In un passaggio incisivo sul Risorgimento italiano dei Quaderni del carcere, Antonio Gramsci afferma che tutte «le tradizioni sono cosmopolitiche» e che, nella fattispecie, la tradizione italiana lo è più di altre in quanto «il popolo
italiano è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato a una moderna
forma di cosmopolitismo» in virtù di una “missione” (così Gramsci
definisce didascalicamente il compito che dovrebbe porsi il popolo italiano)
dettata da una lunga tradizione filosofica cosmopolitica. Se come sostiene
Raymond Williams la tradizione è «una forma attivamente capace di plasmare
» poiché «è in pratica l’espressione più evidente delle pressioni e dei limiti
dominanti ed egemonici» dal momento che «è sempre qualcosa di più di un
segmento storicizzato e inerte», riflettere su di essa assume, allora, un peso
storiografico, e dunque politico, cui sembra difficile, se non impossibile, sottrarsi,
specialmente in periodi di stagnazione, crisi profonde e lente trasformazioni.
Tanto Gramsci, quanto Williams insisterebbero, infatti, sulla necessità
di un ripensamento globale della tradizione per orientare politicamente il
proprio presente. Non solo perché non può esistere politica che non si ponga
il problema, già esposto da Ernst Bloch, dell’eredità culturale e delle sue
implicazioni sulla contemporaneità, ma anche poiché solo attraverso una
storicizzazione della propria tradizione è possibile comprendere le vicende
culturali e politiche del proprio paese dettando, in questo modo, una nuova
agenda per la stessa politica. Se queste considerazioni possono possedere, in
qualche modo, un contenuto universale, ciò è da dimostrare a partire da una
sporgenza particolare: ossia il livello territoriale delle filosofie
“nazionali”.
Il libro di Corrado Claverini, La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi
interpretativi, edito per la casa editrice Quodlibet e pubblicato nella
collana Materiali IT nel 2021, sembra rispondere esattamente a questo ordine
di problemi attraverso un’indagine storiografica che non lascia rilegata ai
margini una prospettiva politica e culturale di più ampio respiro. Compito
del volume di Claverini è altresì quello di cercare una terza via tra il globalismo
dell’economia e il nazionalismo della politica, individuando un
«“internazionalismo” alternativo al paradigma “globalitario”», per mezzo di una
valorizzazione delle peculiarità stilistiche, culturali e filosofiche del territorio-
Italia.
Rapportandosi a quattro ermeneutiche concorrenziali, come si evince già
dall’indicativo sottotitolo del testo, l’Autore propone una selezione di pensatori
(nello specifico il volume indaga le proposte teoriche di Spaventa, Gentile,
Garin ed Esposito) che, a partire dall’Unità d’Italia giungendo sino ai nostri
giorni, si sono posti la questione sull’effettiva esistenza di una peculiarità specifica
del pensiero italiano, rispetto alle altre filosofie europee, lungo una traiettoria che si snoda per oltre cinque secoli. D’altronde, il tema di ricerca del
volume occupa ormai da anni una posizione stabile nel dibattito accademico
ed extra-accademico internazionale. Basti pensare, come Claverini non tarda
ad affermare, che la stessa dizione di Italian Thought, tramite la quale si
suole indicare la tradizione filosofica italiana, non è stata peregrinamente
scelta in inglese per semplici ragioni strumentali legate alle logiche di
marketing; essa piuttosto rinvia al fatto che l’attenzione per il pensiero
italiano si è sviluppata come fenomeno di ritorno in seguito a un interesse
mostrato nei campus americani, da parte di diversi studiosi provenienti da
differenti discipline per lo più riconducibili all’ambito dei Cultural
Studies, nei confronti di una gamma eterogenea di pensatori italiani.
Scopo del libro di Claverini è quello di agire contro un certo atteggiamento
“museale” volto a conservare, mummificandolo e immunizzandolo, il patrimonio
filosofico italiano per mostrare come esso possegga, tutt’oggi, una potenzialità
operativa per la nostra attualità. In tal direzione vanno letti i paragrafi
che compongono il volume. Attraverso una ricognizione storiografica orientata,
l’Autore propone come Leitmotiv delle pagine del libro l’idea che, lungi dal possedere
una essenzialità unica e irriducibile, la tradizione filosofica italiana sia
caratterizzata da due traiettorie divergenti e conviventi: una rappresentata da
una vena teoretica volta a valorizzare un certo impegno metafisico e religioso, e
l’altra più improntata all’agone politico con una ricaduta diretta sul piano etico e
civile. E che per di più, questa tradizione italiana, nel suo complesso, «possa oggi
funzionare per riorientare lo sguardo filosofico liberandolo da talune “incrostazioni”
moderne ormai esaurite o quantomeno divenute assai problematiche» in
virtù del fatto che al centro della filosofia italiana vi sia l’idea di un homo
faber, ossia «un uomo convinto che la realtà sia trasformabile e non vada
accettata per quella che è».
