Recensioni / Andrea e il vampiro, Andrea è il vampiro. Palinsesto Dreyer

È appena uscito nella bella collana «Elements», diretta per Quodlibet da Luciano Curreri, Gabriele Fichera, Vittorio Frigerio e Giuseppe Traina (pp. 128, € 12), il saggio Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici: il cui capitolo zanzottiano – che proponiamo qui per la cortesia di autore ed editore – verrà sviluppato al convegno «Un’Arcadia horror». Roma per Andrea Zanzotto, curato da Andrea Cortellessa e Tommaso Pomilio per l’Università di Roma «La Sapienza» e in programma da oggi pomeriggio a mercoledì (all’Accademia di Francia a Villa Medici, dove Zanzotto semigiocosamente venne incoronato poeta da madame Pompidou, nel marzo del 1984, come Petrarca sei secoli e mezzo prima; e poi alla Biblioteca Nazionale Centrale «Vittorio Emanuele II», al Bosco Parrasio dell’Accademia dell’Arcadia e all’aula Odeion della Facoltà di Lettere e Filosofia della «Sapienza»): a ideale conclusione dell’annata centenaria iniziata lo scorso ottobre nella Heimat di Pieve di Soligo. Si ringrazia Graziella Chiarcossi per aver concesso all’immagine del convegno uno dei ritratti del poeta eseguiti a Grado, nell’estate del 1974, da Pier Paolo Pasolini.

1. In uno dei sedimenti profondi della geologia culturale di Andrea Zanzotto giace un’emozione mediale di folgorante, oscura, matrice cinematografica: le latebre espressioniste del capolavoro di Carl Theodor Dreyer, Vampyr, l’étrange aventure de David Gray, girato in Francia nel 1931. Il soggetto è originale, pur traendo spunto da due novelle di Sheridan Le Fanu, Carmilla e The Room in the Dragon Volant, incluse nel volume In a Glass Darkly del 1872. Il film esce in sala nel 1932. Sedici anni dopo, uno scrittore di grande intelligenza letteraria e non solo, Aldo Buzzi, cura per l’editore Poligono, a quattro mani con Bianca Lattuada, un volume della serie «Biblioteca Cinematografica» consacrato a Vampyr: si tratta della sceneggiatura desunta dal montaggio. Il sottotitolo tedesco e inglese della pellicola è Der Traum des/The Dream of Allan Grey. Una strana avventura, dunque, o forse, invece, un sogno. Il senso della vicenda resta in bilico, così come la natura del lungometraggio. Per un verso Dreyer guarda indietro, recuperando collaudati meccanismi di genere (un universo fantomatico e simbolicamente denso; l’ossessione erotico-mortuaria della fiction romantico-gotica), per l’altro si sintonizza sul presente, giocando con le più sottili inquietudini della soggettività moderna, dal problematico rapporto soggetto-tempo-spazio ai reconditi domini dell’inconscio. Non sfuggirà inoltre lo slittamento onomastico del protagonista, da David all’Allan (come Poe): un solo personaggio, due diversi nomi per il giovane appassionato di occulto che si muove sul labile confine tra reale e soprannaturale.
Buzzi non è il solo scrittore italiano a nutrire una forte passione per Vampyr: sono tanti gli autori rimasti ipnotizzati da questo magnetico, disturbante, allucinato classico del cinema europeo. Un altro nome eccellente è quello di Edoardo Sanguineti, che se ne ricorderà per Il giuoco dell’oca. C’è una sequenzain particolare che colpisce i letterati, come del resto gli spettatori d’ogni tempo: quella in cui il protagonista vive un’esperienza di sdoppiamento, o triplicazione, onirico-metafisica. Ecco cosa accade: Gray, fattosi di una trasparenza fantasmatica, guadagna a fatica, zoppicando – forse perché già succube del maleficio, secondo il topos del diable boiteux poi rinnovato dal Jack Torrance di Shining – una panchina del tetro villaggio di Courtempierre. D’un tratto un suo altrettanto diafano alter ego – coscienza dissociata? proiezione astrale? ombra notturna scissa dal sé diurno? combattente in spirito, benandante? – si distacca da lui e si alza dalla panchina. Agisce, o forse è agito, in una realtà altra. Il secondo Gray si avvia di buon passo verso una cupa costruzione. Qui, con raccapriccio sommo, scopre un terzo sé, lungo disteso all’interno di una bara. Il “morto” è terreo, immobile, ma, a differenza degli altri due, in carne e ossa.
