Recensioni / La diva

[Esce oggi per la collana “Elements” di Quodlibet (diretta da Luciano Curreri, Gabriele Fichera, Vittorio Frigerio, Giuseppe Traina) Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici, uno studio di Riccardo Donati dedicato a tre grandi emozioni mediali che i poeti del secondo novecento hanno rielaborato nei propri versi. Ne presentiamo qui un capitolo]

I love poetry and poets.
Marilyn Monroe, appunti per un’intervista, 1962

Possiedo una foto di Marilyn regalatami da un amico, che deve essere stata fatta da Avedon, la sola testa, con i capelli biondi; è veramente la rappresentazione della nascita di Venere. Nello studio di questo amico era appesa alta sul muro e io prendevo una sedia e le davo un bacio. Finalmente sono riuscito ad averla.
Carlo Scarpa

1. Et strinse il cor d’un laccio sì possente

Il filo del petrarchismo corre lungo la cultura italiana del Novecento più saldo e robusto di quanto comunemente non si pensi. Nella nostra poesia in particolare esiste una ricca vena di “petrarchismo divistico” che ha fatto di alcune star hollywoodiane altrettante Laure da celebrare: penso alla Marlene di Cecchi, alla Katherine Hepburn di Bigongiari, alla Schygulla di Ripellino. Più di recente, alla Audrey Hepburn di De Angelis. Tutti casi in cui a risuonare è soprattutto – per rubare il titolo a un memorabile saggio di Giorgio Orelli – il suono dei sospiri, anche per la tendenza a frammentare il corpo di lei in una serie di primi piani ipersignificanti: le gambe, poniamo, per la Dietrich, il viso per la Garbo. Sedendo e mirando i venerabili dettagli anatomici miriadizzati dal montaggio capita sovente che il poeta riscopra il proprio millenario statuto di amante platonico, la propria donchisciottesca devozione. Nella cultura letteraria del secolo scorso, a dominante maschile, la sublimazione della vedette comporta il rinnovarsi di quella celebrazione della distanza che è l’effetto del mancato (impossibile) possesso. Ma siccome la diva, insegnava Edgar Morin già nel seminale Les stars (1957), reca in sé una natura duplice, umana (in quanto individuo) e sovrumana (in quanto figura di luce), ecco che il voyeurismo istigato dalla tele-visione – la vita di lei, dentro e fuori dallo schermo, che si srotola sotto gli occhi di tutti, ma da una distanza incommensurabile – si rivela tanto più pronunciato quanto più doloroso ed eventualmente funesto è il fato che le tocca in sorte. Insomma, eros e thanathos cinedivizzati si impongono come materia di canto, costantemente sotto il segno della lontananza, dell’assenza, dello struggimento o della compassione.
In questo senso, anche in questo senso, nessuna è stata come Marilyn al contempo una dea (del sesso) di euforico splendore, apportatrice di beatitudini, e una creatura vulnerabile, malinconica, degna di pietà in vita e in morte. Nessuna la eguaglia in quanto «fantasma modulatorio del desiderio» (Pezzella 1999, p. 72), capace di introdurre nell’immaginario mediale un nuovo codice del corpo, per dirla con Marco Antonio Bazzocchi. Con lei, dopo di lei, anche gli ammicchi, i gesti, le tecniche espressive della fisicità mutano in tutto l’Occidente. Il contraltare di questo massimo di carnalità debordante, dionisiaca, è una psiche disarmata, resa ancor più fragile da una tribolata vicenda personale: l’infanzia difficile, gli amori contrastati, la morte improvvisa e piena di ombre, l’immagine postuma fatta a brandelli/brandizzata dai media. Per tutti questi motivi, nessuna «rappresenta meglio di Marilyn Monroe la contraddizione tra star-divinità e star-merce», dal momento che «incarna agli occhi della posterità sia lo splendore dell’età d’oro della celebrità hollywoodiana, sia le tragedie umane che talvolta si consumano all’ombra della maschera seducente della fama» (Gundle 1999, p. 695). Norma Jeane Baker of Troy la chiama Anne Carson in una spigolosa, affilata pièce del 2019, a ribadirne lo statuto mitico attraverso la coincidenza di Ilio e Hollywood, pin-up californiana e Elena euripidea. Marilyn oltre la carne e il fiato, Marilyn fotografata, Marilyn fotogrammata, Marilyn voce da un disco. Marylin idolo sepolcrale, Euridice illusa da troppi Orfeo, Ofelia annegata nel flux de connerie (direbbero Deleuze e Guattari) dell’entertainment, Ilaria del Carretto eternata da una lastra non già marmorea bensì fotografica. «In un cimiterino di centocinquanta o duecento posti, riposa Marilyn Monroe, l’unica attrice che ho amato», annota nel Diario Cinematografico Cesare Zavattini, in pellegrinaggio sulla tomba di lei nell’aprile del 1966 (Zavattini 2002, p. 553).