Da ciò possono derivare almeno due considerazioni: in primo luogo, è da
notare come sia il rapporto tra storia, politica e filosofia a fornire il campo di
battaglia la cui posta in gioco è, di volta in volta, la lotta per l’egemonia nelle
istituzioni culturali e politiche; in secondo luogo, è da sottolineare quanto
l’impasse postmoderno cui sarebbe destinato il pensiero filosofico
occidentale troverebbe la sua risoluzione nel nesso teoria-prassi e in una
metodologia interdisciplinare. In altri termini, la tradizione filosofica italiana
avrebbe a disposizione, in virtù di una connaturata predisposizione
all’estroflessione, un apparato metodologico in grado di destituire i rapporti di potere e sapere sedimentati, per mezzo di un
atteggiamento conflittuale e militante.
Non è un caso, in tal senso, che il primo dei capitoli genealogici che
costituiscono il volume di Claverini, sia dedicato alla figura di Bertrando
Spaventa, il quale viene appellato dall’Autore in modo indicativo, per
l’appunto, “filosofo militante”. Merito del pensatore abruzzese, infatti,
non sarebbe solo quello di aver avuto un ruolo da protagonista nella
diffusione dell’idealismo tedesco e, in particolare, del pensiero di Hegel in
Italia, ma anche quello di aver tematizzato, in un anno cruciale, una sorta
di Italian Thought (d’ora in poi IT) ante litteram. Infatti, nell’anno
accademico 1861-1862, all’indomani dell’Unità d’Italia, Spaventa tenne un
corso, destinato ad avere una grande fortuna anche dopo la sua stessa
morte, dedicato al rapporto tra la filosofia italiana e le filosofie europee.
Nonostante un certo atteggiamento idealista, espresso chiaramente da un
lessico teoreticamente connotato (non è raro, come fa notare Claverini,
trovare nelle pagine del corso spaventiano parole come “precorrimento” o
“inveramento”, per citare due esempi lampanti), ciò che conta sottolineare
dell’operazione di Spaventa è che la cosiddetta “tesi della circolazione
europea”, ossia quella tesi per cui il pensiero italiano sarebbe precursore
e punto apicale delle tendenze filosofiche della modernità, non sia solo una
acquisizione teoretica di un certo spessore, quanto soprattutto essa svolga
la funzione di una politica culturale di primo rilievo. Come sostiene
Claverini, interpretando Spaventa,
lo studio e la comprensione della tradizione filosofica italiana del passato non sono
fini a loro stessi, ma sono di fondamentale importanza per costruire “un’Italia c he
duri”, “un’Italia storica: un’Italia che abbia il suo degno posto nella vita comune
delle moderne nazioni”.
A ogni modo, è aliena alla prospettiva di Spaventa l’idea che l’Italia debba avere,
per le ragioni che precedono, un primato morale e politico rispetto alle altre
tradizioni filosofiche europee. Se questo rischio sciovinista è dunque evitato
con la convinzione che il pensiero necessiti sempre un suo fuori con cui
confrontarsi e nel quale svilupparsi, è al contempo aggirato il rischio di un
eccesso antipatriottico che non valorizzi le specificità storiche del pensiero
italiano, rifiutandole di per sé come residui di un orgoglio nazionalista ormai
fuori tempo massimo.
Per Claverini, l’Italia del filosofo abruzzese è pensata «secondo una logica del
tutto differente da quella dominante nell’odierna epoca della globalizzazione».
Infatti, tramite un universalismo delle differenze che allontani ogni sorta di reductio
ad unum e che si ponga esplicitamente contro «il globalismo
imperante e i nazionalismi rinascenti», Spaventa pare indicare, con la tesi della
circolazioneeuropea del pensiero italiano, una prospettiva culturale in grado di porsi al di là
dell’opposizione antinomica e conflittuale tra particolarismo e universalismo. Ma
se, in fin dei conti, un autore come Esposito pare intravedere in questa posizione
teorica «un’oscillazione non risolta tra un residuo di nazionalismo filosofico e
la prospettiva universalistica in cui l’autore tende a stemperarlo», Claverini, al
contrario, ritiene che la proposta spaventiana sia ancora feconda per l’attualità;
non solo per le evidenti analogie con un certo atteggiamento condiviso con chi
pratica l’IT, ma anche, e forse soprattutto, per una visione politica
nazionale ed europea in grado di valorizzare il momento speculativo
particolare senza dissolverlo interamente nell’universale.