Quando la cassa viene sigillata, si passa alla soggettiva della salma. L’angusto feretro presenta infatti, all’altezza della testa, uno sportello quadrato chiuso da un vetro attraverso cui il “ragazzo morto” (per dirla con Parise) assiste inerme alla propria sepoltura. Si tratta naturalmente della ripresa di un topos dei racconti fantastici, dove sin dal primo Ottocento la figura dell’enterrée vivante – di solito una donna, ma non sempre – conosce ampia fortuna letteraria. Qui in particolare Dreyer riscrive un episodio del citato racconto The Room in the Dragon Volant, che per la verità Le Fanu declina più in chiave di giallo che di horror.
Le campane rintoccano in modo sinistro, il becchino stringe le viti, qualcuno posa una candela sul vetro. È un funerale in piena regola e Marguerite Chopin, ossia il vampiro del titolo, non solo incombe con i suoi accoliti sulla finestrella, ma solleva la candela e scruta in basso, come per accertarsi del proprio trionfo. Il corteo funebre si avvia al cimitero e il protagonista pare ormai sul punto di soccombere quando, d’un tratto, i becchini e la cassa si dissolvono sullo sfondo. L’incantamento cessa, David/Allan torna in sé, lascia la panchina e si prepara alla controffensiva. Nel découpage di Buzzi e Lattuada la sequenza occupa i tagli 318-381.
Il regista danese espone dunque lo spettatore alla soggettiva «[…] del cadavere che vede tutto il mondo come può vederlo chi è disteso dentro una bara, cioè dal basso all’alto e in movimento», come sintetizza Pasolini in un brano di Empirismo eretico. Muovendosi entro un ristretto perimetro onirico-visionario, Dreyer sfrutta il diaframma del vetro trasparente per portare sullo schermo la condizione di claustrofobico spossessamento dell’uomo contemporaneo, condannato a un’impotenza tanto insormontabile quanto consapevole e a un terrore della morte che è l’altra faccia della paura di vivere. Nella sequenza delle esequie l’angoscia non scaturisce tanto dall’orrore di finire sepolto vivo (tafofobia), quanto dalla passività di un corpo piombato e agito da una forza esterna, ridotto a solo sguardo e paralizzato dall’incontro con la vita che continua fuori dalla vita. Inutile sottolineare quanto tale situazione ricalchi quella dello spettatore in sala: stasi corporea, isolamento per immersione nell’oscurità, un io scisso e diffratto soggetto a un voyeurismo spettrale.
La sequenza della bara penetra a fondo nella stratigrafia dell’immaginario zanzottiano, incrociando nel corso degli anni più di uno degli elementi trascorrenti nel suo campo psichico, generando un ampio ventaglio di supplementi di senso. La ragione di tale suggestione abissale e duratura, suppongo, è l’essere Vampyr un’emozione mediale che divaga dal dominio stringente delle inferenze razionali, dove il tempo cronologico, oggettivo, cede il passo alle distorsioni del tempo interiorizzato, e ogni ipotesi di saldezza ontologica del reale soccombe al fluire di allucinazioni rivelatrici. Il morto-che-guarda Gray spalanca uno spazio di scrittura capace di allentare i vincoli del naturalismo in direzione della psicologia interiore e di una prospettiva altra sulla realtà sovra-individuale. E in questo il cinema – con il surrealismo, che la generazione di Zanzotto recupera attraverso il, o a dispetto del, filtro ermetico – si rivela anche un potente contravveleno rispetto alle ingiunzioni normalizzanti del diktat mimetico.