A fronte di una sterminata produzione letteraria dedicata a questa figura posta all’intersezione tra mitologia divistica, discorso amoroso e ossessione luttuosa (utile in tal senso cfr. Manzoli 2006), l’analisi di alcune liriche esemplari consente di evidenziare il notevole impatto che l’emozione mediale Marilyn ha avuto sui poeti italiani, illuminando al contempo le loro rispettive poetiche e talune stratigrafie generazionali-contestuali del secondo Novecento. Certo, sono tutte visioni orientate al genere: pur nelle differenze, si tratta sempre di uomini che proiettano su di lei i propri fantasmi, assegnandole il ruolo di supporto, e non di produttrice, di significati. La donna è immagine, l’uomo portatore di sguardo. Di questo Norma Jeane era peraltro assai consapevole, e il sapersi spettro, ancora in vita, fa parte del suo dramma: I guess I am a fantasy, pare abbia detto un giorno, tre anni prima del suicidio. Già in vita Marilyn è una Laura consapevole dell’aura (in senso, anche, benjaminiano), e presaga di morte: anche questo fa di lei la regina del “petrarchismo divistico”.
Molte delle poesie dedicate a Marilyn si presentano come una recollectio di sparsi frammenti esistenziali illuminati dal contatto con un presente bruciante e rivelatore di ulteriori dimensioni temporali. È il caso di due poeti italiani di sicura (seppur divergente) discendenza petrarchesca: Mario Luzi e Pier Paolo Pasolini. Norma Jeane è al centro di una doppia epifania all’interno della silloge Al fuoco della controversia, che Luzi dà alle stampe nel 1978. In entrambe le occorrenze la sua figura è recuperata in chiave simbolico-creaturale, come emblema di un essere umano schiacciato dalla violenza della Storia.
Marilyn compare una prima volta nel poema Graffito dell’eterna zarina, testo tripartito e di ispirazione corale, riflesso di un’età tumultuosa, agitata da contrasti ed estremismi (il terrorismo endemico, i contrapposti imperi che si fronteggiavano al fuoco della Guerra Fredda). Nel secondo movimento del Graffito si staglia, fenditura intrapsichica tra le altre, una sequenza di una decina di versi (58-70: cfr. Luzi 1998, p. 423) in cui la coscienza del poeta è spettralmente visitata dalla scena del suicidio dell’attrice – che qui rappresenta una delle incarnazioni della sfuggente, polimorfa figura regale (ma decaduta, minacciata) al centro del poema: la zarina, appunto, del titolo.
