiana a quella di un autore minore – è in realtà la forza di impatto della nostra tradizione, capace di operare mediazioni, di disperdersi e disseminarsi e, al contempo, di introiettare contenuti e autori esterni per restituirli poi in una lettura originale, proprio a partire da questa sorta di ibridazione filosofica.
Ciò che l’autore auspica è che anche le altre tradizioni filosofiche si interroghino sulla propria identità storica e nazionale e, con esse, anche le altre discipline con cui la filosofia interloquisce. Il valore di questo libro sta infatti nel consegnarci l’opportunità di considerare il pensiero italiano come una potenziale via di uscita dalla logica semplificante e omologante del pensiero unico globalizzato dove, anche a causa della necessità di esprimersi nel noto “bad english” proprio della comunicazione accademica internazionale e che condanna inevitabilmente a una perdita di profondità semantica e concettuale, sono gli studiosi i primi a perdere il contatto con la propria “nazionalità filosofica”, da intendersi in un senso che non vuole sembrare nazionalistico e patriottico ma, anzi, la quintessenza del cosmopolitismo più autentico, genuino e potente.
Ad allontanarci dal rischio di sviluppare un discorso autoreferenziale e un’ideologia nazionalista è proprio, infatti, la molteplicità delle prospettive adottabili nella rilettura della nostra tradizione, plurale per essenza: al contempo, questo “ritorno in patria” ci pone al riparo dall’apparentemente inarrestabile omogeneizzazione e appiattimento culturale che la globalizzazione e il nichilismo portano con loro, di fare chiarezza nello spaesamento dovuto al trionfo di un’oggettività scientifica divenuta a-prospettica e alla perdita della memoria storica. Solo apparentemente, quindi, l’elemento storico e nazionale potrebbe inficiare l’elemento veritativo universale proprio della filosofia: in realtà, ciò con cui la specificità territoriale entra in contraddizione è il paradigma dominante della globalizzazione, cioè l’utopia del “non luogo” e della “a-storicità”.
Ricostruire il legame con la tradizione – e riscoprire quello scrigno di valori civili e umanistici che ne fanno parte – ci permette, allora, di approdare ad un cosmopolitismo ricco e reale invece che alla distopia di un internazionalismo indifferenziato e livel- lante, di risvegliare un “pensiero vivente” che a quel punto non rispecchierà un’iden- tità chiusa ma sconfinata, ibrida, multilineare, contaminata e capace di dialogare con le altre tradizioni filosofiche ma anche con tutto ciò che filosofia non è, in una dialettica perenne tra identità culturale e cosmopolitismo.
Ammettere l’ibridismo delle culture filosofiche non equivale, dunque, a negarne le specificità: la “contaminazione” deriva semplicemente dal fatto che – come sostengono sia Spaventa che Gentile – la filosofia circola, e lo fa continuamente, in quanto le idee sono, ancora oggi, la cosa più migratoria del mondo. Inoltre, è bene ricordare che valorizzare la pluralità e la ricchezza della nostra tradizione filosofica non ci allontana dalla possibilità di fruire di quell’immenso tempio filosofico occidentale cui noi europei possiamo fare riferimento e che, per usare un’espressione di Croce, non è la Chiesa di Sant’Ambrogio o San Gennaro ma il Pantheon.
Infine, comprendiamo come il fatto che la filosofia è storicamente e geograficamente determinata non impedisca di superare la denominazione territoriale ogni qual volta una categoria, una specificità dimostri di fare presa sulla realtà e quindi di poter assurgere a patrimonio dell’umanità, di poter parlare a “tutti gli uomini”, valicando i confini nazionali e oltrepassando la propria genesi storica. La domanda conclusiva, dunque, potrebbe essere posta in questi termini: che cosa la nostra tradizione filosofica – con il suo bagaglio di policentrismo e pluralismo – ha da dire oggi al mondo in un’ottica globalizzata? Al libro di Claverini va riconosciuto il merito di aver elaborato una buona parte della risposta a questa domanda, non trattando la filosofia come un oggetto museale “astorico” ma come ontologia dell’attualità, come – appunto – pensiero vivente che non ha ancora finito di dire quello che ha da dire, ancora una volta all’altezza di un presente storico difficile. Potremmo dire, forse, che l’autore scava nel passato alla ricerca del futuro, con l’obiettivo di riportare alla luce una terza via, “al di là della globalizzazione e del nazionalismo”, ovvero la via della Filosofia.

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