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Dopo il duplice anniversario del 2020 (quando coincisero centenario della nascita e cinquantennio dalla morte) e la relativa profusione di uscite editoriali e iniziative, compito della ricerca celaniana è profittare delle nuove, dettagliate edizioni critiche (su tutte, i Gedichte e i Briefe 1934-1970. “etwas ganz und gar Persönliches”, entrambe a cura di Barbara Wiedemann per Suhrkamp), per tacere dei numerosi carteggi ormai disponibili e delle nuove antologie di traduzioni approntate da Elisa Biagini e Dario Borso). A Camilla Miglio, già da Vita a fronte (Quodlibet 2005) – che mostrava il ‘parlare in lingue’ di Celan attraverso la sua genesi bucovina, gli affondi traduttivi e gli infiniti nodi delle tante lingue-madri e deleuzianamente ‘minori’ –, si deve una nuova stagione della fortuna postuma di Celan nel nostro paese, dopo l’imponente lascito traduttivo ed ermeneutico di Giuseppe Bevilacqua (sul tema si veda la ricostruzione non priva di punte polemiche offerta da Celan in Italia di Dario Borso, Prospero 2020). I due libri che Miglio ha da poco pubblicato su Celan – uno d’autrice (Ricercar per verba. Paul Celan e la musica della materia, Quodlibet 2022), l’altro tradotto e curato (Peter Waterhouse, In territorio di genesi. Saggio su alcune poesie di Paul Celan e Andrea Zanzotto (Castelvecchi 2021, l’originale fu approntato nel 1996/97) – provano a tematizzare la genesi della lingua in uno specifico frangente della poesia celaniana, quell’intervallo di tempo che va da Von Schwelle zu Schwelle (1955) a Sprachgitter (1959).
Miglio cerca non solo lo scenario, ma le forme di quelli che nell’Introduzione a Waterhouse (In territorio di genesi, p. 12) definisce gli “eventi di Genesi”. Genesi o genesi? Il dubbio può guidare chi legge in un percorso interpretativo quanto mai ricco e complesso. Proprio commentando il primo libro veterotestamentario, in un saggio giovanile dall’incedere ostico, assertivo e mistico, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen (1916), Walter Benjamin distingueva due strati di lingua, quella degli umani, precedente e successiva alla Caduta, e la lingua in generale – sostrato concreto e insieme trascendentale del ‘dire naturale’ delle creature. Come tutta la generazione nata dopo la Grande Guerra, anche Celan scopre Benjamin a partire dalle Schriften edite da Adorno proprio in quel 1955 in cui pubblica la sua seconda raccolta e dove comincia il percorso di ricerca messo a fuoco da Miglio. Sfruttando questa coincidenza, può forse suggerirsi che se Vita a fronte affrontava le lingue ‘umane’ di Celan, Ricercar per verba va ambiziosamente a sondare la “lingua in generale” che giunge a espressione nel suo ‘poetato’. Ma questo sondaggio avviene allargando notevolmente il raggio analitico e prospettico sui componimenti celaniani.
La questione generale della poetica celaniana di quegli anni, suggerisce lo studio, è come far ‘suonare’ la lingua in generale dopo il 1945. Se «trasumanar significar per verba / non si porìa» (secondo il dettato di Paradiso I, 70-71), Miglio cerca una via d’accesso alla poetica celaniana in una ‘formula’ musicale che scava nel non plus ultra dantesco. Per volgere lo sguardo a un’ulteriorità dell’umano tutta tòrta in basso, nel deposito grave delle persecuzioni che colpiscono il poeta in prima persona, occorre «seguire Celan nel suo rileggere in controsenso e mette[re] a testa in giù certe linee di tradizione musicale che implicano una presenza di voci diverse, spesso dissonanti, e una visione non teleologica» (12). “A testa in giù”: Miglio lavora qui su un’immagine di Celan nel discorso del Meridiano (quando riceveva a Darmstadt il Premio Büchner, il 22 ottobre 1960, oggi in La verità della poesia, Einaudi 2008), che suggeriva di procedere – come poeta, come poeta ebreo post-20 gennaio 1942 (la conferenza del Wannsee) – camminando a testa in giù. Era una citazione della prima pagina del Lenz, dove lo scrittore dello Sturm und Drang prendeva la strada dei monti “il 20 gennaio”. In quell’occasione, Celan si baloccava con l’immagine del cielo come abisso sotto di sé, le mani affondate nella terra, violate dalle pietre.