La scena onirica, vale a dire cinematica, da cui origina la finzione lirica, si apre con una misteriosa telefonata. Una voce minaccia la diva: «la chiamava per nome, la chiamava con insolenza» (v. 59). Marilyn, «la pur adulata dai notabili, / la pur onnipresente rossa girl» (vv. 63-64) esita. Poi, nel tono teso e alto del poeta che le presta il fiato, pronuncia una sentenza sibillina, forse un lamento o forse una richiesta di soccorso: «”Qualcuno soffia nel cumulo / dove sono ammonticchiata / nei miei tre pugni di polvere” gemette» (vv. 60-62). Stefano Verdino ha rilevato qui una eco puntuale della Waste Land di Eliot nella traduzione di Luigi Berti: «In un pugno di polvere ti mostrerò la paura» (cfr. Verdino 1998, p. 1597). Norma esitava, scrive Luzi, «tra se stessa e il mondo, / tra paura e paura senza invocarmi» (vv. 68-69). Mentre la fear del verso eliotiano, che allude oracolarmente a un presentimento di morte (pulvis eris…), si reduplica a restituire un’oscillazione, un’incertezza tra gli opposti poli del Self e del World, con l’«invocarmi» del v. 69 il soggetto lirico, fino a quel momento rimasto muto sullo sfondo, fa la propria comparsa nello spazio psichicamente simulato, desolato e siderale, della scena del suicidio.
Sulla scorta di un gusto teatrale che andrà, con gli anni, consolidandosi, il poeta toscano si presenta come spettatore silenzioso di un dramma cui assiste contristato, ma senza aver modo di agire. Sia pur con riluttanza, deve far ritorno dietro le quinte: «finché volsi le spalle io pure e uscii nel buio imprecando» (v. 70). L’insopportabile tensione morale evidenziata dall’improperio in exitu – figura di risentimento non certo usuale in Luzi, mentre l’impiego semanticamente rilevato del gerundio è frequente in Al fuoco della controversia – sottintende l’impossibilità della poesia di intervenire concretamente in difesa di quanti soffrono, sono minacciati, subiscono torti. Lo spegnersi della star – che, si noti, cade fuori scena – è un fatto umano che la poesia è dolorosamente chiamata a rivelare e caritatevolmente compatire, non potendo agire per scongiurarla. La sequenza onirico-filmica allestita da questo pugno di versi dice, soprattutto, di uno scoramento davanti alle enormità perpetrate dagli uomini, allo sconcio di una società rapace e dimentica di pietas, alla solitudine immedicabile di una donna.
La dimensione di risentita testimonianza la cede a un’esperienza di meditatio mortis nella seconda epifania di Marilyn all’interno di Al fuoco della controversia. Che vuoi dirmi ancora, che altro vuoi farmi conoscere è una lirica dove l’adempiersi, cosciente, del destino (il suicidio del 4 agosto 1962) si carica del tono e del respiro della tragedia antica, fuori dalla durata individuale e dentro la «storia millenaria» del genere umano, ciò che in Di notte, un paese è chiamato «lo sgocciolio e il rimbalzo / dei secoli nei secoli» (Luzi 1998, p. 306):

Che vuoi dirmi ancora, che altro vuoi farmi conoscere
e espiare – implora
sapesse almeno chi,
lo ignora del tutto, lo ignora disperatamente.
Piange anche di questo nella tortura del risveglio
la molto chiara e concupita vamp
usata, geme, in tutte le sue pieghe,
secca di tutte le sue linfe – E può
da un momento all’altro
squillare il telefono, essere in linea il Presidente,
chiamarla ancora al lussurioso gioco
o a una frivola vacanza, lei
millenaria maschera terrosa
umiliata dalla primavera del mare,
dal mare lasciata in secco, che non è altro.
Tutto ghiacciato in una foto, tutto bruciato in un lampo (Luzi 1998, p. 475).

È stato notato come la forma discorsiva dell’interrogazione indiretta instauri una qualche continuità con la precedente epifania di Marilyn in Graffito, continuità confermata dalla ritornante, ossessiva immagine del telefono (cfr. Verdino 1998, p. 1611). L’apparecchio che annulla lo spazio acustico e insieme marca la distanza tra i corpi è anche un filo (quando ancora i telefoni avevano i fili…) che può crudelmente determinare il gioco del fato, al pari di quello della parca.
