La vexata quaestio del significato della dottrina aristotelica delle categorie,
già molto animata e controversa fra i commentatori antichi, si può ridurre, con
qualche semplificazione, a questo nucleo fondamentale: la scansione che Aristotele
stabilisce, appunto fra le diverse categorie di termini che egli prende in esame
innanzitutto nelle Categorie, implica – e dunque dipende da – uno screening
ontologico fra i diversi generi di realtà o di enti che corrispondono ai diversi modi di
essere o di esistere delle cose che sono, in accordo con la sua dottrina della
molteplicità dei sensi dell’essere, oppure presuppone, più sobriamente, una
tassonomia dei predicati più universali e della loro funzione linguistico-grammaticale
in relazione ai diversi significati della copula nella proposizione, ancora una volta in
conformità alla dottrina della molteplicità dei sensi del verbo essere? Nel primo
caso, sembra plausibile ammettere, come storicamente si è fatto, una qualche forma di
dipendenza, o quantomeno di continuità, della dottrina aristotelica rispetto
all’indagine sui generi «sommi» del reale condotta nel Sofista di Platone; nel secondo
caso, invece, si è inteso piuttosto valorizzare, nella tradizione esegetica, l’autonomia della
dottrina aristotelica dalla riflessione del maestro (per una presentazione più articolata,
e filologicamente più accurata, dell’impostazione stessa della questione, si potrà vedere
il saggio di M. Esposti Ongaro, Dialettica e grammatica nella dottrina delle categorie di
Aristotele, in «Elenchos», 26 (2005), pp. 33-63).
Su tale questione, con riferimento al dibattito particolarmente ricco e fecondo
suscitato nel XIX secolo in seguito alle discussioni sorte intorno alla dottrina delle categorie
di Kant, torna oggi Venanzio Raspa, con un magistrale studio che ha appunto
per titolo Origine e significato delle categorie di Aristotele. Il dibattito
nell’Ottocento. L’autore ha già dedicato un certo numero di lavori a questo tema,
fra i quali va ricordata almeno la recentissima traduzione italiana commentata del
saggio di O. Apelt, La dottrina delle categorie di Aristotele (a cura di V. Raspa,
trad. it. di I. Cubeddu e V. Raspa, Macerata, Quodlibet, 2020), che appare per
molti aspetti parallela al presente volume, il cui intento principale ed esplicito
consiste nella ricostruzione e nella comprensione di un dibattito tanto vivo e
controverso quanto capace di dare vita a un profondo rinnovamento nel pensiero
filosofico ottocentesco e novecentesco. Non si tratta tanto, infatti, di giungere a uno
scioglimento del dilemma interpretativo che si pone intorno al significato della
dottrina aristotelica delle categorie: Raspa conclude con particolare efficacia la sua
analisi (p. 254) mostrando come sia difficile intendere tale dottrina nei termini di
una rigorosa teoria dei predicati, abbracciando la lettura linguistico-grammaticale,
giacché la sostanza, la prima fra le categorie, non si può certamente annoverare
fra i predicati, ponendosi notoriamente come il soggetto o il sostrato ultimo di
ogni predicazione; né, d’altra parte, risulta privo di ostacoli il tentativo di
concepirla altrettanto radicalmente come una teoria dei generi del reale, sulla base
della lettura ontologica, se Aristotele ribadisce a più riprese che la sostanza, come
l’essere e l’uno, non è né può essere un genere in senso proprio. Il punto è allora
piuttosto quello di far emergere in che modo le principali linee esegetiche di questo
dibattito abbiano contribuito ad ampliare significativamente l’orizzonte storico
e filosofico della riflessione intorno alla natura e alla funzione della Kategorienlehre,
aristotelica e non solo (pp. 254-56).