2. Cos’è il cinema, per Zanzotto? Dal punto di vista socio-tecnologico, una macchina esemplare dell’inumano, istupidente, mortifero progresso che l’ha prodotta: e su questo torneremo. Ma, anche, una lanterna magica capace di materializzare pulsioni, moltiplicare fantasmi, stregare a colpi di fabulazione. Il cinema «brusa» e «illumina», si legge in una sezione di Filò (1976) intitolata No dighe gnént del cine: è un «povero» e insieme «grande» «aldelà de ciaro mort e morta celuloide». In un volume di qualche anno fa, Nella palpebra interna, ipotizzavo che il poeta solighese sia portatore di uno “sguardo-evento”, di uno sguardo cioè rispetto al quale le immagini agiscono come un doppio rivelatore di verità subcoscienti. Uno sguardo, dunque, espansivo nei confronti della finitudine del reale. Lo schermo cinematografico in particolare costringe lo spettatore Andrea a una partecipazione incondizionata, totale. Allo stesso tempo, però, lo induce a errare, a perdersi fuori di sé, a esperire un incontro-scontro con l’alterità. È, a tutti gli effetti, uno spazio fisiologico-nervoso e mentale vissuto non tanto esteticamente quanto estaticamente, intendendo la parola estasi nel senso etimologico di fuoriuscita, sul piano percettivo-psichico, da una condizione di staticità. Siamo, in un certo senso, dalle parti di quella mimicry di cui parlava Roger Caillois in I giochi e gli uomini, la maschera e la vertigine: un tipo di identificazione immersiva per cui chi assiste alla proiezione non solo si riconosce nel protagonista del film, ma per una sorta di contagio fisico è indotto a mimare l’atteggiamento delle figure sullo schermo. Un fenomeno che troviamo perfettamente condensato in un verso di uno degli Haiku for a season, quello che recita: «An “I” remakes as a movie its “I”».
Prendiamo in considerazione Impossibilità della parola (in Vocativo, 1957), un componimento lungo, diviso in due strofe, sintatticamente e concettualmente complesso. Lo si può definire un dialogo/invocazione nei confronti della morte, foriera di addii irreversibili: la scomparsa della sorella Angela, morta di tifo a soli quattordici anni nel 1937, quella di un non nominato «compagno» evocato ai vv. 12-19. Al contempo, Impossibilità della parola è anche una riflessione sull’essere-per-la-morte e sul senso dello scrivere versi di fronte all’avanzata nullificante del tempo. I versi incipitari riprendono la sequenza dreyeriana delle esequie di Allan, la suggestione di quelle immagini tenebrose riaffiora al ricordo del poeta trentenne, consentendogli di affrontare poeticamente, a due decenni di distanza, il trauma luttuoso mai elaborato:

Se con te, sorella, se in tua vece
giacendo corpo di vetro, dal vetro
dalla bara dal basso
dolce e pauroso, il mondo
veduto avessi, ieri, tra bisbigli
di campane e il compianto di novembre
– come in un vecchio film venne narrato –
se il tuo silenzio col mio mutato avessi,
non maggiore l’affanno, non la morte
maggiore: e consumato
lo stanco equivoco ora mi dorrei?

La presa di parola da parte di un sé-cadavere è un fatto ricorrente nell’opera di Zanzotto (si pensi, per restare a Vocativo, ad altre “prove tecniche di trapasso” come I compagni corsi avanti o Fuisse), dove capita che il defunto, l’assente per eccellenza, dica “io”, sia “io”: il presente per definizione. Altrettanto caratteristico è quel senso di sdoppiamento di cui troviamo notizia anche nell’Autoritratto: «vivevo in una strana duplicità, nel precario, nel vuoto. Cresceva in me un sentimento di distacco dalla realtà», dichiara il poeta riferendosi agli anni giovanili, al punto di «sentirmi più spettatore che attore». In questi versi, tuttavia, il fenomeno si complica: capita infatti che colui che resta si identifichi con chi è andato.