Il secondo dei capitoli storico-filologici del libro è dedicato alla figura di
Giovanni Gentile. Criticando e continuando il cantiere di ricerca di Bertrando
Spaventa, Gentile irrobustisce filologicamente le precedenti ricerche del filosofo
abruzzese, proseguendo con una tendenza razionalista e teleologicamente orientata
la storia del pensiero italiano. Anche per il filosofo siciliano, la specificità
della filosofia italiana risiederebbe nella teoria della circolazione europea. Così
come per Spaventa, Gentile ritiene, con ferma convinzione, che operando produttivamente
sulla tradizione filosofica italiana si possa costruire una nuova cultura
politica per la nazione. Un’operazione di certo non lontana da quella che
avrebbe portato avanti Togliatti, con la cosiddetta “via italiana al socialismo”,
sulla scorta delle riflessioni carcerarie di Antonio Gramsci. Come spiegarsi, altrimenti,
l’utilizzo di autori come Machiavelli, Bruno e Vico da una parte, o
l’aggancio alla tradizione risorgimentale dall’altra, se non nei termini di un
rapporto produttivo con il proprio passato teso a riorientarlo nell’attualità?
Già Mario Tronti, in un passaggio illuminante di una conferenza sul pensatore
sardo, affermava che
Gramsci ha su di sé tutto questo passato. E senza tutto questo passato, non
possiamo capire Gramsci; […] c’è una linea di sviluppo originale che il
marxismo sviluppa in Italia: per il modo come viene introdotto; per il modo come
viene interpretato. Essa attraversa, ora sullo sfondo ora in primo piano, tutto il
movimento del pensiero contemporaneo; arriva all’opera dei Quaderni e va
ancora oltre. In questo senso, Gramsci è pensatore tipicamente e, io direi,
fondamentalmente italiano.
La critica trontiana, rivolta alle politiche culturali dell’allora segretario Togliatti,
voleva sottolineare sia quanto Gramsci appartenesse, instaurando un dialogo fecondo con essa, alla tradizione filosofica italiana, sia quanto fosse indispensabile
“chiudere” con questa stessa tradizione, o quanto meno con la sua
vulgata eccessivamente storicista, nell’accezione idealista del termine, per
costruire un nuovo paradigma culturale. Dunque, che si ritenga che la
tradizione filosofica italiana possa avere una ricaduta positiva per l’azione
politica o che si rimanga perplessi circa le sue possibilità, ciò che va
evidenziato, nell’economia del nostro discorso, è come il campo di battaglia sia
ancora una volta, la lotta dentro, per e contro la tradizione.
A questa necessità di ripensamento del pensiero filosofico italiano, valida per i
due poli contrastanti dello scacchiere politico, sembra rispondere l’opera di Eugenio
Garin, cui è dedicato, e non a caso, il terzo capitolo filologico del volume
di Claverini. Garin si pone esplicitamente contro le ermeneutiche di Spaventa e
Gentile, accusandole di un eccessivo idealismo dal momento che avrebbero giustificato
post factum un percorso che avrebbe naturalmente, nelle
prospettive di entrambi i filosofi, condotto alla formazione dello Stato
nazionale italiano. Con le parole di Claverini, compito programmatico di Garin,
e in particolare della sua Storia della filosofia italiana, sarebbe quello
di
tornare a indagare la storia nella sua concretezza, concependola dunque come processo
libero e non teleologicamente orientato dalla trascendenza all’immanenza.
Quindi, e soprattutto, [di, ndr] mostrare nella vicenda culturale italiana la prevalenza
di una vocazione etico-civile che sa incidere nella vita effettuale più di qualsiasi
astrattezza teorica.
In tal senso, la posizione di Garin pare sottoporre al duro vaglio della critica
i precedenti paradigmi interpretativi sia da un punto di vista metodologico, che
dal punto di vista della proposta politico-culturale. Non c’è, nelle pagine gariniane,
né l’esigenza di dovere giustificare la genesi di un nuovo Stato nazionale,
esigenza invece presente negli scritti di Bertrando Spaventa, né tanto meno l’esigenza
apologetica di dovere presentare il fascismo come realizzatore delle istanze
risorgimentali, come nel caso di Giovanni Gentile. La proposta gariniana si trova
svincolata da tali condizioni storiche ma, cionondimeno, non risulta essere, per
siffatte ragioni, meno partigiana.
