Recensioni / L'ordine del paesaggio

Gilles Clement
e il Giardino Planetario

«Propongo di chiamare Terzo paesaggio l'insieme di tutti i territori sottratti all'azione umana. È un terreno di rifugio per la diversità, altrimenti cacciata al di fuori degli spazi dominati dall'uomo. II Terzo Paesaggio è perciò la somma del 'residuo' - sia rurale sia urbano - e dell’ ‘incolto': comprende il ciglio delle strade e dei campi, i margini delle aree industriali e delle città, le torbiere... E si estende fino ad abbracciare le 'riserve' , quelle aree in cui la diversità biologica è particolarmente forte. Questo termine nasce da un'analisi del paesaggio del Limousin, in un'area nei dintorni di Vassivière, che in un primo tempo avevo ricondotto al binomio ombra/luce. Definivo 'ombra' le grandi masse forestali gestite dall'uomo e 'luce' le radure e i pascoli ugualmente posti sotto la sua tutela. Ma con questo sistema, binario, non abbracciavo che il 90% del territorio preso in esame: cioè la porzione che, anche se percentualmente la più estesa, ospitava solo il 10% di biodiversità. La presenza di specie diverse si poteva riscontrare solo nei
luoghi sottratti al controllo dell'uomo: in quelle spazio-rifugio che ho chiamato Terzo paesaggio.
Il Terzo paesaggio è un luogo di indecisione per le amministrazioni e per l'utilizzo programmato da parte della società. Gli esseri viventi che lo occupano però - piante, animali, uomini - vi prendono delle decisioni agendo in tutta libertà e ne impiegano spazio e risorse rispondendo all'urgenza del proprio bisogno. Sono sempre, credo, urgenze dettate dalla biologia, niente affatto prevedibili. Ecco perché voglio insistere sulla necessità di 'prevedere' uno spazio dell'indecisione - cioè dei frammenti di Terzo paesaggio - in seno alle aree urbane o rurali affidate all'umano governo: voglio mettere in primo piano la necessità di governarne politicamente l'esistenza. È questa la posizione del Manifesto del Terzo paesaggio: il testo vuol essere al tempo stesso una constatazione e un grido.
Ma attenzione: non pretendo di essere il detentore della verità. Tra il 1999 e il 2000, mentre allestivo l'esposizione sul Giardino Planetario alle Villette, avevo messo a punto quella che potrei definire l'etica del giardiniere. In buona sostanza essa mirava a fare il più possibile 'con' e il meno possibile 'contro'. Mirava a comprendere la vita nella sua complessità per accompagnarla, per assecondarla, anziché dominarla. Per gestire la diversità senza distruggerla, per rinunciare a un'economa di accumulazione in favore della ripartizione, ma anche per puntare a una rendita qualitativa anziché a un reddito quantitativo, per cercare di proteggere i sostrati - acqua, suolo, aria -, per preservare le sorgenti, le risorse e i supporti sulla base dei quali la natura inventa soluzioni per l'avvenire.
Gli elementi naturali riservano sempre delle sorprese, ed è il principio della sorpresa che m'interessa. In un giardino, tutti gli scenari di previsione vengono rispettati a grandi linee, ma disattesi nei dettagli. Ed è invece osservando i dettagli che si arriva a provare un senso di meraviglia. Quello che più mi
sorprende e l’orto, 'giardino per eccellenza': quello che ci fornisce nutrimento con i suoi frutti.
II piacere di raccogliere quanto si ha seminato rispecchia un'idea precisa di felicità.
Chi non ha mai coltivato un piccolo pezzo di terra non può capire di cosa sto parlando.
Non si possono applicare alla natura le stesse regole che valgono nella società umana. II liberalismo ha come esito la presa del potere - e della ricchezza - da parte degli individui più combattivi. II laissez-faire nel Terzo paesaggio porta a un equilibrio delle situazioni e a un'armonia tra le specie che ne fanno parte. La civiltà orientale intrattiene con la natura un rapporto di rispetto - o di superstizione rispettosa. In un certo senso, l'avvento dell'ecologia in Europa e nel mondo all'inizio del XX secolo ha trasformato il cittadino cosmopolita in un giardiniere planetario malgré soi, chiamato, almeno teoricamente, al rispetto della natura. Da questo punto di vista la sua posizione si avvicina a quella dei filosofi orientali.
I movimenti dei verdi si fondano spesso su concetti schematici, stereotipati, che il più delle volte non sono inclusi nei loro presupposti e implicazioni. Gli ecologisti radicali sono anche più rigidi, perfino inquietanti. II caso dei no-global, gli alter-mondialisti, è diverso: si propongono di pensare una nuova forma di economia che, a mio modo di vedere, ben si concilia con il Giardino Planetario".
Etimologicamente Giardino viene da Garten, enclos: e il 'luogo chiuso', limitato, dove l'uomo preserva il meglio di fiori, frutti e ortaggi.
La presa di coscienza della finitezza ecologica mette l'accento sulla fragilità della vita, cosicché il meglio da proteggere appare la stessa vita sul pianeta, da gestire rispettosamente: come fosse un giardino. D'altra parte, la nozione di Giardino Planetario riguarda tutti gli ospiti della Terra: li chiama indistintamente alla responsabilità verso il mondo vivente, esseri umani compresi, naturalmente. È un concetto che comporta l'auspicio di una gestione del pianeta assai vicina al giardinaggio, più rispettoso della vita: il più attento possibile a non recar danno alla diversità, a tutelarla senza distruggerla».