La fonte di tale congettura sostitutiva, transfert di un’occorrenza tragica che diventa ipotesi fabulante – sorretta dall’iterazione dei «se», «se», «se» – è appunto, dichiaratamente, il forte stimolo memoriale-mediale del Vampyr di Dreyer. Si ha qui un esempio palmare di ciò che Ejzenstejn definisce qualità “estatica” del corpo filmico, ossia la convinzione che le pellicole più potenti, quelle destinate a incidere a fondo sulla coscienza, riescano nel prodigio di indurre lo spettatore in uno stato di ex-stasis, di evasione dal recinto dell’io. E niente, assicura il regista sovietico, favorisce tale fenomeno quanto il trovare nell’opera un modello corrispondente, se «il “prototipo” più semplice di una tale condotta imitativa sarà naturalmente quello di presentare sullo schermo qualcuno che si comporta in modo estatico: un personaggio dominato dal pathos che, in un modo o nell’altro, “esce da sé stesso”», ha scritto Augusto Sainati. Come David/Allan scivola fuori dalla coscienza vigile, così l’emozione mediale di quel «vecchio film» svelle la psiche del poeta dal suo humus, ne squassa l’habitus.
Sulla scorta della scissione di Gray, lo sguardo-evento zanzottiano fa precipitare in una tre distinte figure, cogliendole in sovrimpressione: la sorella precocemente defunta (v. 1); il sé attuale, il locutore; il sé trascorso (donzel, direbbe Pasolini), che si manifesta in prima persona al v. 5, forse col sembiante adolescenziale di Julian West (alias il barone Nicolas de Gunzburg, nella realtà storica: altro doppio). La precarietà pronominale «io-non-io» del v. 50, ancor prima di un valore escatologico, ha il senso di una postura disidentificante indotta da una suggestione filmica.
La parola insomma inventa, ossia ritrova, nell’immagine, quanto le occorre per dirsi, mantenendosi fedele alla tensione linguistico-stilistica dell’opera di partenza. Con una sorta di soggettiva libera indiretta, sin dal primo verso Andrea letteralmente piomba negli occhi di Angela, il cadavere «nella stanza accanto» («in tua vece»). La sintassi emula i movimenti della macchina attraverso il triplice ricorso alla preposizione articolata «dal» (vv. 2 e 3), quasi un’emersione prolungata dello sguardo, un risalire lento dalle profondità della terra – decisivo, a tal fine, il ricorso al decelerante gerundio. Il ribattere del lemma «vetro», prima sotto forma di complemento, poi di sostantivo, sottolinea la permeabilità ottica e l’impermeabilità vitale che trattiene il corpo nella bara, «stretto come tomba» per citare Elegia del venerdì. Il materiale diafano che isola i corpi ma lascia passare gli sguardi, la lastra trasparente fredda, liscia, asettica – laddove la vita è opaca ma pulsa, prolifera – torna peraltro in altri testi d’autore (si ricordi ad es., sempre in Vocativo, Se non fosse o Prima persona) conferendo alla lirica un ulteriore senso di distanza, lutto e gelo.
Alla dimensione visiva si accompagna, discreto ma decisivo, il piano fonico. Angela, condannata al «silenzio» (v. 8), è una Silvia leopardiana filtrata non più tramite lacerti di poesia funeraria antica o cimiteriale romantica, bensì attraverso le suggestioni estatiche del “cine”. Alla recanatese, perduta la voce, non restava che il gesto («e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano»); alla solighese, parimenti muta e inerte, rimangono appena gli occhi vicari del fratello. E anche da questo punto di vista la scelta di Vampyr non pare casuale.
