Di che cosa si tratta, quando il diritto tratta delle “cose” di cui
tratta? Tra la cosa e la contesa, la res e la lis, il diritto romano
istituisce una complicità che dice molto dell’intreccio di contrasti
che contribuisce ad assegnare un valore a una cosa, una cosa di
cui è parola nella misura in cui se ne tratta, nella misura in cui,
cioè, è res de qua agitur. L’operazione che le avverte è ciò che ci
dice di piú delle “cose” e delle loro qualificazioni.
La procedura, in altre parole, è piú informativa della sostanza e,
in diritto, è molto meno il caso di sviluppare una teoria generale,
che dirima la questione di qual è il riferimento ultimo, e molto di
piú il caso di attraversare i modi dell’ars iuris, alla ricerca delle
istanze che hanno dato occasione a un istituto giuridico (di cui
sono la materialità) e delle eccettuazioni che sono fatte valere
quando un’altra istanza si fa strada o un istituto si amplia o si
deteriora. “Nel mondo delle istituzioni niente può avere lo statuto
di dato” (p.71), scrive Yan Thomas ne L’artificio delle istituzioni,
ora tradotto in italiano e pubblicato in aggiunta a Il valore delle
cose, che esce quest’anno in seconda edizione, sempre per
Quodlibet, sempre a cura di Michele Spanò e con un saggio
introduttivo di Giorgio Agamben e una postfazione dello stesso
Spanò.
“Niente può avere lo statuto di dato”, perché gli istituti giuridici
sono oggetto di una costruzione e produzione che avviene ai vari
livelli della pratica e della teoria del diritto. Non c’è niente di
“naturale”; anzi, il diritto chiama “naturale” solo e soltanto
l’istituto che è usato come base per la costruzione e produzione
di un altro. Cosí, la filiazione spontanea può dirsi “naturale”, solo
e soltanto nella misura in cui il suo istituto è usato come base per
la costruzione e produzione dell’istituto della filiazione adottiva.
Ma in nessun senso possiamo dire che la filiazione adottiva trovi
il proprio fondamento ultimo nella filiazione spontanea.
Il diritto ha a che fare con la contingenza dell’astrazione. “Se non
si comprende che la storia del diritto partecipa a una storia delle
tecniche e dei mezzi attraverso i quali si è prodotta la messa in
forma astratta delle nostre società, sfuggirà praticamente tutto
della singolarità di questa storia e della specificità del suo
oggetto” (pp.21-22). Le astrazioni, che gli istituti giuridici sono,
si delineano a partire dalla capacità, che esse hanno, di prendere
congedo, di assumere una distanza di sicurezza, dai fatti che ne
sono l’istanza. Esse assumono solo allora “un’esistenza reale che
governa i nostri destini nella lunghissima durata” (p.72). Di
situazione in situazione, il diritto è il luogo di una acuta
sperimentalità istituzionale e gli istituti giuridici sono un
serbatoio di soluzioni, tanto immaginarie quanto reali, sempre
riproponibili e sempre modificabili, come i problemi che ne sono
l’istanza.
Per capire il funzionamento del diritto, c’è bisogno di un radicale
ribaltamento dell’idea che abbiamo di come funziona una scienza.
Non sono le “cose” che, per affinità di comportamenti o
costituzioni, si riuniscono in una materia, che diventa oggetto di
studio; ma è una certa maniera di avere a che fare con il reale che
costruisce affinità dopo affinità, finché la specializzazione di un
modo di riferimento sopperisce alla mancanza del riferimento
stesso. Se è poi vero che, “nel diritto, un dato non si interpreta
mai se non per mezzo di una norma che non gli è immanente in
ogni caso” (Thomas 2004, p.105), allora uno studio delle
procedure giuridiche permette di indagare com’è che un
intervento normativo può mettere in forma le “cose”,
sospendendo ogni considerazione di merito sulla loro natura e
tenendo conto del valore, invece, che esse assumono in virtú di
quella stessa operazione.
Thomas richiama chiaramente la sua lettura del diritto romano a
un “approccio proceduralista” (p.21). La dedizione alla
procedura, per Thomas, non è una caratteristica della formalità e
del formalismo che il diritto ha assunto con la modernità, ma è
una proprietà che il diritto possiede in quanto tale e che gli
conferisce una stranissima e obliqua durata. D’altra parte, ciò non
legittima la teoria del diritto ad allontanarsi dalla trama della sua
casistica. Gli istituti giuridici sospendono la definitività di ogni
riferimento, ma devono essere, nondimeno, riportati, ogni volta
di nuovo, alla materialità della situazione che ne è stata
l’occasione.
L’argomentazione di Thomas è affezionata al proprio oggetto, il
diritto romano, anche da un punto di vista metodologico. L’antico
ius civile non può essere compreso, se lo si allontana dalla
precisione della sua casistica. I contributi di Thomas seguono
questa stessa ragione, confrontandosi da vicino con problemi
tipici e questioni singolari. Ciò vale pure per Il valore delle cose,
in cui il dialogo con le fonti è serrato e solo in filigrana si concede una riduzione del discorso a esternazioni di natura generale. Il
frangente a cui si dedica qui Thomas è nello specifico “la
costituzione giuridica delle cose o meglio, e piú precisamente, lo
statuto conferito alle ‘cose’ (res) da quelle procedure tramite le
quali esse sono qualificate e valutate come beni” (p.19).