Mentre la prima figura che minaccia Norma Jeane resta ignota persino a lei (v. 4) – si tratta forse di un’entità metafisica? La quaestio è rivolta alla Morte stessa? – la seconda, il carismatico Kennedy (v. 10), si presenta come maschera di un Potere degenere che oltraggia i deboli, e le donne in particolare, soggiogandole ai propri bassi appetiti (Luzi non dimentica come Marilyn fosse, anche, presa nella tagliola del disamore, per ricordare un bel titolo di Jolanda Insana). L’avvenente, avvilita Norma Jeane – «molto chiara», nella doppia accezione di celebre ma anche dalla bellezza luminosa – risplende nella sua vulnerabilità, che è poi la vulnerabilità di tutti quelli che soccombono alla potenza di corruzione insita nel mondo. Sono soprattutto i vv. 5-8 e 12-16 a certificare questa immagine di Marilyn come figura sacrificale assoluta, entro una superiore ricomposizione di ciò che è transeunte e di ciò che avviene. La sua afflizione (v. 5 e 7) è forse una lucida presa di coscienza del male che l’uomo infligge ai propri simili, o forse un momento di prescienza della funesta sorte che l’attende. Non a caso il 1978 è anche l’anno dell’azione drammaturgica Libro di Ipazia. Luzi è colpito da questi due fatti umani di rara potenza tragica, da queste due storie di donne martirizzate dal potere maschile: la sua «concupita vamp» è, a tutti gli effetti, una seconda Ipazia.
L’innesco visivo del componimento è stavolta esplicitato (lo conferma l’autore stesso in Luzi 1999, p. 189): si tratta di un ritratto fotografico della Monroe, uno scatto che, nel momento stesso in cui fissa su carta la scintilla vitale dell’attrice, subito la brucia, circonfondendola di un’aura luttuosa. Una suggestione simile si ritroverà nella lirica Non trattenute le immagini in Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), con la «febbricitante star» “caduta” «sotto il fuoco dei fotografi» (Luzi 1998, p. 520). Difficile poi non pensare alle serigrafie-tributo Marilyns che Andy Warhol realizzò nei mesi successivi alla morte della diva, rendendo, osserva Laura Mulvey, la maschera della bellezza e quella della morte incredibilmente prossime l’una all’altra, come se la messa in posa di lei prefigurasse l’immobilità della salma (cfr. Mulvey 2015, p. 13). Ciò che l’emozione mediale qui sollecita è lo scolpirsi nella luce non di un volto animato, acceso, bensì di un’inorganica, livida maschera «terrosa». Siamo dalle parti dell’antropologia delle immagini di Hans Belting, e si noti come questo aggettivo ancipite, «terrosa», possa rimandare sia al trucco, al glamour di un viso modellato da un’opera di stilizzazione, cosmeticamente iperconnotato (gli zigomi rilevati, le labbra scintillanti), sia all’argilla di un calco mortuario (in parallelo con la «maschera di sale» menzionata in chiusa del secondo movimento di Graffito della zarina: cfr. Luzi 1998, p. 430).
Statua di sale, pietrificata dal dolore ma anche dilavata dalle lacrime, questa Marilyn umida/asciutta, liquida e prosciugata, appartiene a pieno titolo alla genia dei corpi piangenti luziani, discendenti d’una metaforica secolare. Corpi intrisi di Medioevo, tra pittura (la pena infinita dei progenitori masacceschi) e reminiscenze della Commedia: il Veglio di Creta, la statua dalla testa aurea il cui strazio genera i fiumi infernali (cfr. Moretti 1999, pp. 132-4). Quanto alla «primavera del mare» (v. 14) – forse eco di una lirica di Govoni – si tratta di un’immagine che corre lungo tutta l’opera del poeta, da, poniamo, il giovanile Alla primavera (1935) fino a Quei fremiti, quei primi (1990) e oltre, passando per la decisiva Invocazione (1948). Il binomio è altamente simbolico del mistero ultimo dell’esistenza, quello che Luzi chiama il corpo oscuro della metamorfosi, ossia la vita che si avvicenda alla vita immolando sé stessa. L’istantanea evocata dall’ossimorica immagine conclusiva è allora anche questo: simulacro di una creatura suppliziata la cui effigie, inchiodata dal medium fotografico, è condannata ad effondersi in aeternum in un pianto dantesco, tra lampi ribollenti di flash (il Flegetonte) e gelide lastre fotosensibili (il Cocito).