Ma il gioco celaniano è tutt’altro che ingenuo, deriva da un discorso mai interrotto col passato recente della sua generazione: il poeta a esta in giù, spiega Miglio, è l’ultima concrezione di un’insistenza di anni sul farsi pietra dell’immagine di memoria: “in cerca di resti cantabili della realtà, Celan attraversa i territori della natura apparentemente più lontana dall’umano: pietre, cristalli, sedimenti e faglie geologiche” (22). “Cantabili resti” sono appunto quelle tracce di tempo di cui Celan è alla ricerca mentre sfoglia manuali di geologi, a partire dalla metà dei Cinquanta, dopo Di soglia in soglia (si veda il rimando in merito a un rilevante articolo di Mariaenrica Giannuzzi uscito nel 2016 per ‘Studi germanici’ su Paul Celan e l’uso politico della storia naturale). Perché nell’indagare la ‘mera vita’ petrosa la posta in gioco è sempre stata la possibilità di ‘ridirla’ – anche se morta. Miglio mostra, con consonante attenzione al dettaglio metrico, fonico e linguistico che tanta parte ha nel versificare fratto di Celan in questa stagione (un elemento che si intensificherà negli anni Sessanta), di quanto tempo sia intessuta la materia semiotica. Per dimostrare come la lingua celaniana sia suono che si fa tempo, membrana che va a innervare l’alone temporale (lo Zeithof che anticipa lo Zeitgehöft degli opera posthuma celaniani) di ogni voce ricordata, sostrato musicale di cui è imperniato il verso, Miglio rielabora, sulla scorta di un vaglio attento delle letture e degli appunti di Celan in quegli anni, alcune indagini di Husserl nel corso Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins curato proprio dal quel mentore filosofico eppure “Meister aus Deutschland” che fu Martin Heidegger per Celan.
«Il tempo trova, e ritrova, in ogni poesia, in ogni soggetto che scrive, legge, traduce, una sua propria intavolatura» (48), si legge. Per ‘intavolare’ parole e versi occorrono mani poetiche pronte a raccogliere (e ferirsi con) gli skandala, le pietre d’inciampo in superficie. Per afferrarle – per ‘gestire’ lo scandalo del 1933-45 – Celan ha adottato strategie sempre più complesse, sempre più ardite, che prendono piede negli appunti, negli indici, nei quaderni che portano a Sprachgitter (1959). Come rendere conto, come farlo poetando, della frattura tra “sympatheia e symphonia”, che Leo Spitzer aveva illuminato ne L’armonia del mondo (in originale: Classical and Christian Ideas of World Harmony)? «Celan – spiega Miglio – sceglie di mettere in scena una correlazione tra lingue e parole che provoca disarmonia» (165). Disarmonia che, avverte l’autrice, va intesa strettamente in chiave musicale. Profittando di un termine zanzottiano (ma in fondo celaniano) come ‘conglomerati’, Miglio mostra come alcuni componimenti riusino «strutture della tradizione musicale europea, cristiana (esemplificate in testi che richiamano le forme Alba, Laude, Fuga, Stretta, Officium tenebrarum, Ricercar); ne rivela però le contiguità paradossali col sistema che ha portato alla fine del progetto umanistico di cui esse erano parte esibita» (23). È in questa destrutturazione dell’umanesimo – delle sue forme e retoriche – che si rivela l’indice storico e tragico dell’esplorazione che Miglio compie dell’aspetto d’ombra dei componimenti celaniani: il testo-paesaggio di cui aveva già parlato Peter Szondi leggendo il poemetto Engführung si configura come percorso «di residui, detriti e ombre; in un luogo che rinominato secondo un ritmo che tiene conto della distruzione, non può essere raffigurato facendo ricorso agli strumenti tradizionali dell’arte retorica, figurativa e musicale» (234).
Sulla scorta di un lavoro acribico nella biblioteca di Celan, sui dizionari storici e sul repertorio di quaderni custodito a Marbach, in queste mani poetiche che frugano la terra e le voci (si vedano, oltre al Meridiano, i versi incipitari di Stimmen), Miglio individua il Ricercare. Iniziata nel Trecento, questa forma di improvvisazione su schemi contrappuntistici passa per il Rinascimento e trova una sua stabilità con Bach: «la composizione per strumento o voce rimembrava, rimetteva in circolo una memoria emotiva e non logica di temi» (66). In Celan il Ricercare è il modo in cui la disarmonia trova espressione in una polifonia vocale: in cui si organizza. Ed è qui, a partire da un inedito del maggio 1961 che si chiama proprio Ricercar (ma che nell’edizione critica dei Gedichte appare, alle pagine 426-427, col titolo Es geht, mutato rispetto a tutte le liste preparate per la raccolta Niemandsrose del 1963), la scoperta di Miglio dell’attingere distruttivo di Celan da forme musicali del passato. Rimembrare è smembrare. «L’uso meticoloso di relitti di forme metriche comporta anche una distruzione sistematica dei contesti e degli schemi cui esse appartengono, degli ordini valoriali che le hanno sostenute, del loro ethos; la “citazione” di forme come la Fuga, lo Stretto, il Ricercar segnala il loro smantellamento, ma ne mantiene il “contorno”» (13).
