Tra me e il comico è diventata una faccenda quasi personale: come lettore, e solo in secondo luogo come scrivente, mi sono imbattuto spesso in valutazioni sbrigative, condizionate da una certa avversione, del comico in letteratura. Una derubricazione a genere in chiave dispregiativa, una facile combinazione che porta da una presunta leggerezza a una conseguente superficialità, che definisce una letteratura di intrattenimento, implicandone quindi uno scarso valore come se intrattenere fosse poco significativo: banalmente è la televisione a intrattenere, la letteratura, anzi, la Letteratura pare debba fare altro. Questo è in generale il contesto letterario, mentre il successo teatrale, cinematografico e seriale della vis comica – che si combina con la più varia narrazione di genere, persino con l'impronta documentaristica o divulgativa – continua a crescere. D'altra parte la stessa definizione di comico risulta complessa e forse proprio per questo si tende a una sua banalizzazione. L'esergo leopardiano è, a mio personalissimo giudizio, la migliore e più ampia definizione di ciò che il riso è realmente. Mi sono chiesto quale fosse lo stato di salute del comico nella letteratura italiana e sto interrogando alcuni autori su cosa sia per loro il comico . Allora è nata un'ulteriore domanda, tanto spontanea quanto difficile: qual è il destino del comico? Eco, nel Secondo Diario Minimo, scriveva provocatoriamente di un WOM, cioè di una macchina che non produce alcun tipo di output, di informazione. Il futuro della letteratura comica, come ogni volta che ci si pone domande di questo genere, rischia di diventare un WOM, ossia una domanda senza via d'uscita.
Il titolo di questa indagine è un omaggio, neanche troppo velato, alle Cosmicomiche di Calvino che possono ben rappresentare ciò che intendo con letteratura comica: una postura dell'autore, uno scivolare della penna, un suono delle parole che sappiano tagliare la realtà e analizzarla, persino studiarla e teorizzarla, senza per questo appesantirsi. Non un comico che necessariamente diverta, ma che produca una smorfia, sintomo di un'emozione veloce e non immediatamente identificata, una sorta di piacere che attraversa la lettura. La percezione di aver compreso, o quanto meno intuito, qualcosa che già avevamo percepito ma non avevamo definito, qualcosa che ci era del tutto estraneo e che quindi abbiamo finalmente scoperto, qualcosa che avevamo intravisto senza però ancora riconoscere. Si può ridere di sé, degli altri o del mondo. Si può fare ironia, satira, parodia, sarcasmo, umorismo. Letteratura comica può essere una pagina che sorprende in modo imprevedibile, ma anche una pagina che accusa o dileggia, una pagina che crea paradossi o assurdità, persino una pagina che fa commuovere, che svela, che mostra la realtà per quel che è senza troppi complimenti. Prima di guardare al futuro, proiettandolo attraverso un'analisi del presente più recente, non si può fare a meno di ricordarsi ciò che abbiamo lasciato alle spalle: l'ingombrante Novecento.
Nel 2001 Walter Pedullà pubblicava Le armi del comico, una raccolta di saggi che confermano la tesi di Baudelaire: il '900 appartiene al comico, almeno in Italia con la farsa di Campanile, l'umorismo di Pirandello, la satira di Gadda, solo per citarne alcuni e lasciando da parte Malerba, Savinio, Zavattini, Svevo, Palazzeschi. Un comico che è stato abbracciato nelle forme più disparate e con i più diversi obiettivi: scherzo, sperimentalismo, denuncia, parodia, satira, farsa, in chiave grottesca o addirittura psicologica. Un comico trasversale e, potremmo azzardare, generazionale. Non c'è autore che non l'abbia praticato, chi solo per brevi periodi e chi per tutta la durata della sua produzione, senza vergogna e senza spocchia. Una prospettiva che si scontra, e non poco, con una certa posizione dell'editoria italiana odierna che se da una parte ricerca scritture brillanti, leggere, ironiche, perché spesso intelligenti e capaci di intrattenere e stupire il lettore, d'altra parte sembra voler difendere una Letteratura alta e altra, seriosa, importante, una letteratura letteraria che vince premi, scala classifiche di vendita, che colleziona dense cartelle stampa, traduzioni e adattamenti. Eppure, parafrasando quanto scritto da Pedullà, se riuscirete a ridere della vita essa diventerà una commedia, senza alcun danno per l'arte, ossia per la letteratura, per i libri, per i lettori e per gli scrittori.
