Recensioni / Inedite radici per nuovi conflitti

Un libro per menti inquiete e rivoluzionarie, sgombre da risentimenti, pregiudizi e censure del mercato che associa i libri ai baciperugina del marketing editoriale. È a loro che è rivolta la conversazione tra Mario Tronti, Etienne Balibar e Antonio Negri, avvenuta in un convegno alla Sorbona di Parigi nell’aprile 2019 e oggi raccolta in Anatomia del politico (Quodlibet, pp. 75, euro 14, curato da Jamila Mascat, autrice di un rigoroso saggio introduttivo).
Il libro è il risultato di una discussione sull’opera di Mario Tronti e ripercorre la tormentata ricerca dal suo iniziale operaismo degli anni Sessanta all’«autonomia del politico» degli anni Settanta del Novecento, dalla scoperta discussa degli autori della «Rivoluzione conservatrice» e di Carl Schmitt negli anni Ottanta fino all’ultimo periodo caratterizzato anche da un’aspra critica alla democrazia e dalla ricerca che coniuga la tradizione rivoluzionaria comunista con il realismo. Un’idea guida ha attraversato stagioni diverse: la politica è l’organizzazione del conflitto tra forze di imponenti dimensioni e la creazione della giustizia sociale e della liberazione dell’umanità e dei viventi.
Dell’opera di Tronti si è già occupato un recente libro collettaneo La rivoluzione in esilio, a cura di Andrea Cerutti e Giulia Dettori (Quodlibet, pp. 350 euro 24). L’interesse del pugno di pagine affilatissime contenute in Anatomia del politico è dato dal confronto franco e polemico con Antonio Negri. La discussione si svolge, in primo luogo, a partire dall’attualità, dell’operaismo come metodo e prospettiva, e non solo come esperienza di cui è necessario discutere l’eredità.
La questione è emersa nell’ultimo ventennio: esiste un operaismo di prima generazione e un (post)operaismo? Oppure c’è un solo operaismo che evolve, e si trasforma (Negri) mentre dall’altra parte c’è un pensiero che ritiene, con Tronti, di avere superato un operaismo (il proprio) e ha pensato la politica a partire dal «pensiero grande conservatore e realista, persino controrivoluzionario» al fine di «invadere il territorio nemico a caccia di armi che ci sono mancate» da usare contro lo stesso nemico?
Altro argomento della conversazione: le tesi di fondo dell’operaismo. Ecco la prima: «Non ci sono lotte di classe al di fuori del capitalismo» contro «l’illusione archeologica» del marxismo evoluzionista e storicista. La seconda: viene prima la forza lavoro, poi il capitale. In un rapporto politico ed economico antagonista il capitale non concede qualcosa. Sono le lotte operaie e sociali ad avergli imposto un limite e praticato un conflitto che ha portato tra l’altro alla creazione dello Stato sociale e ai processi di autodeterminazione e di lotta anti-imperialista e anti-coloniale generati dalla rivoluzione bolscevica nel 1917. La terza: l’operaismo ha evidenziato la capacità del movimento operaio di contenere la capacità distruttiva del capitalismo. In questo modo la lotta di classe è stata opposta alla guerra contro gli sfruttati e a quella tra imperialismi e nazionalismi.
Di questo processo globale Tronti ha visto la parte che si è sviluppata in Occidente e su questa base ha diviso la storia del Novecento tra la «Grande politica» della rivoluzione in Europa e una «piccola politica» dal Sessantotto in poi. «Una non-politica o politica della spoliticizzazione permanente» osserva Balibar. Una distinzione che andrebbe ripensata perché rischia di escludere la politica degli ultimi sessant’anni e disarma il pensiero davanti alla «rivoluzione capitalistica» scattata in risposta alla politica definita ingenerosamente «piccola». Lo ha riconosciuto lo stesso Tronti in un’intervista pubblicata nel luglio del 2021 su Alias in occasione del suo novantesimo compleanno. Sta di fatto, aggiunge Balibar, che Tronti ha rafforzato col tempo una «coloritura apocalittica» fino al punto da trasferire il suo pensiero nel teologico-politico, scelta confermata anche in questo libro in cui evoca un messianesimo senza Messia, un’idea vicina a quella del filosofo tedesco Walter Benjamin.
