Recensioni / Gli incubi dello "spaziospazzatura"


Ho viaggiato da Parigi a Londra 1eggendo Junkspace, elegante libretto del famoso architetto Rem Koolhaas. Pensavo di usarlo per orientarmi appunto nello Spaziospazzatura che, secondo lui, è la somma complessiva di tutto quello che noi moderni abbiamo costruito, un mondo «senza autore e tuttavia sorprendentemente autoritario». Ma già passando da un aeroporto all'altro comincio ad avere i primi dubbi: mi convince l'idea che mi trovo «in una ragnatela senza ragno» ma non mi sento «dentro il ventre del Grande Fratello». E invano cerco il fascismo che si celerebbe nel «tipico percorso dal check-in al piazzale d'imbarco». Mi dispiace per l'architetto americano, ma non è vero che una «dittatura senza dittatore» mi costringe a «viaggi grotteschi attraverso profumi, persone in cerca d'asilo, cantieri, biancheria intima, ostriche, pornografia, telefoni cellulari, avventure incredibili per il cervello, l'occhio, il naso, la lingua, l'utero, i testicoli». La verità è che mi annoio un po', faccio la fila, leggo il mio giornale, e volentieri mi sottopongo ai controlli di sicurezza che, solo un occhio disturbato può vedere come «una griglia di schermi che rassembla in modo deludente le inquadrature individuali in un cubismo banalizzato». Osservo un giovanissimo e non capisco perché Koolhaas classifichi come Spaziospazzatura anche «gli informi cavalli dei pantaloni della nuova generazione».
In volo mi offrono una colazione molto diversa da «quel microcosmo di Spaziospazzatura» che sarebbe «il cestino del pranzo contemporaneo» dove «un'appassionata semantica della salute -grosse fette di melanzane, ricoperte da spessi strati di formaggio di capra - viene cancellata al fondo da un biscotto gigantesco»: Mi chiedo: dove mangiano gli architetti?
In metropolitana quasi mi commuovo per il dolente Koolhaas, perso nella sua prosa e negli aeroporti «sistemi ermetici da cui non v'è via uscita se non verso un altro aeroporto». Mi riconcilio un pochino con lui quando entro da Harrod's, «il prodotto dell'incontro tra la scala mobile e l'aria condizionata, concepito in una incubatrice di cartongesso». Forse è vero che «l'aria condizionata, medium invisibile, sorregge le nostre cattedrali» e che adottiamo un modo speciale di muoverci «al tempo stesso risoluto e senza meta». Penso che piacerebbe a Bertinotti l’idea che «il Junkspace sta riscrivendo l’apocalisse: potremmo morire un giorno per avvelenamento da ossigeno».
Raramente trovo nei palazzi di Londra, come del resto di Parigi o di Roma, «il silicone che ha appiattito tutte le facciate, incollando il vetro alla pietra, all'acciaio, al cemento, in un'impurità da era spaziale». Vedo invece molti edifici antichi restaurati e non condivido la rabbia di Koolhaas: «Ripristinare, riarrangiare, riassemblare, rimettere a nuovo, rinnovare, rivedere, ricuperare, riprogettare, riconsegnare, ripetere, riaffittare, rispettare: i verbi che cominciano con"ri-" producono Junkspace. Il Junkspace sarà la nostra tomba». E chissà cosa Koolhaas penserebbe del fatto che apprezzo come segno di civiltà anche le panchine «nicchie-junk per gli anziani, i perduti, i dimenticati, i folli… un u1timo singhiozzo di umanesimo».
Alla fine quando mi ritiro in albergo, invece di sentirmi «recluso», «agli arresti domiciliari volontari» insieme ad altri «dieci milioni di persone», io sto bene, la stanza è rotonda, l'atmosfera allegra, e neppure vedo «gli emissari del Junkspace» che «mi seguono nella privacy della mia camera da letto», «minibar, fax privati, pay tv che offrono pornografia compressa, veli di plastica nuovi di zecca che avvolgono la tavoletta del cesso, profilattici omaggio...». Povero Khoolaas, forse fa una brutta vita. Anche se il suo libro rimane bello, prodotto mirabile degli architetti-spazzatura.