E smantellando i contorni, citando trame e sfarinando l’ordito, Celan, poeta della vista occlusa, mette in versi almeno due dei sensi rimasti: l’udito, attento ai frammenti di voci, ai controcanti, e il tatto, soggetto della ferita e della presa. Tradizione e vissuto, storia naturale e storia umana: per dirle tutte occorre sentirne il suono, e poi tradurlo, metterci le mani. Per questo conta, ricorda Miglio, che proprio negli anni prima di Grata di parole Celan abbia approntato la resa in tedesco – lingua madre, matrigna e poi materia – di Nuit et brouillard di Alain Resnais, traducendo la sceneggiatura di Jean Cayrol. Anche quel film, tra i primi a parlare di Shoah, cercava come l’imminente, imparentata Engführung di Celan di rendere l’ineluttabile anonimato dei morti quando si fanno ‘paesaggio’ e fanno cenno al passato – alle stragi e anche a prima, alla loro vita ‘organica’ –, non appena nuova erba «proietta la propria ombra sul bianco di pietre esplose» (233). Così è decisivo in questo scenario, indica Miglio, il rapporto, poi guastato, con René Char (da Celan tradotto) o col nodo inestricabile di erotismo, catastrofe e dolore di Hiroshima mon amour di Marguerite Duras prima, e ancora Resnais dopo.
L’allargamento d’orizzonte di questo studio propone debiti impensati, riusi specifici e pertinenti di lessici in munere alieno. Attraverso una serie convincente di riferimenti alle letture di storia della fisica compiute da Celan negli ultimi anni Cinquanta, ad esempio, Miglio ne rivela l’eco nel termine ‘ombra’ come «una delle controparole da opporre alla distruzione» (243). Nel flusso distruttivo della materia, le zone, le ‘aure’ d’ombra costituiscono matrici generative di “energia potenziale”, come nella fisica di Heisenberg e Schrödinger ogni ‘cosa’ è forma che calcifica potenze. È attraverso la ricostruzione di letture, reticoli e intersezioni semantiche con discipline come la fisica e la geologia che Miglio reinterpreta componimenti celebri come Stretta o Matière de Bretagne così da far «risuonare un nuovo ritmo, una nuova semantica del tempo storico, fisico e fisiologico, personale ed emotivo» (247).
I debiti con le letture scientifiche del periodo sono evidenti in ciò che può chiamarsi l’uso poetico dell’inorganico: quando Celan prova “la via della pietra”, è perché «la salvezza sta – forse – nello stato di sospensione » (254) individuato da Schrödinger (e dal suo gatto) come invisibile eppure ‘registrabile’, poeticamente ratificabile. Sfruttare gli spazi intermedi, anfibi, di membrana, diventa quindi una direttrice della poetica celaniana. Nelle stanze di Stretta anche la pietra rinverdisce, diventa dimora, spazio abitale: l’inorganico si ‘organicizza’ (secondo le lezioni dell’‘actuopaleontologia’ che «cerca spazi di vita nelle tracce fossili», 259). Ma questa vita che abita le pietre è anche, kafkianamente, ‘scrittura’.
Per questo quella di Celan è poesia tombale, poesia epigrafica (così la definisce in una lettera a Ingeborg Bachmann del 12 novembre 1959: «die Todesfuge auch dies für mich ist: eine Grabschrift und ein Grab», Briefe 1934-1970, p. 395): Celan sente i suoi versi come cippi funerari. Epigrafe su tombe inesistenti, riscritte da natura nuova e nuovo silenzio, la poesia di Celan inventa il suo registro in uno sforzo musicale dentro la materia. Lo studio di Camilla Miglio, sfruttando una varietà straordinaria di rimandi nella tastiera poetica di Celan, ricostruisce in modo decisamente innovativo la cornice geologico-fisico-linguistica di Grata di parole (si noti: precedente all’affare-Goll – le accuse di plagio che ne minarono l’equilibrio psichico a varie riprese). L’impresa di Celan, allora, fu di ‘ricercar per verba’ la sospensione tra morte e vita, natura e storia, in un cielo affogato sotto mani che frugano la terra: il ricercar, la fuga, lo stretto, furono per Celan altrettanti modi per dire il ‘trasumanare’ verso il basso, negli inferi, andando a tentoni nella negatività della storia umana.