Capita di svegliarsi al mattino sentendosi “strani”, ma tale stranezza difficilmente raggiunge il livello di ciò che succede a Guglielmo Sputacchiera, il quale al risveglio in una mattina di agosto scopre di essere diventato donna. Il protagonista del romanzo d’esordio di Alberto Ravasio (finalista alla XXXIV edizione del Premio Calvino) è un trentenne che si è segregato in casa dopo aver abdicato alla vita sociale a causa delle molte delusioni subite in tutti gli ambiti dell’esistenza, alcuni dei quali nemmeno lontanamente avvicinati: lo studio, il lavoro, l’amore. Sputacchiera è un hikikomori in versione padana con una discreta (e inutile) cultura, un padre dal tipico pragmatismo lombardo ed una madre reduce dall’internamento in un ospedale psichiatrico.
Guglielmo nel mondo “reale” non si trova assolutamente, perciò si rifugia in una dimensione in cui tutto è possibile: il Porno, che nel romanzo di Ravasio ha sempre la lettera maiuscola, come fosse un’entità altra e autonoma. Il Porno è un ‹‹contromondo››, il negativo della realtà che abitiamo e che contiene tutti i desideri più reconditi della collettività: per usare la metafora freudiana, la parte sommersa dell’iceberg. All’interno di questo mondo, Sputacchiera naviga col nome di battaglia di Carmela Pene, spacciandosi per ciò che desidera di più al mondo: una donna.
Coerentemente con il detto secondo cui è bene stare attenti a ciò che si desidera, la trasformazione virtuale di Sputacchiera finisce per diventare fattuale: egli diventa veramente Carmela Pene. Da questa metamorfosi seguono una serie di peripezie che permetteranno di fare luce sulle cause di questo tramutamento e sul mondo che circonda Sputacchiera, ciò che lui chiama il ‹‹paesello stercoso››, un paese della provincia lombarda che ripete da secoli un indefesso analfabetismo, così sempre uguale a sé stesso da non conoscere nemmeno una differenza sostanziale tra i vecchi e i giovani.
La trasformazione del protagonista, come tutte le grandi trasformazioni letterarie, è una lente di ingrandimento sulla vita, un’esperienza estrema che permette di vedere lucidamente. La metamorfosi rappresenta quindi l’uscita da sé, una nuova vita che illumina quella precedente: Sputacchiera comprende e reagisce alla sua condizione proprio nel momento in cui diventa altro da sé. Il romanzo di Ravasio è un romanzo di formazione proprio nella deformazione del protagonista, il quale comprende finalmente che la sua vita precedente gli apparteneva meno del suo nuovo corpo ‹‹transessualizzato››.
La metamorfosi non è però solo nella vicenda del protagonista, ma coinvolge anche la lingua. Ravasio gioca con le parole deformandole, alla maniera dei filosofi quando vogliono introdurre nuovi concetti (tra i tanti esempi: ‹‹gavettonava››, ‹‹sdottorò››, ‹‹filosofumo››, ‹‹cibume››). Questa lingua stramba e sghemba permette di inserire il romanzo nell’inaspettato filone della letteratura comica: la deformazione linguistica è un gioco puramente mentale, tutto “di testa”, attraverso cui Ravasio cerca di non prendersi troppo sul serio, ponendo una distanza tra sé e la realtà.
La maschera del comico nasconde difatti un atteggiamento profondamente nichilistica ed una carica anarchica e antisociale à la Carmelo Bene, chiaramente citato nello pseudonimo pornografico del protagonista. È così che Ravasio cela dietro al suo linguaggio una realtà che è disperata, un Nulla che può essere descritto soltanto giocando con le parole, rifuggendo dall’usura retorica del linguaggio. Divertirsi con le parole è l’ultima spiaggia, dal momento che la scrittura rappresenta l’unico e ultimo modo per esorcizzare la vita, rimandandola a data da destinarsi.
Ci sono però delle isole di sincerità anche in un libro così permeato di nero “pessimismo comico”; ed in questi momenti (forse non a caso) che la lingua si fa più piana rispetto al resto del romanzo. Ciò avviene ad esempio quando Guglielmo-Carmela parla con la psicologa di un consultorio, rivelando tutto sé stesso in poche righe:
‹‹Conduco una vita rigorosamente passiva. Sono stato uno studente onnivoro ma fallito. Non ho mai lavorato un giorno in vita mia. Sono pornodipendente e non ho mai toccato il corpo di una donna, nemmeno un gomito. Non ho il coraggio di affrontare il mondo, ho la fobia del futuro e sfortunatamente ho mangime economico a sufficienza per preferire la disoccupazione volontaria alla nobiltà di un mestiere spazzino. (…) Insomma, che cosa vuole che le dica? Da qualunque punto del globo la si guardi, la vita è pur sempre merda e fumo, fumo e merda.››[1]
Il romanzo di Ravasio diventa così una sorta di pamphlet “generazionale”, le cui tesi sono rintracciabili anche in altri punti chiave, come l’elogio dell’amico Guido Coprofago a Sputacchiera (e a alla scrittura) e nella lettera finale al padre, forse il vero elemento kafkiano del libro. Per usare un facile slogan da quarta di copertina, Sputacchiera è “la voce di una generazione” che si sente perennemente fuori posto e inadeguata, poiché le uniche cose che sa fare veramente (come scrivere) non servono praticamente a nulla e a nessuno. Questa generazione ‹‹pigiamata e depressa›› è quella dei trentenni di oggi che, educati a forza di promesse non mantenute di felicità illimitata, hanno perso ogni desiderio, ogni possibilità di progettare sé stessi, finendo per ripetere un tragico eterno presente in cui nulla potrà mai accadere.