Nei primi due capitoli del volume (pp. 25-27 e 29-44), l’autore stabilisce l’avvio della
sua indagine illustrando i riferimenti critici che Kant rivolge alla dottrina aristotelica delle
categorie nella Critica della ragion pura, che non riguardano direttamente la
funzione strutturante e ordinatrice delle categorie stesse rispetto agli oggetti di
esperienza che, secondo Kant, già Aristotele avrebbe correttamente individuato, bensì
l’articolazione stessa dello schema categoriale, in relazione al quale Aristotele si sarebbe
espresso in modo rapsodico e non sistematico, senza precisare effettivamente quante e quali sono le categorie, perché sono proprio quelle da lui individuate
e non altre, in che modo tale schema categoriale debba considerarsi compiuto e
completo. Ora, proprio il severo giudizio di Kant si colloca all’origine di una lunga serie
di reazioni che, fin da Herder, ne contestano la correttezza e la pertinenza, suscitando
così l’esigenza di un profondo ripensamento che prenda le mosse da un riesame della
concezione aristotelica. Di questa vicenda il terzo capitolo (pp. 45-60) espone i tratti
generali e identifica i quattro protagonisti principali: F.A. Trendelenburg, H. Bonitz, F.
Brentano e O. Apelt.
Al primo di essi, Trendelenburg, e alle critiche sollevate contro la sua interpretazione
sono dedicati il quarto e il quinto capitolo (pp. 61-98 e 99-122). Muovendo da una concezione
del linguaggio che si fonda sul rapporto fra grammatica e logica, Trendelenburg,
sin dal suo saggio del 1833 De Aristotelis categoriis e poi nel volume del 1846
Aristoteles Kategorienlehre, sostiene che le categorie di Aristotele dipendono
essenzialmente da una serie di distinzioni grammaticali e corrispondono pertanto alle
parti del discorso, derivando in fin dei conti dalla scomposizione della proposizione
semplice, il che consentirebbe di ricostruire coerentemente la loro sequenza
sistematica, assolvendo così Aristotele dall’accusa kantiana di rapsodicità. Ciò non
implica che le categorie non possiedano anche una dimensione ontologica, che emerge
invece chiaramente nel concetto stesso di hupokeimenon, a un tempo soggetto
grammaticale della proposizione e sostrato ontologico degli accidenti, ma soltanto che la
loro genesi va ricercata sul piano grammaticale e linguistico, il che non impedisce che
assumano un significato e una valenza propriamente ontologici, in virtù della stretta
relazione ammessa da Aristotele fra linguaggio e pensiero, cioè fra l’ambito della
costituzione delle proposizioni e l’ambito della formazione dei giudizi sulla realtà. La
posizione di Trendelenburg, pur con i suoi limiti e al prezzo di alcune semplificazioni,
rappresenta un punto di riferimento fondamentale negli studi ottocenteschi,
come l’autore non manca di sottolineare attraverso una ricognizione vasta e dettagliata
che è impossibile seguire qui; ma in particolare fornisce la base per l’indagine condotta da
Bonitz, il secondo dei protagonisti di questa vicenda, che è oggetto del sesto capitolo del
volume (pp. 123-144). Come è noto, già nel suo Über die Kategorien des Aristoteles
(1853), Bonitz respinge la lettura di Trendelenburg in favore della tesi alternativa secondo
la quale le categorie si pongono come le diverse forme o significati dell’essere, vale a dire
come i generi della realtà sensibile di cui è possibile fare esperienza e di cui dunque esse
forniscono kantianamente, a priori, le condizioni di classificazione e i criteri di
comprensione. È infatti a partire dalla loro applicazione ai contenuti di esperienza che,
secondo Bonitz, risulta possibile cogliere il significato delle categorie e la loro funzione:
esse esauriscono l’insieme di significati di «essere», costituendone i generi supremi che
permettono di ripartirne l’intero ambito in modo che ciascuna delle cose che sono
appartiene a uno soltanto di tali generi e si lascia di conseguenza comprendere
univocamente. L’opposizione alla tesi di Trendelenburg appare evidente
nell’identificazione dell’origine e della natura delle categorie (generi dell’essere versus
predicati universali), assai meno rispetto all’individuazione della loro funzione, che ha a
che fare, in entrambi i casi, con la determinazione dei concetti e la formulazione del
giudizio.
Dopo aver passato in rassegna, nel settimo capitolo (pp. 145-68), le prese di posizione
di alcuni influenti antichisti dell’epoca – Brandis, Prantl e Zeller – che arricchiscono, e
complicano, il quadro storico e teorico del dibattito, Raspa esamina, nell’ottavo capitolo pp. 169-187), la tesi proposta da Brentano particolarmente nella sua dissertazione
del 1862 Von der mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles.