Dopo avere scoperto la politicità della classe teorizzata da Marx, e reinventata da Lenin, Tronti ha «dimenticato la lotta contro il capitale e il potente soggettivarsi del proletariato», scrive Negri nel suo contributo. Così facendo ha associato la classe all’eredità del pensiero della sovranità che va da Hobbes a Schmitt e ha limitato il terreno della sua azione politica all’«apparato statale», spostando «dal basso verso l’alto la sorgente del potere e l’iniziativa della lotta di classe». Negri ritiene invece che la politica marxista nasca sul risvolto di questa genealogia e sia l’espressione di un’«altra modernità» antagonista a quella borghese. Per lui il punto di svolta è rappresentata dall’«anomalia selvaggia» della filosofia di Spinoza.
Nella replica Tronti sostiene che la lotta di classe avrebbe dovuto integrare la lotta nelle fabbriche e nella società con quella dentro lo Stato, un ambito nel quale il conflitto contro il modo di produzione capitalistico sarebbe stato sostenuto da quello dentro e contro la forma-Stato. A ben vedere questa idea non è estranea a un percorso dello stesso Negri che ha cercato di coniugare, in un ordine però rovesciato rispetto a quello di Tronti, l’istituzione con l’insorgenza nella teoria del «contro-potere» sulla quale ha riflettuto in libri come Potere costituente fino al più recente Assemblea scritto con Michael Hardt. Da punti di vista diversi entrambi hanno risposto a un’esigenza dei pensatori materialisti: unire il «basso» con l’«alto», l’essere «popolare» con l’essere «Principe».
Non è scontato il modo in cui, volta per volta, questa unione è stata declinata. Lo dimostra il duro confronto sulla storia politica che accomuna e divide i due filosofi. Tronti considerò infatti finiti gli anni Sessanta prima del biennio chiave del 1968-1969. «Nel crescendo delle lotte operaie non capimmo di lasciare a se stessa la loro autonomia – scrive Negri – Bisognava portare la lotta più in alto e dentro il partito, ma non era già quello che facevamo?». Quello di Tronti è stato un tentativo controcorrente. Vennero gli anni del «compromesso storico», quando le alternative erano in fondo limitate. Dopo la «svolta della Bolognina», e la trasformazione dell’ex Pci in un partito del sistema, l’antica scommessa è stata persa. Nell’interregno sono nati i fenomeni morbosi più svariati: il Pd che promuove leggi come il Jobs Act o la riforma della scuola di Renzi, per esempio.
«Alcuni dei miei straordinari compagni degli anni Sessanta – ha risposto Tronti a Negri – tendevano a fare gruppo nel senso in cui staranno i “gruppi” degli anni Settanta, a nessuno dei quali mi è mai venuto in mente di aderire. Considero quella forma di organizzazione un modo sbagliato di fare lotta politica. Meglio avere a che fare con una grande forza dalle pratiche ambigue che con una piccola comunità dalle idee chiare. Più utile allo scopo la potenza di un’organizzazione che il lascito di una testimonianza. Lì, alla fine, rischiava di esserci più anticomunismo che anticapitalismo». Non era «anticomunismo», ma una critica di sinistra fatta al tentativo di cogestire la crisi da parte del Pci. La risposta del partito di Berlinguer fu contraddittoria, e inadeguata, rispetto all’imponente avanzata avvenuta nel «lungo Sessantotto italiano».
La conversazione non è però limitabile a valutazioni divergenti sugli anni Settanta nella realtà italiana. Come tutti i dibattiti teorici di rilievo anche questo nasce da un problema urgentissimo. Che fare davanti alla difficoltà di opporre oggi una forza contraria al capitalismo dei disastri che sia paragonabile a quella che ha scatenato «le forme più potenti di lotta, gli strumenti più efficaci di organizzazione e le più raffinate elaborazioni di pensiero»?
Da un lato, c’è chi ritiene che manchino grandi battaglie e non abbiamo a disposizione una forza, né la coscienza della necessità di averne una; dall’altro lato, c’è chi riconosce la difficoltà del momento ma insiste sulla convergenza delle lotte e sulla necessità di continuare a fare inchiesta sulla composizione di classe. I due punti di vista potrebbero forse riconoscersi nella tensione verso la trasformazione rivoluzionaria di sé e del mondo. È a questa che bisogna sempre tenersi pronti. Non è il tempo della resa, ma dell’operoso «sogno di una cosa».