Recensioni / Un Pierrot lunaire nella provincia lombarda

“Perso in un limbo sociale, con la cultura del borghese, le origini proletarie e il futuro del disabile economico”, Guglielmo Sputacchiera è un giovane che non ha il coraggio di affrontare il mondo e preferisce la disoccupazione volontaria alla “nobiltà di un mestiere spazzino”. Malato di solitudine e di vergogna, avvezzo a camminare a occhi bassi “per autodifesa sociale e schifo di sé”, vive in un’epoca in cui troppi si compiacciono del successo di poche eccellenze, convinti che questo dimostri la democraticità del sistema. Avendo di sé l’autostima che il suo cognome ben sintetizza, e nella consapevolezza di essere “sentimentalmente invalido”, Sputacchiera conduce una vita rigorosamente passiva chiuso nella sua camera – sebbene abbia più di trent’anni, vive ancora con i genitori –, con gli occhi fissi sullo schermo del pc, sul quale scorrono le immagini di un film porno dopo l’altro, molestato dal desiderio di ciò che per lui resta irraggiungibile, finché una mattina d’agosto, ormai dimentico di vivere, si sveglia tramutato nell’oggetto stesso del suo desiderio, la creatura a lui più sconosciuta – una donna, o meglio, un donno.

Alberto Ravasio, finalista della XXXIV edizione del Premio Calvino, è stato nel 2020 il vincitore del concorso per racconti fantastici “Leggere i venti”, indetto anch’esso dal Premio Calvino in collaborazione con BookPride e “Il sole 24 ore”. In Nostra Signora dei Venti, pubblicato sull’inserto domenicale del “Sole”, l’autore ha mostrato di saper affrontare situazioni o argomenti che per la loro delicatezza impongono cautela nell’essere trattati, al tempo stesso mitigandoli con ironia sottile. La forza del racconto – e la sua felicità – sta proprio nel contrasto tra la raffinatezza della scrittura e la scabrosità dell’argomento. Ora nel suo romanzo d’esordio – vincitore della Classifica di qualità dell’“Indiscreto” nella sezione Narrativa italiana – Ravasio sviluppa un racconto già finalista della prima edizione del concorso, La transessualizzazione forzata di Guglielmo Sputacchiera. Nel romanzo, uscito nella prestigiosa collana Compagnia Extra diretta da Ermanno Cavazzoni per Quodlibet, la trasformazione in donna del protagonista si compie portando con sé tutto il dolore di un giovane che non riesce a sentire in profondità i propri bisogni e desideri e che si realizza unicamente nell’occhio del maschio: da buon, fantozziano, impiegato reificato si trasforma in uomo reificato tout court, ridotto alla condizione di nemmeno tanto oscuro oggetto del desiderio di una visione maschilista e mercificatrice della donna.

Per questo “vulvolatra acritico”, ingabbiato nella sua testa infelice, l’uso compulsivo del porno – in cui riecheggiano echi felliniani – crea un vero e proprio “contromondo”, per dirla con Philip Roth, un’entità che ha colonizzato l’immaginario erotico di chi come Sputacchiera muore ogni giorno di “fame vaginale”, ma anche di fame tout court e soprattutto di sogni. Al di fuori della sua stanzetta c’è l’assenza di qualsivoglia rapporto con i genitori e, oltre la porta, il “paesello stercoso” in cui vive, fuori dalla Storia, dove tutto accade “all’indicativo presente, senza passato e senza futuro”. Quello di Ravasio è un ritratto impietoso del provincialismo lombardo-veneto, insensibile alla cultura, “ingrassato dal boom economico ma eternamente mezzadro nella calotta cranica”, dove per la prima volta nella storia la generazione dei padri mangia del tutto “il futuro a quella dei figli”, pionieri di un nuovo “proletariato colto”.

La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera è un romanzo tragicomico che trasforma il dolore in consapevolezza e che non viene mai meno a ciò che promette fin dalle prime pagine: come nella Metamorfosi di Kafka, anche la trasformazione di cui si narra qui inizia come una condizione comica che, però, nel corso della narrazione lascia affiorare sempre più un substrato drammatico, in cui il protagonista scopre “quanto sia delicata, friabile e disperatamente cava quella roccia chiamata virilità”, una scoperta che passo dopo passo culmina nella tragedia. E Ravasio, grazie a una scrittura acrobatica che sarebbe piaciuta a Burroughs, oscena ma mai volgare, secondo una definizione cara ad Aldo Busi, mostra uno stile già riconoscibile, che sorprende per la sua grande coerenza, e tesse un romanzo dissacrante, dove si ride molto ma si ride amaro e alla fine non si ride più. Ci si commuove solo di fronte alla disfatta di un uomo in cerca dell’amore, che viene disarmato dal più proibito dei gesti – un bacio – e dal più necessario dei sentimenti – la tenerezza. E nelle ultime, strazianti pagine il giovane protagonista si mostra, forse perché dalla finestra filtra la “luce assonnata della luna”, nella sua irriducibile essenza: un melanconico Pierrot lunaire. Col suo sorriso appena abbozzato, pronto a ricevere la lacrima che – inesorabile – scende lungo la guancia, questo Pierrot della provincia lombarda, atonale e dissonante, ci appare per quello che è e, incantato dalla luna, prende posto nella galleria degli umiliati e offesi della Storia.

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