Recensioni / Louis Armstrong tra le righe

Louis Armstrong non è stato solo un grande trombettista. Ha lasciato lettere, recensioni, resoconti non meno brillanti della sua musica. Per lui scrivere è stato molto probabilmente un modo di affermare la propria esistenza, il proprio pensiero, in una società ai suoi tempi ancora profondamente razzista.

PER PRIMO
Di recente, a trent'anni dalla scomparsa avvenuta nel 1971, quel lato così poco indagato del grande musicista afroamericano è stato messo in luce da un libro, Un lampo a due dita. Scritti scelti, a cura del musicologo Thomas Brothers, appena pubblicato nella serie Chorus (ideata da Fabio Ferretti) della casa editrice Quodlibet, con la traduzione di Giuseppe Lucchesini e la supervisione di Stefano Zenni. Il primo ad accorgersi della mole di migliaia di lettere scritte da Amstrong nel corso della sua vita è stato il critico Gary Giddins, autore di una fondamentale biografia del musicista. Thomas Brothers si è mosso nella direzione appena indicata da Giddins, ampliando le ricerche e pubblicando infine un libro legato alla scrittura, alle lettere, memorie, articoli battuti a macchina o vergati a penna da colui che, nel 1952, i lettori della storica rivista Down Beat elessero «personaggio musicale più importante di tutti i tempi». Dalle pagine del libro emerge come scrivere per Louis Armstrong fosse una vera ossessione, quasi quanto la musica jazz. Come la stragrande maggioranza dei ragazzini di colore che sciamavano agli inizi del Novecento per le vie chiassose di New Orleans, Armstrong non aveva concluso le scuole elementari; maproprio per questo era piuttosto orgoglioso della sua abilità oratoria e di scrittura.
«Ciò di cui sono realmente fiero è la mia capacità di parlare e scrivere in un buon inglese», si legge in una delle tante lettere inviate al suo storico manager Joe Glaser. Quel buon inglese lo fondeva con il jive talk, il dialetto dei jazzisti. Quando un giornalista gli chiese se fosse vero che ovunque andasse si portava appresso un vocabolario e un dizionario dei sinonimi e dei contrari, lui rispose: «Ma certo. A portata di mano per quando scrivo delle lettere. Così se salta fuori una di queste parole difficili io ho già la risposta in tasca».

LA PUNTEGGIATURA Le narrazioni di Satchmo (uno dei suoi soprannomi dall'inglese satchelmouth, bocca a cartella; l'altro era Dipper, da dipper mouth, bocca a mestolo) sono vivissime, coinvolgenti, a volte surreali. Piene di forza e trastulli semantici. La punteggiatura è quella tradizionale, ma le pause e gli accenti hanno un ritmo sincopato, come quando con la tromba usava inflessioni in battere o in levare su una linea melodica di improvvisazione. Gli apostrofi, a detta di Thomas Brothers, danno spesso una spinta ritmica alle frasi. Insomma, aveva uno stile originalissimo. Armstrong masticava le parole, le assaporava sgranandole sillaba dopo sillaba, oppure esalandole tutte d'un fiato. Sapeva giocare con le connessioni verbali e grammaticali. I suoi scritti prendono direzioni sorprendenti, inattese, come durante un'improvvisazione o come quando si lanciava nello scat, modo di cantare dí cui è stato un maestro, e tra gli originastori, in cui sillabe senza significato imitano il suono degli strumenti. Dice bene Brothers nell'introduzione al libro: «La sua prosa acquisì una voce riconoscibile quanto la sua voce musicale».

BEAT GENERATION È vero, siamo agli albori dello stile di scrittura dei reading della Beat Generation, ma anche, volendo, nella preistoria dell'oralità Dercussiva delle frasi ritmiche dell'hip-hop e del rap. I racconti di Louis Armstrong fanno spesso sorridere, come quelli legati alla stipsi (nelle lettere più volte dichiara quale fosse il miglior lassativo tra quelli provati) o quando lamadre MayAnn, dopo un viaggio avventuroso da New Orleans a Chicago, interruppe un concerto del figlio salendo sul palco per sincerarsi delle sue condizioni, perché le avevano detto che «Louis non se la passava benissimo».
I riferimenti alle vicende personali non mancano mai negli scritti di Satchmo, così come costanti sono i richiami ai «bei vecchi tempi» nella sua New Orleans. Il libro di Brothers è prezioso perché attraverso gli scritti del jazzista è possibile ricostruire, oltre naturalmente alla sua parabola umana e al suo pensiero più verace e diretto, non filtrato da alcuna sovrastruttura, anche una storia parallela dell'America dei suoi tempi. Il razzismo e lo stato di cittadini di serie B degli afroamericani, ad esempio. Ricordando un consiglio ricevuto da un amico prima di partire alla volta di Chicago, Armstrong scriveva che l'amico gli aveva detto: «Dipper, fratello mio, non dimenticare mai, finchè vivrai, non importa dove ti trovi, di tenerti accanto un Uomo Bianco (che ti sia simpatico), che possametterti una mano sulla spalla e dire: 'Questo è il mio Negro', e nessuno ti farà del male».

INATTESO Oppure, nel racconto di un'esibizione, emerge tutto lo stupore dell'artista per un contesto inaspettato: «Era il 1948. Avevo un concerto in un auditorium di Miami. Entrai in scena e vidi qualcosa che forse non avevo mai visto. Vidi in platea migliaia di persone, nere e bianche. Non segregati in una fila di bianchi e inuna fila di negri. Solo tutti insieme - com'è natura. Pensai di trovarmi nello Stato sbagliato».
Chissà come si troverebbe Louis Armstrong nell'odierna era della comunicazione di massa. Oggi forse sarebbe onnipresente sui social a pubblicare i suoi pensieri e le immagini colte al volo con uno smartphone. Il linguaggio diretto, confidenziale, la leggerezza - alcune volte ai limite della banalità - di alcuni suoi pensieri assomiglia non poco, in quanto a trasparenza, a quello che si può leggere in tanti posi di emeriti sconosciuti su Facebook o Instagram. Assieme alla tromba, senza dubbio era la macchina da scrivere l'altro strumento di Satchmo, l'uomo che ha diffuso il jazz nel mondo, presentandolo ovunque con la sua leggendaisata.

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