Il tema del martirio connota la Monroe, e non potrebbe essere altrimenti, anche nei versi di chi più ha insistito, tra pagina e pellicola, sul tema cristico del sacrificio di sé: Pier Paolo Pasolini. La scomparsa dell’attrice gli ispira subito, a caldo, la canzone Marilyn, interpretata dall’amica-musa-complice Laura Betti, su musica di Filippo Crivelli, in occasione del recital Giro a vuoto n. 3 (1962). Il testo viene poi rielaborato e inserito, con il titolo Sequenza di Marilyn, nel poema foto-cinematografico La rabbia (1963), dove a scandirlo è la voce in poesia, garbata ma ferma, del sodale Giorgio Bassani (cfr. Pasolini 2001, pp. 397-9; cfr. anche Pasolini 2009). Accompagna la recitazione dei versi una serie di fotografie della diva, dall’infanzia alla morte, alternate con «visioni del mondo moderno» (colto nelle sue convulse e distruttive aberrazioni) dialetticamente contrapposte a «visioni del mondo arcaico». Il «pastiche stilistico e concettuale» elaborato da Pasolini (Tricomi 2020, p. 169) intende impartire per via lirica, e conculcare per via ideologica, una lezione sulla vera natura del capitalismo, forza violentemente omologante e per questo spietata nei confronti dei marginali, dei diversi, degli irregolari. Ciò che non si lascia ridurre a merce, insegna il poeta, viene espulso: una regola che vale persino per il venerato, concupito, corpo di Norma Jeane. Il paradosso è vertiginoso: ai suoi occhi la sorte della star per eccellenza, della regina di Hollywood, è comparabile a quella degli ultimi, degli sfruttati, dei sottoproletari spazzati via dall’avida furia dalla società dei consumi, il cui braccio armato è il militarismo neo-fascista (non a caso la Sequenza di Marilyn si apre, e si chiude, su astri di morte che squassano il cielo dello schermo: le detonazioni atomiche).
Altrove ho avuto modo di parlare, per Pasolini, di uno “sguardo-avvento” oscillante tra due poli: quello che fa dell’immagine un idolo passionale, «contraddistinto dall’aspirazione alla resa espressionistica della divina carnalità», e quello che ne fa un’icona ideologica, arcaico-sacrale e caratterizzata «da una cerebrale esigenza di purezza (sia pure una purezza incarnata)» (Donati 2014, p. 130). La Monroe della Rabbia è tutte e due le cose, idolo e icona, l’uno come l’altra incompatibili col conservatorismo perbenista della società occidentale (stiamo parlando, naturalmente, degli anni Sessanta). La favola bella di Norma Jeane racconta di una sessualità disinibita (consentanea al culto vitalista che, bene o male, connota il poeta), e tuttavia non liberata: per questo la diva è, al fondo, una bambina sotto lo schiaffo della legge del padre (in senso freudiano) – legge di cui ha il monopolio la repressiva, e mortifera, «classe padrona della bellezza» (Pasolini 2001, p. 400).
