Recensioni / La spazzatura dell'architetto


Svetta col suo metro e novanta di statura, tra gli eroi che Time Europe, per festeggiare i 60 anni dell’esportazione del magazine dagli Usa e le edizioni 1946-2006 uscite in Europa Medio Oriente e Africa, ha celebrato come i protagonisti dell’ultimo mezzo secolo. Salta subito all’occhio, tra le  teste dei Beatles e di Maria Callas, di Pablo Ricasso e Salvador Dalì, di Juan Carlos e Mahfouz, il profilo puntuto di Rem Koolhaas. Che, annunciato dalla durezza gutturale del cognome olandese e dalle evocazioni oniriche, visionarie del nome quasi acronimo - Rem, «Rapid Eye Movement» è, lo sanno tutti, la fase più profonda e più agitata del sonno: quella in cui si sospende senza remore  l’incredulità ai sogni - mantiene sulla scena le promesse della sua carta di presentazione. Sulla ribalta dei divi e delle divine da una sessantina d’anni (li ha compiuti non da molto, lui che è nato a Rotterdam nel 1944), è qualcosa di più di un architetto, se si tiene conto del suo debutto spettacolare e di grande effetto mediatico. Giornalista, esordì come collaboratore dello Haagse  Post, quotidiano della destra liberale. Figlio d’arte (il padre è scrittore, critico teatrale, direttore di una scuola di cinema), è stato sceneggiatore in Olanda e a Hollywood. Vecchio giovanotto dal vago fascino esotico (sarà per via della sua infanzia in Indonesia?), sul set si è fatto notare anche da Uma Thurman e c’è chi ancora mormora della loro love story.  Ma è soprattutto nella sua specialità che - specializzatosi all’Architecture Association School di Londra e all’Institute for Architecture and Urban Studies di New York - si distingue come un eroe. E anche qualcosa di più: «un architetto-filosofo-artista che ha ampliato e continua a ampliare la nostra concezione di città e di civiltà», lo ha definito il direttore del Pritzker Architecture Prize  conferitogli nel 2000. Architetto, artista e filosofo. Il Koolhaas progettista creativo infatti ha messo la firma su sogni realizzati come il Netherlands Dance Theatre («tra i primi edifici del XX secolo») e il gigantesco complesso residenziale di Fukuoka in Giappone, su Euralille ’96 (sorto all’uscita del tunnel del Tgv  sullo snodo cruciale della  linea Parigi-Londra) e sugli studios della Universal a Los Angeles, sui negozi di Miuccia Prada a New York e sulla sede smisurata della tv cinese a Pechino, sulla risistemazione degli ex-mercati generali di Roma e sul Campus Centre dell’Illinois Institute of Technology a Chicago di cui Mies van der Rohe disegnò i primi edifici. Il pensatore visionario poi,  teoreta geniale e intuitivo, ha firmato in passato, con Delirious New York (1978, Electa 2001), «Un manifesto retroattivo per Manhattan» che è un classico dell’architettura e della società moderna. Nuovissimo, e assolutamente inedito in questa forma, è invece il suo Junkspace (Quodlibet, 13,50 euro, poco più di 100 pagine tradotte da Filippo De Pieri e presentate da Gabriele Mastrigli). È un  piccolo, tostissimo capolavoro. Denso, stringato e compatto quanto è duro, scandaloso e di immediato, vistosissimo impatto: almeno a giudicare dalle reazioni piccate manifestate di recente da Francesco Merlo su La Repubblica («Povero Koolhaas, forse fa una brutta vita») e da Massimo Ilardi su Liberazione (non è «per nulla radicale», è «una specie di cospiratore in favore dello status  quo»). E per la prima volta riunisce i tre scritti su La città generica (del 1994) cresciuta inarrestabilmente fino alle proporzioni della Bigness (1995) divorando in un processo irresistibile e autoalimentato il proprio Junkspace (2001). Tradurre con Grandezza e Spazio spazzatura i titoli originali su cui Koolhaas ha messo il conio e il  simbolo © del copy-right, suona «generico» come la città che, abnorme e gremita di rifiuti a tre dimensioni, si vede scoppiata e spogliata di identità. Meglio allora cedere, almeno di rimbalzo, al fuoco di fila delle definizioni con cui Koolhaas spara a raffica e a zero (senza ammettere dubbi né repliche) sui «residui che l’umanità lascia sul pianeta». Sui «prodotti costruiti della  modernizzazione». Sul «coagulo», le «ricadute», i «depositi», i «rigurgiti». Lucidamente pianificati, brillantemente progettati uno per uno dalla ratio intraprendente e dall’intelligenza costruttiva. Eppure accumulati senza ordine, né disegno, a invadere tutta la scena terrestre. «Il Junkspace è il prodotto dell’incontro fra la scala mobile e l’aria condizionata concepito in  un’incubatrice di carton gesso». È «una colossale coperta di Linus che ricopre la Terra in una paralizzante stretta di attenzione». È «un ininterrotto patchwork, perennemente disarticolato» che cuce assieme «un'iconografia per il 13 per cento romana, per l’8 per cento Bauhaus, per il 7 per cento Disney, per il 3 per cento Art Nouveau seguito a poca distanza dai Maya». È «una ragnatela senza il ragno», ha la «geometria fortuita» di «un fiocco di neve». È, insomma, cascame organico - ma non biodegradabile - disperso nell’ambiente edificato di pattume. Chiaro che, di fronte a uno spettacolo simile, all’architetto operativo, iperattivo e disincantato che ha lasciato tracce nelle città d’America, Europa e Asia sapendo di non poterne che ingombrare lo  spazio di spazzatura, non restava che una sola mossa da fare «Per un ripensamento radicale dello spazio urbano», come sottotitola il suo Junkspace - sfuggito ormai del tutto alla disponibilità e alle disposizioni dei soggetti. Mettere mano alla mitraglia e ricomporre i frantumi della modernità e le rovine dell’umanismo crollate coi castelli in aria dell’architettura in una prosa illuminante ed  esplosiva.