"I problemi di un'epoca non si vanno a cercare tra idee e sistemi da tutti apprezzati, ma altrove in campi ignoti o schivati. I problemi di un'epoca sono ignoti all'epoca stessa" Antonio Delfini (Diari 1927-1961, Einaudi 1982).

Il Terzo paesaggio coniato dal 'giardiniere', come si definisce Gilles Clément non senza una certa sprezzatura, si manifesta in opposizione al terri­torio organizzato: "La realtà del Terzo paesag­gio è di ordine mentale. Ha lo stesso grado di mobilità del tema che ne costituisce il centro: quello della vita sul pianeta. Coincide solo a ti­tolo provvisorio con le divisioni amministrative. Si colloca nel cameo etico del cittadino planeta­rio a titolo permanente" (Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, 2005). Naturalmente il concetto di Terzo paesaggio si presta a numerose interpretazioni; varrà dunque la pena indicarne alcune.

Lingua
Nòmos in greco significa legge ma è anche il ter­mine con cui gli storici, primo fra tutti Erodoto, identificarono per esempio i distretti in cui era suddiviso l'antico Egitto. L'etimologia di nòmos è  pertanto lineare rispetto alla sua applicazione: la legge che si fa confine, il diritto che ordina il territorio delimitandolo. Questa interpretazione è stata ribadita nel 1950 da Carl Schmitt ne II nòmos della terra, vera e propria summa del suo pensiero giuridico e politico. Secondo Schmitt il nome (in quanto nòmos) è innanzitutto presa, appropriazione, spartizione e fissazione di con­fini, ma egli avverte anche una connessione molto stretta fra il nòmos e la recinzione: "II nòmos può essere definito come un muro" e ritiene altrettanto importante sottolineare come il fi­lologo Jost Trier lo definisca etimologicamente uno Zaunwort, appunto un "termine di recin­zione". È dunque il momento della 'localizza­zione' che rende concreto ogni 'ordinamento'.

