Recensioni / Junkspace, come abitare e pensare lo spazio-spazzatura

Rem Koolhaas viene tacciato di conservatorismo a sinistra solo perché invita a non opporsi alla modernità ma a sfruttarne il dinamismo e a recuperare le zone considerate morte. Le sue opere invitano a sottrarsi al logorio passivo dei consumi.
Un'idea chiara di come si vorrebbe il mondo. Ovvero l'architettura. O, meglio, un modo di intendere l'architettura. Di questa si può discutere fondamentalmente in due modi, come ricordava spesso un grande maestro come Giancarlo De Carlo: o come se fosse un'attività autonoma che si definisce da sola, attraverso quel che produce con gli strumenti della sua propria specializzazione (quindi i suoi oggetti: gli edifici e le opere); oppure come fosse un sistema di comunicazione e di espressione che si può decifrare soltanto se si conosce il contesto in cui sono emessi e ricevuti i messaggi (quindi i processi di interrelazione con le vicende umane). Entrambi i metodi, se di metodo si può parlare, forniscono indicazioni importanti. Ma il secondo porta più lontano. Lo sa bene Reni Koolhaas, che da anni non si limita a praticare l'architettura in senso stretto - nonostante le sue opere siano considerate, a ragione, fra le più stimolanti del recente panorama architettonico. Giusto per avere un'idea, basti dire che ha firmato il Netherlands Dance Theatre dell'Aja; la biblioteca pubblica di Seattle; il rinnovamento architettonico di Lille con il Grand Palais e l’avveniristico Euralille, che comprende la stazione del Tgv sulla linea che unisce Parigi e Bruxelles a Londra; e poi l’ambasciata olandese a Berlino, l’Auditorium di Porto,il Kunsthal di Rotterdam, il gigantesco complesso residenziale di Fukuoka in Giappone. gli studios della Universal a Los Angeles, il negozio Prada a New York (che in qualche modo ha rivoluzionato il concetto stesso di shopping). Per non parlare poi del colossale quartier generale della televisione cinese a Pechino, o il Campus di Chicago realizzato sui disegni di Mies van der Rohe (un'ottima guida alla scoperta delle sue opere è Rem Koolliaas/Oma di Roberto Gargiani, da poco in libreria per Laterza). Insomma, un protagonista, un simbolo degli ultimi vent'anni architettonici celebrato come una vera e propria star viatico del passaggio millenario coronato con il prestigioso Premio Pritzker, il "nobel" dell'architettura ricevuto nel 2000.
Ma Koolhaas non è solo questo. Fra un edificio e l'altro, ha trovato il tempo per imporsi come acutissimo teorico, visionario e al tempo stesso concreto, famoso per le sue idee radicali e poco convenzionali. Con i suoi scritti non manca occasione per essere all'altezza della propria fama. L'aveva fatto nel 1978 con Delirious New York, il «manifesto retroattivo» di Manhattan che rivoluzionò la lettura della metropoli contemporanea (in italiano da Electa). Lo fa nuovamente oggi con quell'immaginazione fervida e innovativa che lo contraddistingue - e che non smette di irritare molti suoi colleghi – con un piccolo, denso e brillantissimo volumetto, dal titolo Junkspace inedito, per la prima volta mandato in libreria da Quodlibet a cura di Gabriele Mastrigli, il quale appone un’ottima ed esauriente  postfazione. Per molti sarà un pugno nello stomaco – dolorante come nel Ventre dell’architetto di Peter Greenaway- almeno a vedere le prime risentite reazioni. Come quella di Massimo Ilardi su Liberazione, che lo bolla come conservatore anche un po' reazionario, «profondamente antipolitico e per nulla radicale», «garante dello status quo ... che ne fa una sorta di cospiratore in favore dell'ordine costituito». O anche Francesco Merlo su Repubblica, il quale pur riconoscendo che si tratta di un bel libro, lo descrive piuttosto cupamente come una resa tragicista di fronte alla modernità che avanza («Povero Koolhaas, forse fa una brutta vita»). Indubbiamente i tre saggi raccolti sono tanto provocatori quanto efficaci. Come efficace è il sottotitolo del volume: «Per un ripensamento radicale dello spazio urbano». Ciò che Koolhaas sembra voler proporre è un serrato confronto con l'architettura e le sue possibilità - che vengono contemplate, colte e analizzate a partire dalla realtà attuale. I tre scritti su La città generica, Bigness e Junkrpace sono le tappe di un percorso: oggi l'architettura, concepita come gerarchia degli spazi, composizione, tipologia e integrità materiale o artistica, è fagocitata dallo junkspace, ossia dallo spazio-spazzatura composto da quella roba «assolutamente caotica e paurosamente asettica» che è generata nel mondo dalle attività commerciali e le sue dinamiche.
Ma questo non significa una resa alla situazione-spazzatura, tantomeno una mancanza di idee e proposte capaci di intervenire sullo status quo. Basta leggere lo stesso Koolhaas che qualche anno fa in un’intervista ha dichiarato di occuparsi dello junkspace «perché in una società come la nostra, dobbiamo viverci. Si tratta di spazi che subiscono continue trasformazioni. Debbono modificarsi senza sosta, perché le loro funzioni e le loro esigenze cambiano. Capirne l'evoluzione è una delle sfide che dobbiamo raccogliere. II nostro mondo non è statico. È spinto da un dinamismo perenne che rimette tutto in discussione. Nel bene e nel male, possiamo imparare tante cose dagli spazi-spazzatura E rendere gli altri molto più vivi». Bisogna saper "leggere" la realtà nella quale viviamo, lo spazio nel quale trascorriamo le nostre esistenze. È quello che fa l'architetto olandese: non si limita a costruire, ma "abita" e "pensa" componendo così l'esortazione del famoso saggio Costruire, abitare,pensare di Martin Heidegger. Carto, vi è un paradosso evidente nello spazio-spazzatura: gli spazi delle nostre città sono stati creati dal consumo delle merci e a loro volta sono consumati da questo stesso consumo. Bisogna però esserne coscienti - cosa affatto scontata. Solo così gli spazi, minacciati dallo loro solennità, potranno esser salvati dalla loro stessa arguzia (e lo stesso può dirsi degli scritti di Koolhaas). E per capirlo, basterà l'aneddoto che riguarda lo shopping center Prada a New York: uno spazio grandioso, nel quale i prodotti sono nascosti e mimetizzati, abiti e accessori posti in gabbie sospese che scorrono su rotaie pronte a scomparire all'occorrenza per far diventare uno spazio commerciale anche pubblico, nel quale la parte bassa si trasforma in palco per eventi e i piani di esposizione diventato sedili per un pubblico raccolto come a teatro. Un design che evoca romanità, il teatro e la basilica, con schermi nei quali scorrono sequenze dei capolavori del cinema italiano. E quando Koolhaas è stato chiamato all'inaugurazione di quanto aveva progettato e gli hanno chiesto di definire l'elemento architettonico più importante dell'intera opera, la sua risposta è stata: «La carta da parati».