A detta dello scrivente, essa va collocata, nonostante la commissione dell’opera
da parte di Gentile, nella necessità viva di ricucire e rinsaldare un’unità spezzata
dalla guerra civile che aveva dilaniato l’Italia nel corso del ventennio fascista.
Unità nazionale sotto il segno di una tradizione policromatica diventa allora lo
slogan decisivo per stabilire la nuova direzione del paese.
Pertanto, nel caso gariniano, la tradizione filosofica italiana non è piegata verso
un unico fine prestabilito, sia esso lo Stato nazionale sia esso il regime fascista,
è piuttosto valorizzata nelle sue molteplici differenze costitutive. Ciò, tuttavia,
non mina la possibilità di riscontrare un carattere forte che la differenzi rispetto alle altre tradizioni filosofiche europee. La differenza italiana, nell’interpretazione
che Claverini fornisce di Garin, risiederebbe in una certa tendenza a rifiutare
ogni tentativo di sistematizzazione del pensiero italiano. O in altri termini, con le
parole dell’autore de La tradizione filosofica italiana,
da una parte, avremo “quasi sempre” una filosofia “dell’uomo e delle sue attività”,
un pensiero mondano e terreno; dall’altra, una tradizione policromatica, la cui varietà
emerge già dagli albori umanistico-rinascimentali: si va da una filosofia attenta a
questioni civili, morali ed estetiche, ad una in cui prevale l’indagine logica e fisica
ad un’altra in cui l’istanza religiosa è predominante.
Proprio a quest’altezza del discorso emerge il punto più propositivo del libro
di Claverini. Se questa tradizione può, in qualche maniera, possedere una ricaduta
performativa sul nostro presente, come può fungere da orizzonte epistemologico
entro cui inaugurare nuovi laboratori sperimentali in grado di scardinare i
rapporti di potere costituiti? È in risposta a tali quesiti che si colloca l’ultimo dei
capitoli storico-filologici del libro di Claverini, dedicato all’IT e al filosofo che in
questi anni si è speso, più di altri, nel tentativo di assumere problematicamente
nel suo pensiero e nelle sue opere le coordinate della tradizione filosofica
italiana: Roberto Esposito.
L’IT si pone, per molteplici ragioni, in maniera differente, come mette
bene in luce Claverini, rispetto ai precedenti paradigmi interpretativi. Nello
specifico, le divergenze possono essere ricondotte a due motivi principali: da
una parte, gli esponenti dell’IT attuerebbero usi più che
interpretazioni del canone filosofico italiano, generando, talvolta, abusi
filologici che avrebbero come vantaggio, a detta degli esponenti dell’IT,
la possibilità di un’immediata ricaduta sul piano dell’azione politica. Ne
consegue che l’IT non si prospetta, in alcun modo, come compito precipuo
la stesura di una storia della filosofia italiana, ma al contrario, a partire da essa,
l’IT si prefigge lo scopo di orientare il dibattito politico e culturale
accademico ed extra-accademico. D’altra parte, l’IT si proporrebbe come
pratica culturale tesa a organizzare i saperi in maniera interdisciplinare e comparativa.
A tal proposito, Claverini afferma che
troppo spesso si è cercato di ridurla [la tradizione filosofica italiana, ndr] ad un’unica
caratteristica, ma l’adozione di una prospettiva interdisciplinare può aiutare a non
cadere in tale errore. Tuttavia l’interdisciplinarietà, da sola, non basta. È necessario
utilizzare anche un approccio comparatistico per comprendere in cosa differiscano le
varie tradizioni nazionali. Infatti, l’identità di qualcosa emerge sempre per contrapposizione
e non è possibile definire il pensiero italiano se non operando un confronto con le altre tradizioni europee e non europee.
In tal senso, la valorizzazione della tradizione filosofica italiana, lungi dallo
«sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo militaristico», produrrebbe un
dispositivo conflittuale, e perciò mai inerme rispetto alle sfide incipienti, capace
di agire politicamente il presente. Il libro di Claverini ha, dunque, il merito di
rilanciare questo conflitto, non risolto, tra la varietà dei patrimoni culturali delle
filosofie globali e l’unità, sempre più, coatta del mondo economico. Se il pensiero
italiano sarà all’altezza di questo compito, ciò sarà da dimostrare alla luce della
sua capacità di aprire sentieri nuovi.