Il discorso sulle “cose” ci permette di capire qual è la tipicità della
“lunghissima durata” di poco fa: non una immobilità trasversale
alla storia, ma un legame – con le proprietà di un vincolo positivo
e negativo che il diritto è disposto a ripetere e variare – istituito
con i casi che ne sono l’occasione e la sostanza. Ma se di sostanza
si può poi parlare, come abbiamo detto, perché è la sostanzialità
degli istituti giuridici che lo sguardo di Thomas, rivolto al diritto
romano, un diritto tutto processuale, mette in crisi. E questo
riporta sulla scena un carattere del diritto che proprio la modernità
ha cercato di occultare, ma che esso ha preservato. Come avverte
Spanò nella sua postfazione, per il diritto vale infatti che “i suoi
protocolli epistemologici e i suoi apparecchi operativi, la sua
efficacia e la sua intelligenza, non possono mai andare separati”
e che insomma “il caso è l’empiria stessa del diritto” (p.78).
Ciò che vale per gli oggetti giuridici in generale, vale in
particolare per le “cose” in diritto romano. Di esse non poteva
trattarsi, a meno che (non) se ne trattasse: “‘la cosa di cui si tratta’
era una ‘cosa’ proprio nella misura in cui contesa in un processo”
(p.55). E ciò vale anche per quelle “cose” che il diritto romano ha
ritenuto per definizione intoccabili: sacre, religiose o pubbliche,
che fossero cioè un tempio, una sepoltura o una strada. “Il sacro,
il religioso e il pubblico, a Roma, sono anche delle categorie
pienamente giuridiche. In questo senso, non si fondano sulla
considerazione – e neanche su un riferimento alla considerazione
– delle cose in quanto tali, bensí su procedure, espressioni formali
di una volontà di produrre e di organizzare le categorie nelle quali
e per mezzo delle quali si amministrano le cose” (pp.32-33).
Non c’è nessuna “naturalità” nell’associazione tra una cosa e un
bene, tra una cosa e un prezzo, tra una cosa e una merce. E
nemmeno immediatezza: il diritto romano, insiste Thomas
(pp.20-21), non associa mai direttamente le sue “cose” al regime
dello scambio, ma lo fa indirettamente, passando per quel genere
particolare di cose che sono le “cose intoccabili”. Di esse non si
può dire che siano beni, che abbiano un prezzo, che possano
essere scambiate come merci. Per opposizione, tutte le “cose” che
non sono “intoccabili”, di esse si può dire che il loro essere “cose”
corrisponde alla materialità dei rapporti nei quali si dicono e si. trattano come beni, prezzi, merci. Per il diritto, è inammissibile
che le “cose” abbiano una sostanza che esso non qualifichi, che
sia esterna al funzionamento delle sue procedure; le “cose” sono
piuttosto le “sostanze”, le liquidità, per cosí dire, di uno scambio:
dire res, nelle procedure dello ius civile, equivale a dire bona,
pretium, merces. È una dimensione di qualificazione, questa, tutta
artificiale, tutta interna al lavoro del diritto. Tra le “cose” dello
scambio e le cose sottratte allo scambio, le “cose intoccabili”,
passa un’unica differenza, la differenza tra diverse procedure
della loro cattura giuridica.
L’artificialità del diritto è evidente nelle sue “cose”, nella
procedura fittizia di nascondimento e posizione della loro realtà,
nella “distanza che il diritto prende chiaramente dai fatti, per agire
su di essi” (Thomas 2016, p.22). Ed è questo suo carattere
artificiale che la modernità ha cercato di smarrire e dimenticare,
laddove il modo di tale rimozione è stato quello di riservare
centralità al soggetto di diritto, alla persona, alla sostanzialità dei
diritti soggettivi. E allora un diritto che “si interessò meno alle
persone che alle cose e, senza nessun bisogno di un corpo doppio
(una figura amministrativa che dopo tutto avrebbe potuto in un
modo o nell’altro modellare), proiettò la sua organizzazione della
durata sulle seconde piú che sulle prime” (p.39), un diritto come
il diritto romano, funziona bene per dirci qualcosa di ciò che il
diritto potrebbe (ancora) essere. È un diritto, questo, che ci aiuta,
radicalizzando la congruenza di diritto e ars iuris e la distanza tra
diritto e società, a pensare nuovamente la relazione tra ciò che è
giuridico e ciò che è sociale e sui modi della performazione che
l’universo del primo aggancia sull’universo del secondo.
È pensando bene la distanza tra diritto e società, infatti, che
possiamo esplorare le libertà che il diritto si concede con le sue
“cose” e metterle in discussione. A partire da queste, poi,
possiamo mettere in discussione le persone che popolano il
mondo del diritto moderno: prima tra tutte, com’è ovvio, la
persona in cui si configura l’autorità pubblica. Se le “cose” del
diritto sono definite acquisendo una distanza dalle cose, questo è
il contenuto del diritto in quanto artificiale, in quanto la finzione
è l’operazione che gli è piú propria (Thomas 2016). E può pure
essere vero che “cette fiction n’est point l’œuvre de l’autorité
publique, mais celle du milieu social” (Hauriou 1898, p.136).
Restituire il diritto al milieu social, alla sua materialità,
sostenendone la massima separazione, perorando la causa, cioè,
della sua artificialità, può sembrare paradossale, ma è anche l’unico approccio che può rendere una teoria del diritto, oggi,
anche una sua politica.