Se avessimo tempo e spazio ci dilungheremmo sull'eredità comica della letteratura in Italia, che segna nomi giganteschi come quelli di Dante, di Boccaccio, del pessimista ma non per questo meno ironico Leopardi, dei premi Nobel Pirandello e Dario Fo. La risata appartiene alla cultura italiana, ma oggi sembra scomparire dalle nostre tavole, cioè volevo dire librerie, a favore di una produzione letteraria che addirittura nel linguaggio viene spesso tacciata d'essere eccessivamente libresca, editoriale. Inutile in questa sede ripetere ciò che potreste leggere, in modo più preciso e puntuale, in tanti saggi , limitiamoci a ragionare sul ruolo che la letteratura comica aveva nel '900. Potremmo dire che il comico era la letteratura del '900, non limitata a un genere, non un marchio a fuoco su questo o quell'autore che aveva facoltà di sbarazzarsene in ogni momento. Il comico abbracciava tutto e tutti, spaziava, divertiva, rimetteva in discussione. Perché?
Le ragioni sono tante, possiamo sceglierne una e legarla al periodo storico: il '900 è stato il secolo delle due guerre, della disperazione e della fame, e non si è privato di scrittori come Céline – mi si perdoneranno i pochi riferimenti esterofili – o di Malaparte, ma è stato anche il secolo del boom economico, della ripresa, della ricostruzione. È stato soprattutto il secolo che aspettava l'arrivo del nuovo millennio. Si viveva l'attesa di un grande cambiamento, tutto sembrava essere meno serio e preoccupante, la realtà avrebbe mutato forma: il mondo stava finendo e ne stava per nascere uno diverso. Il duemila sarebbe arrivato, con quei suoi tre zeri, a resettare tutto. Ora cosa ci aspetta? Qual è la sensazione che ci portiamo dietro dopo solo un ventennio del nuovo millennio – e forse almeno un decennio di quello appena passato?
Di un mondo finito, nel senso di limitato, che non si potrà più espandere, destinato alla regressione, al collasso. Il mito novecentesco è caduto, smascherato. Il mondo è finito, finito il progresso e finito anche l'uomo. Non ne stiamo ancora ridendo, si spera di farlo presto dinanzi a grandi problemi come quello ambientale, climatico ed energetico. Campanile e Bergson, il primo nato nel 1899 o forse nel 1900 e il secondo autore de Il riso pubblicato proprio nel 1900, sono il simbolo perfetto di un'umanità positivista, ossia fiduciosa. Rappresentano un'eredità futuristica che crede nell'imprevisto, nel caotico, nel sorprendente e nell'ironico – che sono solo altri nomi per chiamare il comico – come possibilità di riformulare il mondo. Era il tempo di distruggere per creare ancora, un'epoca di grandi cambiamenti che però riusciva a radicarsi in certezze incrollabili o, più in generale, in una prospettiva di successo a lungo termine anche se tutto fosse andato distrutto. Ora appare tutto fin troppo imprevedibile, caotico, sorprendente in senso negativo, quasi spaventoso, non c'è nulla da riformulare perché tutto è ancora da formulare. Ridere pare essere oggi solo l'occasione per sopravvivere e per riuscire a sussurrare, prima di morire: sto morendo, sì, ma niente di serio.
In un incontro del ciclo Mostruosi Accoppiamenti, mentre i relatori accostavano Wallace e Celati, pensavo che il comico è come l'atomica. La fissione nucleare comprime atomi grandi in uno più piccolo e sprigiona calore, nel testo il comico comprime tante spinte diverse in una sola storia e sprigiona risata, piacere, divertimento. Non una frammentazione, ma una sorta di aggregazione. Non è sempre il tutto che si divide in mille frammenti, ma possono essere anche i mille frammenti a unirsi per formare il tutto: una realtà disgregata e disgregante che noi ci sforziamo di riunire e non una realtà unita che desideriamo frammentare. O almeno non più. Come la fissione sprigiona calore, questa compressione di tanti impulsi, storie, visioni in un unico testo sprigiona il comico, a tutti i livelli, dalla più spinta ricerca filosofica alla Wallace fino alla quasi macchiettistica risata a episodi di un Celati.
