Recensioni / Il pornodipendente si sveglia donna

Nel fulminante esordio di Alberto.Ravasio, attraversato da lampi d'irresistibile comicità, un protagonista «involontariamente celibe» deve fare i conti con una sorprendente metamorfosi. Vietato svelare come andrà a finire.

Ci sono due modi per parlare di La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, elettrizzante esordio di Alberto Ravasio. Oggi che la forma è nulla e il contenuto è tutto, il pubblico medio (entità inesistente in natura ma scientificamente prodotta dall'industria culturale, editoria in testa, sissignore) potrà trovarvi un numero più che sufficiente di affondi sulla forma di vita contemporanea da sentirsi appagato: il disorientamento radicale delle nuove generazioni, rinunciatarie dalla nascita, il disagio della mascolinità, il cortocircuito impazzito tra le condizioni ancora prerinascimentali in cui vivono certe zone d'Italia (qui le valli bergamasche) e il cybermondo che avanza a passo di carica sopra ogni aspetto della vita cognitiva e affettiva della popolazione (il protagonista è Incel, cioè «involontariamente celibe», e pornodipendente, è colto ma non laureato, vive segregato tra un padre viriloide e iper-lavoratore e una madre ufficialmente pazza, anche se non è proprio vero); e molto altro ancora, compreso le tematiche Lgbt+ su cui si sbizzarrirà chi ne ha voglia. Tutti, in altre parole, «luoghi comuni», nel senso non dispregiativo del termine ma intesi come temi di preoccupazione comune che sarebbe da anime belle far finta non esistano.
Ovvio che esistono, e ci sono anche in Ravasio. Ma svolgono, come sempre dovrebbe essere nei veri artisti, un ruolo ancillare, sono un'impalcatura per raggiungere lo splendore (lo squallore, per sua e non nostra fortuna, non ne ha bisogno), che in Ravasio è in primo luogo uno splendore stilistico, una comicità irresistibile che non fa mai mancare il suo apporto a ogni singolo giro di frase. Fin dall'incipit: «Un mattino d'agosto Guglielmo Sputacchiera si svegliò col muso sprofondato in bel paio di seni: i suoi. In otto ore di sonno s'era trasformato in una donna, creatura a lui sconosciuta, che in trent'anni di vita non era mai riuscito ad avvicinare, non dico per le acrobazie pubiche, ma anche solo per le informazioni stradali».
Certo, certo, il cambiamento magico di sesso è tema mitologico antichissimo (le mammelle di Tiresia, eccetera), e poi il naso di Nikolaj Gogol', la metamorfosi di Franz Kafka... Ricordiamo a chi l'avesse scordato che c'è stato il postmoderno. E se Kafka ritornerà nel finale in una tragicomica «lettera al padre», le ultime righe gli daranno una torsione talmente forte da rendere l'intera favola quasi altrettanto inclassificabile delle più candide e inestricabili invenzioni dell'assicuratore di Praga. Ma tornando allo stile, come non notare la perizia dell'anticlimax, che passa da un evento fantastico a una generalità sociologica (essere maschi oggi è difficile, e comunque bisogna dirlo) a una sterzata completamente imprevista che sulla più quotidiana delle situazioni, chiedere informazioni stradali, scarica un tale quantità di straniamento da far saltare sulla sedia?
Per tutto il romanzo Ravasio riesce a mantenersi a questa altezza, e fa spesso anche di meglio. Il repertorio di espedienti stilistici in cui si profonde è impressionante. Aggettivi scompagnati dal sostantivo, ma da quel momento autorevoli come tavole della legge (l'autobus locale che passa con cadenza «mestruale» e «umore omicida»). Slittamenti di senso della stessa parola (il padre, che ha solo la licenza media ma si vanta di non essere mai stato licenziato in vita sua, e che lo vuole «perito» tecnico, e lui che diventa tecnicamente «perito» alla vita sociale, economica e affettiva). Ineccepibili neologismi (vulvolatra, acneico, oratoriate, boccioriadi...). Metafore mai scontate, e mai usate per «far bello». Microsciagure private non spiegate (Ravasio non spiega niente, per fortuna), ma accoppiate giudiziosamente con annotazioni generali del tutto calzanti: «La laurea di oggi era diventata la quinta elementare del popolo primonovecentesco»: verissimo). Effetti di ritmo alla Buster Keaton («e infine rientrò in camera, dove s'accasciò, mancando il letto ma trovando prima due spigoli e poi il pavimento», due passati remoti e due gerundi, tempo veloce e tempo lento che restituiscono tutta la disperazione e tutta la comicità del mondo al verbo «accasciarsi»). Un'ampia e imprevedibile estensione lessicale, anche se mai populista e mai preziosa — Ravasio è evidentemente uomo colto, ma ha deciso di non farcela pagare. E una sintassi non afflitta dalla monotonia che avverte nemmeno ai raggi X ma a occhio nudo chi sfoglia la produzione mainstrearn italiana più acclamata: basti a provarlo la variazione ben dosata degli incipit di ogni capoverso.
Che cosa manca ancora per raccomandare il libro a tutti, non solo agli esteti che non scendono sotto Gertrude Stein? Forse la trama. Ma non ce n'è molta. E non per difetto ma perché il finale regala sorprese così sbalorditive e un esito così a disposizione di chi legge (impossibile anche solo accennarvi qui da quando lo spoiler è reato capitale) da compensarla ad abbondanza.
Ma la vera suspense sta in cosa farà l'autore dopo questo avvio a bruciapelo. Che le Muse lo preservino dalla routine, dalla maniera, dalla nicchia, e forse anche dal successo, almeno quello crasso alla premio Strega.
Speriamo bene.

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