«Povera, dolce Marilyn», si legge nel Trattamento pubblicato da «Vie Nuove» nel settembre del 1962, a solo un mese dal suicidio di lei, «sorellina ubbidiente, carica della tua bellezza come di una fatalità che rallegra e uccide» (Pasolini 2001, p. 410). Lo scrittore aveva forse memoria di un componimento di Pablo Neruda, Tina Modotti ha muerto (1942), vibrante di passione civile e di afflato umano, nel quale l’epiteto hermana, riferito alla grande artista e attrice friulana, ricorre a più riprese. Inoltre la Monroe spesso definisce sé stessa una little girl divorata dal desiderio-ossessione di crescere – grow up, verbo ricorrente nei suoi scritti – per vedersi accettata dai grown ups, da quei «fratelli più grandi», «fratelli maggiori» (v. 4 e 47: Luzi, abbiamo visto, li chiama «notabili») che si appropriano della bellezza, come di ogni altra cosa, solo per consumarla fino a distruggerla. Al contempo le sue vicissitudini, e soprattutto la fine violenta, ne fanno, agli occhi del poeta, una figura ancestrale, arcaica, di martirio, precedente la secolarizzazione capitalistica. «Colombella d’oro», «colomba d’oro» (v. 34 e 43), la invoca la carezzevole voce di Bassani, incrociando l’eco biblica del Cantico dei Cantici con la pulvis aurea della chioma biondo platino (v. 22: e qui ritroviamo Petrarca, la purezza metonimicamente espressa dai capelli dorati).
Insomma, l’immolarsi rituale di Norma Jeane comporta, come sempre in Pasolini, l’esaltazione dell’archetipo (angelico, salvifico) contro la Storia (diabolica, corruttrice), al punto che nella densa Sequenza di Marilyn non manca un provocatorio paragone tra la pin-up e Cristo, tra il gesto fatale di lei e la sempiterna vicenda della Passione. La rabbia si colloca del resto fra il Vangelo secondo Matteo e Comizi d’amore, che sono degli stessi anni. Tra i lacerti di «mondo antico» (v. 1) che portano sullo schermo, alternati ai ritratti di Marilyn, avanzi di un «folklore cattolico e primitivo» (Pasolini 2001, p. 397), spiccano così, e per ben due volte, i fotogrammi di un figurante coronato di spine in una messa in scena di paese. Non c’è chi non veda qui una triangolazione/sovrapposizione tra il Christus patiens, il sé-vocato-al-martirio, e Norma Jeane, «sorellina» (v. 3, 8, 26, 52) nel senso di simile, di affine, di congiunta al poeta da una medesima condizione di minorità e sopraffazione. Come non citare allora le parole con cui Arthur Miller intese commemorarla in quel triste agosto del 1962: «per sopravvivere, sarebbe dovuta essere più cinica. O quanto meno più realista. Invece era un poeta che, all’angolo della strada, cercava di recitare i suoi versi a una folla desiderosa solo di strapparle i vestiti» (cit. in Monroe 2010, p. 39).
I versi pasoliniani – con i loro non pochi limiti, tra cui l’indulgere nel registro patetico post-crepuscolare – sono importanti anche per un altro motivo. Anni prima che il furor contestatario deflagri nel Sessantotto veneziano, l’esperimento lirico-saggistico della Rabbia, e in particolare la Sequenza di Marilyn, rappresenta un duro atto d’accusa contro la macchina ideologica dell’industria filmica e la rivendicazione di un’idea radicale (in senso sia estetico sia ideologico) di arte e di società. Qui, più che altrove nel suo lavoro, e proprio attraverso il tema della bellezza estraniata/condannata, Pasolini intreccia con successo il piano storico-dialettico (la spietatezza di un sistema mediale che tutto riduce a merce) e la dimensione religioso-metafisica (la commiserazione dell’umanità peccatrice, schiava di «questa realtà dannata»: Pasolini 2001, p. 410), conseguendo il giusto attrito tra i poli dell’indignazione socio-politica e del fatalismo trascendentale. In Sentire il grisou, George Didi-Huberman ha parlato a proposito di «antropologia politica della bellezza nel mondo contemporaneo», ossia di qualcosa nella bellezza che è progettato per essere alienato e, quindi, per diventare un «male mortale» (Didi-Huberman 2021, pp. 96-7).