Il decimo lungometraggio di Dreyer si colloca negli anni di transizione dalla stagione del muto (di cui il regista fu un virtuoso) alla nuova, poco amata, tecnologia dei talking pictures. Nel filmi dialoghi sono ridotti all’osso, quasi inudibili; domina la scena un silenzio greve, interrotto solo da cigolii, colpi alla porta, orologi che battono le ore, lo squittire d’una civetta. Quanto al vetro, si sa, impedisce il propagarsi dei suoni. Impossibilità della parola, dunque: e infatti il dettato zanzottiano risulta spesso reticente, anche per ragioni di stile – si veda ad es. l’apodosi tramite ellissi del verbo al v. 9 («non maggiore l’affanno, non la morte / maggiore: e consumato») – e semmai altrimenti sonorizzato. Pochi tratti sommari immergono il lettore nel paesaggio acustico, dai toni crepuscolari, di un villaggio vestito a lutto. In particolare ai vv. 5-6 il lugubre scampanio che accompagna, stando al découpage di Buzzi/Lattuada, le inquadrature 371-381, fa echeggiare sulla pagina un’impressione uditiva latente: il rintoccare delle campane durante il rito funebre in memoria della sorella. Tutto il resto non è che brusio vuoto di senso, vacante di realtà: acufeni o poco più («suoni che nulla / non di te colmi insegnano»: vv. 67-68).
Ma cosa vede, «dal basso», di là «dal vetro», lo sguardo di questo esanime, orripilato «io-non-io» uno e trino? Vede Marguerite Chopin, naturalmente (taglio 365), vede la diabolica megera che infetta le adolescenti per condurle alla dannazione («fanciulle protese ad abbracciare / il luccichio degli inferi», vv. 56-57), e tra queste la bella Léonie – la quale, atrocemente affatturata, al taglio 311 geme: Ich habe Angst zu sterben. Vede, insomma, la morte sotto forma di strega persefonica e selenica. È possibile congetturare che ci sia una reminiscenza di Vampyr anche dietro la distorsione morfologica «vampirisma» di 13 settembre 1959 (Variante), ossia il perverso Alla luna zanzottiano (in IX Ecloghe, 1962)? Credo di sì: peraltro, la vicenda di Gray si ambienta in una notte di torbido plenilunio, notte caliginosa di influssi arcani e ripugnanti efferatezze, e certi nefasti epiteti attribuiti all’astro, come «vita traviata», «vita evitata» e «paralisi», ben converrebbero alla fatale succhiasangue dreyeriana.
Come che sia, di certo il sortilegio scagliato dalla glaciale Marguerite ha sortito il suo effetto, scoperchiando le paure e le ossessioni più profonde del poeta, a cominciare dal nevrotico, aberrante pensiero del non-essere, l’anticipazione dell’ora in cui le «viscere agitate / di presente, di fisici conati» cesseranno di palpitare (vv. 26-27). Nelle cieche pupille della creatura della notte si riflette anche, se non soprattutto, il «ricchissimo nihil / che incombe e esalta» (Da un’altezza nuova). Né è un caso se «narrato» del v. 7 rima con «consumato» al v. 10. Il levigato vetro della bara fa il mondo «dolce e pauroso», leggiamo al v. 4: perversa e sublimediade, tra lusinga e sgomento, che discende direttamente dal Leopardi dell’Infinito e dall’Iperione di Hölderlin, come ha notato Andrea Cortellessa nella sua recente monografia zanzottiana, ma forse pure, aggiungerei, dal d’Annunzio “notturno”, ctonio e “tentato di morire”. Già nella fantasia funebre degli egizi del resto il corpo calcinato, cristallino del defunto costituiva un elemento di perfezione presentita, allettante-agghiacciante, come ricorda, via Hegel, anche l’Ernest Bloch di Il principio speranza, libro peraltro assai caro a Zanzotto. Impassibilità della parola, verrebbe da dire con un gioco di parole, sua perdita di ogni facoltà attiva. Stasi terminale – e fine del dolore.