Diritto
La visione di Schmitt si contrappone però a quella di Walter Benjamin su un punto: quello per cui Benjamin, a quanto dice nella sua Critica della violenza, tratta del momento in cui viene fondato il diritto, vale a dire una delle due ma­nifestazioni principali della violenza (l'altra è quella impiegata per mantenerlo). Nell'ambito del diritto pubblico "la fissazione dei confini [...] è l'archetipo della violenza creatrice di diritto. In essa appare nel modo più chiaro che è il potere (più del guadagno anche più ingente di pos­sesso) che deve essere garantito dalla violenza creatrice di diritto. Dove si stabiliscono confini, l'avversario non viene semplicemente distrutto; anzi, anche se il vincitore dispone della massima superiorità, gli vengono riconosciuti certi diritti". A un nòmos per cui il nome implica una presa che erige recinzioni, se ne contrappone però un altro in cui il nome spazza via per sempre ogni barriera possibile, e dunque al "vincolo vio­lento" della localizzazione oppone lo "svincolo liberatorio" che è la delocalizzazione, o in ter­mini deleuziani: la 'deterritorializzazione'. De­leuze ha descritto in termini molto efficaci i pro­cessi in base a cui il linguaggio rispettivamente si territorializza e si deterritorializza. Ma, in una delle sue opere fondamentali, Differenza e ripe­tizione, affronta direttamente la questione del nòmos (seppure di passaggio, in una nota) e pare quasi replicare segretamente alla serie di lavori che Schmitt aveva già dedicato alla que­stione. La nota dice: "Emmanuel Laroche mostra che l’idea di distribuzione in nòmos-nemo non è in un rapporto semplice con quella di parti­zione (témno, daìo diauréo). II senso pastorale di némo (far pascolare) non implica che tardiva­mente una spartizione della terra. La società omerica non conosce recinti né proprietà di pa­scoli: non si tratta di distribuire la terra alle be­stie, ma al contrario di distribuire queste bestie, di ripartirle qua e là in uno spazio illimitato, fo­resta o fianco di montagna. Il nòmos designa in­nanzitutto un luogo di occupazione, ma senza limiti precisi (per esempio, la distesa attorno a una città). Donde anche il tema del 'nomade' ’’.

Città
Nel capitolo VII del Manifesto del Terzo paesag­gio intitolato Evoluzione Clément spiega come l'espansione della città e degli assi di comunica­zione induca una crescita del numero dei resi­dui, ovvero delle aree abbandonate organizzate per maglie, vere e proprie "membrane urbane", che cominciano a chiudersi man mano che ci si avvicina alle grandi città. Solo se tali residui ri­mangono in contatto tra loro la diversità biolo­gica può restare elevata e trovarvi rifugio. Clé­ment sottolinea la necessità di disegnare un'or­ganizzazione, differente e realistica, del terri­torio contemporaneo ovvero per maglie larghe e permeabili. Solo cosi il Terzo paesaggio può ri­manere il luogo privilegiato dell'intelligenza biologica. È proprio qui che il Terzo paesaggio acquista la sua dimensione politica rovesciando peraltro lo sguardo dell'Occidente rivolto al pae­saggio: violando costantemente i confini del nòmos della terra.
Va dunque evitata la museificazione del Terzo paesaggio che èla logica conseguenza di alcune sperimentazioni artistiche - per esempio la "estetica del degrado" perseguita dagli Stalker al Corviale (Purini, Domus 886). Gli spazi incolti, non normati, devono essere lasciati indetermi­nati e in contatto tra loro anche perché, non a caso, sono quelli in cui si rifugiano oltre ad ani­mali e vegetali, anche esseri umani come profu­ghi e senzatetto (Yona Friedman, L'architecture de survie). Del resto anche la fotografia contem­poranea ha rivelato l'importanza di questi spazi di risulta urbani, dalla serie San Quentin Point (1981-83) di Lewis Baltz al sofisticato lavoro di Guido Guidi, da Landscapes for the Homeless di Anthony Hernandez fino a Edith Roux.
Sulla scia di Kant e Gödel, i quali mostrano in maniera inequivocabile che la norma imposta dall'intelletto è sempre una coperta troppo corta, Gilles Clément si ricongiunge sotterra­neamente a nòmos della societa omerica - e qualcosa come un anti-agrimensore, che ridi­segna il paesaggio non secondo nuovi tagli e nuovi confini, ma aprendo fra questi delle nuove vie di fuga.

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