Recensioni / Koolhaas per la mescolanza

Siamo dentro alla spazzatura. Viviamo letteralmente in un Junkspace che non ha pietà né di noi, né delle cose che crederemmo importanti. La Quodlibet mette finalmente insieme la traduzione di tre saggi di Rem Koolhaas, gran maestro dell'architettura recente, che succedono il suo famoso Delirious New York.
La sua prosa appassionata contrasta con alte dosi di disincanto, mentre ci presenta tre delle categorie che ritiene essenziali per leggere il mondo presente: la bigness, anzitutto, la tendenza all'enorme che tocca la città-quella vera è passata da due a decine di milioni di abitanti-così come gli edifici, la cui pelle è troppo lontana dal centro per rivelare cosa succede all'interno di un edificio; poi la Città Generica, ovvero quella che non ha più alcun preciso riferimento al luogo dì nascita territoriale e che trascina in questa sua in-definizione anche coloro che vi abitano; infine, appunto, il Junkspace. Non è un posto senza identità, ma un assetto in cui tutti viviamo: di vocazione è postmoderno, perché capace di raccattare ogni stile e di consolarci con operazioni nostalgiche: «Rípristinare, riarrangiare, riassemblare, rimettere a nuovo, rinnovare, rivedere, ricuperare» anche attraverso questi ganci verso il passato il Junkspace tende a essere promiscuo, repressivo e diremmo anche tradizionalista.
In quest'ottica anche l'arte contemporanea prende i suoi calci in bocca. Koolhaas l'ha così amata da essere stato uno dei più insistenti fautori della sua mescolanza con l'architettura - come non ricordare il suo allestimento alla Documenta X (1997) con pasticche colorate tra cui fluttuavano scolapasta e secchi? Eppure in questo spazio indefinito fatto dei nostri rifiuti, buono per tutti e acre con ciascuno, l'arte serve per dare un'aura artificiale alla vita: «I musei sono Junkspace bigotto... monasteri gonfiati fino a raggiungere la scala del centro commerciale.... nessun cimitero oserebbe ricomporre i cadaveri in nome dell'opportunità del momento», come accade nelle stanze tematiche della Tate Modern. Le cose vanno ancora peggio per la cosiddetta arte pubblica, foglia di fico dello spirito comunitario che ama colpevolmente i cosiddetti "spazi residuali", cioè quelli in cui nessuno è disposto ad amarla o anche solo a capirla.
 Gli strali volano ancora verso un'architettura matrigna, campo in cui «una mancanza di maestri non ha impedito una proliferazione di capolavori». E il capolavoro oggi è parte di una categoria la cui missione è intimidire e negare il giudizio; tra una piega spettacolare e una cascata di vetri disfunzionale.
Bigness, Città Generica, Junkspace sono allora nozioni che ci introducono a un futuro prevalentemente urbano, centrato sul controllo e sul commercio ma capace di far credere a chi vi abita distare in un labirinto libero. Profezia o troppo catastrofismo?