Ma non è tutto. L’incombere della signora delle tenebre sull’estatico protagonista innesca pure altri tipi di angosce, stavolta di tipo morale: disperata impotenza; rimorso. L’impotenza è quella di un fratello che, a differenza di Gray, salvatore nel film delle due fanciulle Léonie e Gisèle, non è riuscito a risanare la sorella, consumata dal morbo proprio mentre stava per sbocciare alla vita. Il rimorso tormenta chi, restando, sente d’aver compiuto un torto che potremmo definire “vampirismo affettivo”. Se il sopravvissuto gode senza merito di ciò che il dipartito ha perduto per sempre («reo di speranza e d’amore», v. 61), il meccanismo di sostituzione compensativa si rivela ambiguo. «In tua vece»… ho vissuto. Un senso di colpa del tutto infondato ma, proprio per questo, irredimibile, con una storia illustre nella nostra letteratura: basti ricordare In morte del fratello Giovanni (quanto Foscolo in Zanzotto!), Carlo Emilio Gadda rispetto al caro Enrico o certe pagine di memorialistica partigiana. Per restare all’autore di Vocativo, si pensi a I compagni corsi avanti. In questo senso, il terrore che la vampira suscita in Gray è il medesimo di chi, guardandosi allo specchio, si trova colpevole dell’oltraggio di aver vissuto a oltranza.
Ed ecco il dilemma al fondo di Impossibilità della parola: cedere o riscuotersi, abbandonarsi allo sfinimento dei nervi (la stasi dolce/paurosa) o insorgere? Per quanto sospetti di aver scambiato il ruolo di eroe con quello di aguzzino, il combattente in spirito non diserta (v. 28 e 32), e si attiva per esorcizzare il demone tanatofilo tramite l’esercizio della parola. La volontà di reagire è certificata dalla presenza di un topos del genere: il gesto di neutralizzare, decapitandola (come da perfetto manuale vanhelsinghiano), la vampira: «stipato avello, attesa, eco, di testa / mozza» (vv. 63-64).

3.
Come ben sanno gli appassionati di horror, e i soggetti depressivi, i cattivi (pensieri) non scompaiono: restano dormienti per un po’, e poi trovano sempre il modo di tornare. È uno degli assunti-chiave della Cognizione gaddiana: «il male risorge ancora, ancora e sempre, dopo i chiari mattini della speranza». Il capolavoro del 1932 riaffiora nell’opera di Zanzotto con la lirica In una storia idiota di vampiri, inclusa nella terza sezione della Beltà (1968). Siamo nei politicizzati anni Sessanta e l’emozione mediale di Vampyr, magari inquinata da scorie di immaginario galleggianti nell’iconosfera consumistica dell’epoca, tra fumetto e b-movies, acquista ora una diversa connotazione. Smorzata l’eco del trauma privato, l’avventura/sogno di Julian Gray si fa paradigma della condizione massificata, alienata, reificata dell’uomo moderno. L’“in” del titolo chiarisce come il componimento intenda stigmatizzare una realtà sociale (l’inautentica civiltà dei consumi) e non certo esprimere un giudizio di valore sul film. Per riecheggiare ancora una volta Gadda: idiota è il (cine-)mondo, non il Dreyer.
La lirica è bipartita, e il primo segmento, dal ritmo cadenzato (tra musique foraine e jingle), può essere a sua volta diviso in due tempi. I versi raccolti ai paragrafi 1-4 motteggiano il «lunapark nubiloso» (i, v. 22, corsivo mio) dell’industria culturale (Adorno) o, dirà Debord, della société du spectacle, un carosello audiovisivo che rende stralunati, ossia alimenta il caos mentale delle masse. In particolare, agli occhi del poeta la demenziale seduzione del romanzesco goticheggiante, basata su trucchi dozzinali (bara, paletto, orge di sangue), oltre che su risaputi cliché registici (la garza sull’obbiettivo, le musiche a effetto, il flou), causa una regressione della coscienza al limite dell’idiozia. Marguerite Chopin non è più l’incarnazione metafisica della dolce/paurosa fatal quïete, quanto piuttosto l’emblema di quel dilagante «vampirismo capitalistico», come scrive Stefano Dal Bianco nelle note di commento al Meridiano, che orchestra ogni «decerebrato anelito» dell’uomo d’oggi (Caso vocativo). «Una morte che si sa già morta», si legge nell’epigrafe dattiloscritta del testo recuperata da Luca Stefanelli, «ma vuol vivere dei vivi, contagiarli». «Come dente di scelto avorio nell’arteria del collo confitto / seducendo e inducendo dal suo ostensorio brilla il profitto» (i, vv. 12-13): rima facile, da spot pubblicitario,poco oltre compensata dall’eco iperletteraria dei denti/idee dissezionati dal corpo di Berenice, lafanciulla sepolta viva nell’omonimo racconto di Poe (i, v. 17).