Per restare ancora agli anni Sessanta, è interessante rilevare come l’emozione mediale del personaggio Monroe partecipi anche al Giuoco di Sanguineti, dove tuttavia la star in technicolor non figura nei panni della vittima, bensì nel ruolo di mitologema epocale. All’interno di quello che Clara Allasia chiama il «ciclo di Marilyn», vale a dire le caselle iv, xxxiv e lxxxiii dell’antiromanzo, la vamp fa capolino deprivata di ogni attributo psicologico e risemantizzata sulla scorta di alcune immagini esemplari. Rispettivamente: la scena balneare in Something’s Got to Give (Cukor, 1962), filtrata attraverso la Piscina di Valerio Adami (cfr. Portesine 2021, p. 41), alla iv; alcuni fotogrammi di Quando la moglie è in vacanza (Wilder, 1955) alla xxxiv; istantanee e filmati che la immortalano a una festa hollywoodiana nell’agosto del 1952, mentre la Ray Anthony Orchestra esegue un brano a lei dedicato (alla lxxxiii). Come abbiamo visto a proposito di Vampyr, con le caselle xxxix e xliii giocate tra molteplicità psichica e pulsioni necroscopico-necrofile [cap. Il vampiro, nel libro], il Giuoco spolpa del tutto la realtà dall’immagine, fino a rivelare il nocciolo sintomatico della diagnosi sociale. Il corpo liricamente praticabile di Norma Jeane non ha più alcuna consistenza fantasmatica, riducendosi semmai a un diagramma di linee e frammenti erotizzati – labbra, cosce, scollatura, mutandine, dettagli seducenti del viso – eppure senz’aura, insomma a un «feticcio decostruito», per dirla con Mario Pezzella (1999, p. 77). A Sanguineti evidentemente non interessa né compiangerla né glorificarla. Piuttosto, sciorinando fino al sadismo la fenomenologia squisitamente petrarchesca del corps morcelé, le disiecta membra di una simbolicamente de-funzionalizzata, de-functa Marilyn (riprendo qui una suggestione di Stefano Agosti), lo scrittore evidenzia una somatica storica: il corpo cinedivizzato è simulacro duttile, stirabile, componibile come un manichino, puzzle di dettagli erogeni ridotti al grado zero, senza possibilità di sensi ulteriori. Se l’icona-Monroe di Pasolini ostende la sacra bellezza minacciata dal mostro borghese (secondo istanze vitalistico-trascendentali: il poeta come vagheggiato Teseo, come salvifico Perseo), la paper doll di Sanguineti registra la prosaica inautenticità, e vacuità, del bello ricondotto ai suoi minimi termini (riflesso d’una postura immanente e incredula: il poeta come disincantato voyeur).