Proponendone ancora una volta una schematica sintesi, essa muove dall’affermazione,
di per sé condivisa da Bonitz, che le categorie derivano da una suddivisione
dell’essere, tentando però di giungere, a partire da essa, a una conciliazione delle
opposte posizioni di Trendelenburg e dello stesso Bonitz. Una prima mossa di Brentano,
certo filologicamente e concettualmente discutibile, consiste nel sostenere che la
contrapposizione fra la tesi di Trendelenburg, che fa delle categorie dei predicati
universali, e la tesi di Bonitz, che le rappresenta come generi dell’essere, appare
fortemente ridimensionata se si considera che anche la sostanza, sostrato ultimo di
ogni predicazione, può essere predicata almeno di se stessa, sicché le affermazioni che
le categorie sono predicati oppure generi dell’essere si rivelano in ultima analisi
meno inconciliabili del previsto. In secondo luogo, Brentano prospetta la deduzione
delle categorie in termini diairetici e non sillogistici, fissando una prima generale
divisione, nell’essere (inteso però qui univocamente, e non plurivocamente, e dunque
marcando un netto distacco dalla prospettiva genuinamente aristotelica), fra sostanze e
accidenti, che esaurisce l’intero dominio di ciò che è; proseguendo, mentre l’ambito delle
sostanze non è ulteriormente divisibile, l’ambito degli accidenti si lascia dividere in più
classi, che corrispondono ai modi della predicazione rispetto alla sostanza. Così presentate
nella loro genesi, le categorie sono evidentemente da intendere come altrettanti «generi»
di essere (con Bonitz), cioè come sue «divisioni», benché in senso platonico più che aristotelico;
e per ciò stesso come altrettanti «predicati» universali (con Trendelenburg) perché,
appunto al modo platonico e non aristotelico, i predicati corrispondono ai termini delle
successive divisioni (sostanze e accidenti) in quanto si riferiscono ai (cioè si predicano dei)
termini posti all’inizio della divisione stessa (l’essere in generale e le sostanze).
L’ultima tappa di questo percorso, dopo il nono capitolo che offre un nuovo e ricco
panorama del dibattito allargato ai suoi attori «minori» (pp. 189-220), si trova nel decimo
capitolo (pp. 221-251), dedicato alla posizione di Apelt, come si trova esposta nel
saggio Die Kategorienlehre des Aristoteles, comparso nel 1891 e di cui, come
ricordato sopra, l’autore ha pubblicato in parallelo una traduzione italiana ampiamente
introdotta e commentata. Come ben mostra Raspa, Apelt fonda la sua lettura su un
sostanziale depotenziamento di ogni comprensione ontologica della dottrina delle
categorie: la nozione di «essere» non contiene di per sé anche l’esistenza dell’oggetto di
cui si predica, ma acquista significato soltanto attraverso le categorie, sicché all’essere in
generale non corrisponde nessun oggetto esistente. Ne consegue che si può anche
parlare delle categorie come di generi o tipi di essere, ma non in quanto suddividono o
classificano la realtà, con cui non hanno nessuna relazione diretta o indiretta; bensì in
quanto strutturano o articolano il giudizio, perché solo nel giudizio si colloca
autenticamente l’essere di cui le categorie possono allora essere considerate come
determinazioni intellettuali. Si vede bene come, alla conclusione del lungo percorso del
dibattito ottocentesco sull’origine e il significato della dottrina aristotelica delle
categorie, si incontri in qualche modo nuovamente, in terra kantiana, il suo punto di
avvio: non la grammatica o il linguaggio come tali né la realtà dell’essere
ontologicamente data restituiscono adeguatamente il luogo di origine delle categorie
aristoteliche, che va invece ricercato nell’ambito intellettuale e nella sfera operativa dei
suoi schemi logici.
Pur nei limiti di questa presentazione così breve e sintetica, si potranno constatare,
per un verso, l’estrema raffinatezza e complessità, filologica, storica e filosofica, di un
dibattito che annovera fra i suoi partecipanti alcune delle figure di maggior rilievo
dell’antichistica tedesca del XIX secolo; e, per altro verso, la fitta trama di
connessioni e riferimenti che esso stabilisce, come sua indispensabile premessa, con i
principali sviluppi filosofici del dibattito novecentesco sulla questione. Venanzio Raspa
fornisce così a lettori e specialisti un formidabile e imprescindibile strumento, storico e
critico, per ogni futuro approfondimento dell’indagine su questo tema assolutamente centrale nel corso della tradizione
filosofica occidentale.