Il secondo tempo, per così dire (par. 5-8), aperto dall’avversativa «Ma», prospetta un’auspicata, quanto illusoria, catarsi. Lo spettatore/eroe che dice “io” fantastica di arruolare sotto la propria bandiera tutti «i “buoni” che vidi al cinema» (i, v. 32): un impulso proiettivo, di tipo comunitario, che anticipa di dieci anni la rutilante visione liberatoria di un altro testo “cinematografico” di Zanzotto, il mirabile poema Sarlòt e Jijeto. Scorre così sulla pagina il felice epilogo della trama di Vampyr: il servo della vampira subisce il meritato castigo (i, vv. 30-31), mentre il benandante protagonista trionfa, trafiggendo il cuore della strega (vv. 32-34). Ma non si tratta che di un sogno. L’emorragia nervosa non è affatto arrestata, come certifica, al par. 7, la litania delle pilulæ hystericæ,ovvero degli psicofarmaci. La possessione persiste e l’“io” infine si ritrova al (solito) posto del Gray cadavere, sigillato dentro la bara della propria atrabile, o atonia depressiva che dir si voglia: «Stagna la porta, stagnami. Poi verrò. / Emostatico miro» (vv. 53-54).
Per sottrarsi alla catatonia del sangue guasto e putrefatto non resta allora che una possibilità: liquidare l’intrusiva, narcotica emozione mediale. Nella seconda parte della lirica Zanzotto non solo mette a tacere la fasulla mitologia vampiresca («depauperata emoglobina, garza / e siero, non parlate», ii, vv. 7-8) ma, con essa, ridimensiona la macchina dei sogni se non, addirittura, tutte le finzioni occidentali, a cominciare dalle cogitazioni escatologico-trascendentali («dèi mondi anime: bersagli mancati», ii, v. 14). Basta un abbacinante frangente di realtà, un istante di pura rivelazione (un «sorriso» scorto in un «nudo totale mattino» di gioventù, ii, v. 4 e 15: siamo, evidentemente, molto prossimi al Montale metafisico), effimero ma indelebile, per liquidare qualsivoglia seduzione spettacolare e affabulatoria, ogni tarlo speculativo: «qualche cosa che un giorno ho saputo / in modo così teso così definitivo / che nel suo solo riverbero / posso, noi, prendermi beffa di ogni altra definizione» (ii, vv. 9-12; e si noti il «noi», pronome multidentitario d’una prima persona verbale).
L’emozione mediale costituita dalla romanzesca avventura, o dal lirico sogno, della “trinità” (o trimurti) dei Gray agisce dunque stratigraficamente, sia rispetto al piano coscienziale sia a quello temporale (il decennio che separa i due testi esaminati), nei versi caosmotici di Zanzotto. L’emozione mediale dreyeriana si fa proiezione fantasmatica evocata a inscenare lo strappo, la ferita, la lacerazione identitaria di una soggettività “inscatolata” da un eccesso narcisistico e presa al laccio di un trauma personale ed epocale, afflitta da una patologia esistenziale e insieme animata da una fortissima, esibita libido videndi. Lo spettatore Andrea soccombe ai canini affilati di una fabbrica dell’immaginario che eterna esseri-per-la-morte, rinnovando la maledizione di una modernità raggelata, terminale e necroscopica, quando non francamente necrofila. Ma lo sa, è consapevole del contagio: morso, può a sua volta mordere, e il suo vampiresco istinto di poeta lo induce a suggere avidamente un meraviglioso che intercetta e coagula strati profondi di realtà, individuale e collettiva. Ricordandoci così che la poesia, compresa quella più raffinata, concettuale, sperimentale è, anche, territorio del fantastico.