Per capirci prendiamo due esempi specifici e notiamo quanto, in fondo, giochino la stessa partita: parliamo dell'acqua. Confrontiamo la nota storia intitolata Questa è l'acqua, proprio di Wallace, e la gag fantozziana del povero ragioniere che salta in una piscina vuota: il cosa diavolo è l'acqua? dei due pesci giovani di fronte alla saggia domanda del vecchio pesce e il ma quale acqua? del sorpreso cameriere in livrea dinanzi alla signorina Silvani sono due facce della stessa medaglia. In entrambi i casi, sia che l'acqua ci sia davvero come nel caso dei pesci sia che l'acqua manchi come nel caso di Fantozzi, siamo di fronte alla sorpresa, all'ambiguità, al ribaltamento di ciò che dovrebbe essere. I pesci vivono nell'acqua, come fanno a non conoscerla? In una piscina attrezzata l'acqua dovrebbe esserci, perché mai non c'è? La risata è suscitata dall'assenza dell'acqua, nel primo caso cognitiva, ossia nella mente e nell'immaginazione dei due pesci, e nel secondo fisica, ossia nel rettangolo che definisce la piscina. Ma si ride, lo stesso, sia con una storia intellettualmente ricercata sia con una che somiglia a una semplice gag. Prima di tornare alla domanda iniziale perdiamoci in un'ultima deviazione che però sembrerebbe d'obbligo: perché dedicarsi al comico?
Ruberò, piegandola a mio favore, una splendida frase di Ravasio che, in La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, scrive “se al necessario provvede dio, non resta che coltivare il superfluo”. Azzarderei che per la letteratura la storia, trama e intreccio, è il necessario mentre il tono, lo sguardo, lo stile quello è il superfluo: il comico è una postura, più una questione di voce che di genere, quindi anch'esso è superfluo, esattamente come qualsiasi altro tono, ma in quanto tale degnissimo della nostra attenzione. Anzi, dovremmo coltivarlo, costruirlo, stimolarlo, analizzarlo. Non c'è niente di più piacevole che indovinare un autore dal modo in cui scrive, al di là di ciò che accade sulla pagina. Quello di Alberto Ravasio è un romanzo uscito da pochissimo, pubblicato da Quodlibet e finalista alla XXXIV edizione del Premio Calvino, e non sarebbe dovuto comparire in questa analisi: invece, con un tempismo che ha sicuramente dell'ironia, è capitato nel bel mezzo della stesura e mi ha aiutato a trovare una chiusa. Quindi lo incontreremo di nuovo, a tempo debito, ma per il momento salutiamolo.
In questa analisi della produzione italiana più recente, oltre alla segnalazione di due collane indubbiamente essenziali per seguire un certo tipo di letteratura, mi riferisco a Compagnia Extra di Quodlibet e a QuiSiScriveMale di Exòrma, ho scelto di concentrarmi su alcuni libri: partiamo da una serie di romanzi firmati da Fulvio Ervas che segue, o forse affianca, quello che chiameremo filone montalbano. Dedicati all'ispettore Stucky, un poliziesco dissacrante e allegro ambientato al nord, e non al sud, ma che condivide con il successo di Camilleri quella fusione di genere giallo con un certo tono ironico. Una scrittura spiritosa e un po' buffa, capace di infarcirsi di tanto in tanto di qualche deviazione sul sociale, trattando dei mali del nord-est, ma che tutto sommato produce intrattenimento. Montalbano, volendo fare un riferimento forse più noto, non sarebbe stato lo stesso senza la lingua di Camilleri, ma non avrebbe certamente funzionato senza l'infarinatura comica. Abbiamo citato questa serie come esempio, ben riuscito, di testi ibridi che prendono il giallo, il noir, il poliziesco – generi che hanno grande successo di vendita e di pubblico – per combinarli con la comicità e ottenere una lettura indubbiamente piacevole.
Poi si apre un secondo filone che possiamo chiamare del memoir tragicomico di vite che, però, sono spesso confinate nel mondo della letteratura: penso al recentissimo Niente di vero di Veronica Raimo e al più datato Il secondo libro di Governi. Divertenti romanzi di formazione, il primo quello di una futura autrice che scopre l'assurda serietà ridicola della sua famiglia e il secondo quello di uno scrittore che non riesce, non vuole, non può scrivere il suo secondo romanzo e fugge dagli editor, che hanno come si può notare in comune la professione del protagonista/narratore/autore. Sono testi anche molto diretti, potremmo dire persino coraggiosi sotto certi punti di vista, ma che restano limitati dal contesto. Il libro della Raimo funziona bene perché dentro c'è la famiglia Raimo, c'è il rapporto con suo fratello che non si chiama Ciro Esposito ma Christian Raimo. Il libro di Governi funziona se si è almeno un po' dentro alla dinamica editoriale, all'idea di scrivere e/o essere scrittori. Scherzano di sé, degli altri e del mondo, ma non pare proprio che quello sia il mondo che appartiene a tutti. O quantomeno non ai più.