Resta da osservare come a fare scuola, presso la successiva poesia italiana, saranno, soprattutto, i versi pasoliniani, con la connotazione sororale, apocalittica della regina del glamour (essendo nondimeno svaniti ormai per sempre il pathos accorato, la rabbia protestataria del poeta di Casarsa). Risultano esemplari in tal senso due testi che alla Sequenza di Marilyn esplicitamente si rifanno: Marilyn di Dario Bellezza e Quattro distici e un kit di rime da assemblare di Valerio Magrelli. Il primo viene pubblicato nella raccolta-testamento Proclama sul fascino (Bellezza 1996, pp. 11-12). Negli anni del riflusso nel privato, a contestazione sopita e liberazione sessuale denegata, il poeta romano concentra l’attenzione sugli sparsa fragmenta di una vita ridotta a brandelli/brandizzata da tv e rotocalchi, identificandosi, lui morente, con la diva dalla fine desolata. Nel rielaborare l’immagine della «sorellina» Marilyn, Bellezza, più che elevarla a paradigma di una stortura di sistema, la presenta come una donna ambiziosa e desiderosa di crescere artisticamente ed intellettualmente (grow up). Eppure, nonostante le tante frequentazioni prestigiose, tra cui quelle con esponenti di spicco dell’intellighenzia femminile della sua epoca – ai vv. 7-8 sono citate Carson McCullers e Karen Blixen, che una serie di scatti del febbraio 1959 immortalano in compagnia dell’attrice – Norma Jeane non riesce a sottrarsi alla schiavitù del proprio personaggio. Non più figura cristica, e neppure mero oggetto di consumo, la Monroe di Bellezza è una patetica poupée che tenta di imitare le movenze, la psicologia, le vicende di una donna, finendo però per incespicare in mille dolori privati – il «pigmalione feroce» Arthur Miller (v. 10) – prima di capitolare davanti alla maledizione di una fama bigger than life: «ma tu volevi difenderti, o forse / esistere oltre l’apparenza / del tuo corpo muliebre e immortale» (vv. 40-44). «Marilyn, Marilina» che «come una canzone / marinera» «se ne andò all’alba» – questi i versi incipitari del componimento – è anche un alter ego autobiografico, figura esemplare dell’impossibile tragico postmoderno. Una lettura, questa, che della rabbia pasoliniana trattiene solo il meccanismo vittimale di identificazione con la lei simile/consanguinea del poeta-marginale, ma scalato a misura di un sofferto bilancio privato, o tutt’al più di uno smarrito sentimento generazionale di sconfitta: «ci volevano nervi più saldi, / e tu non l’hai avuti per resistere / alla sfida del tempo. Per questo / ci piaci: perché fosti / una vittima, una sconfitta / dal tempo e dalla storia infausta / dei nostri giorni peccatori» (vv. 47-53).
Quanto ai Quattro distici e un kit di rime da assemblare di Magrelli, si leggono in un volume del 2016 – novantesimo della nascita della Monroe – curato da Fabrizio Cavallero e Alessandro Fo. La silloge raccoglie decine di liriche a lei dedicate e reca un titolo, Umana, troppo umana, ancora una volta allusivo al duplice statuto della diva, la cui intramontabile immagine schermica è scandalosamente contraddetta dalla condizione di ordinaria mortalità. Questo il testo:

Quattro distici e un kit di rime da assemblare
A PPP inventore di MM
Marilina Marilina
non si sa chi ti assassina.
Idolatria/Cia
Incandescente/Presidente
Quello sguardo da bambina
quell’occhiata da rapina.
Figli/Artigli
Senza/Prudenza
L’inquietudine è una spina
che si insinua fina fina
Decesso/Eccesso
Seno/Freno
Cameriera in qualche bar
dolorosamente star. (Magrelli 2016, p. 140)

Sin dall’esergo Magrelli rende omaggio a Pasolini (mentre il v. 1 è un tributo a Bellezza), definito addirittura «inventore» di Marilyn. Ma, ormai, ogni traccia di rabbia è scomparsa. Il titolo stesso ascrive la lirica a una dimensione puramente ludico-combinatoria, si avverte l’ombra di un sorriso scettico. La dimensione simbolica entro cui è imbrigliato e disarticolato il soggetto tocca tutti gli aspetti-chiave della storia della Monroe, dall’ esorbitante fisicità (v. 12) alla fragilità psicologica (vv. 7-10), dalle origini umili (v. 13) alle camarille del potere (vv. 3-4), senza trascurare il topos dello sguardo innocente/ammaliante (vv. 5-6). Il tutto è però diluito entro una cantabilità da scioglilingua, da filastrocca: i distici battenti e siglati in rima evidenziano, soprattutto, l’obsolescenza meccanico-fantasmatica dell’immaginario post-bellico, scaduto a luogo comune, ripetitività seriale. La tragedia si è dissolta in mitologia frusta e non più creduta, corrosa dall’acido di chiacchiere e paranoie risapute. L’immortalità relativa delle dee di celluloide è ormai archeologia del moderno.