Recensioni / Giancarlo Gaeta, Il tempo della fine

Il libro è dedicato alla figura di Gesù, la cui vicenda terrena è tanto più decisiva per la civiltà occidentale quanto più i segni di una fine del tempo gettano oggi nuova luce sul messaggio evangelico del Regno. Giancarlo Gaeta, professore emerito di Storia del cristianesimo antico presso l’Università di Firenze, ha una lunga consuetudine con il Nuovo Testamento.

Quella in cui viviamo sembra essere un’epoca propizia per ripensare il cristianesimo al di là della sua riduzione a intrattenimento culturale o a prassi identitaria. Si rivela dunque opportuna la bella appendice – che ispira in real­tà tutto il volume – sul gesuita Michel de Certeau e sulle possibilità di una «differenza evangelica», le cui modalità di esistenza è compito di ciascuna generazione reinventare sempre di nuovo.

Il saggio si distingue da altri recenti volumi sulle origini cristiane per alcuni aspetti di metodo. Anzitutto, c’è la scelta dei Vangeli canonici come fonte primaria. Inoltre, l’autore, che diffida dei metodi delle nuove scienze etnografico-antropologiche, si concentra direttamente sui testi e, in particolare, sui momenti di tensione – in una dialettica di «prossimità e distanza», come recita il titolo – che attraversano la narrazione evangelica.

La ricerca di Gaeta si muove quindi in una terza via, alternativa sia all’opzione dell’esegesi teologica sia alla ricostruzione biografica del personaggio storico. La caratteristica di questo libro è l’afflato radicale con cui viene riletta la figura di Gesù.

A partire da Mc 3,21 (ogni testo prende avvio da un versetto evangelico), il primo capitolo interpreta lo scandalo suscitato da Gesù nei parenti e nei farisei, delineando così il profilo di un vagabondo sradicato dalla sua famiglia, di un carismatico ammirato dalle folle e temuto dalle istituzioni, di un taumaturgo capace di comandare ai demoni, anticipando così la lotta finale con Satana.

Gesù di Nazaret è insomma un profeta in totale rottura con il mondo, la cui logica esclude qualsiasi mediazione, nonostante i tanti piccoli «tradimenti» dei discepoli nella storia. Il suo annuncio del Regno non trasforma questo secolo, ma si fa strada nella coscienza umana secondo una radicale «discontinuità con il tempo storico e lineare», che Gaeta – sulla scia di Simone Weil – attribuisce all’ideologia dei potenti: la tradizionale concezione di una riparabilità del mondo viene messa in crisi da un’esigenza di sovvertimento totale dell’ordine delle cose.

La salvezza non può essere né costruita, né progettata: accade invece come accoglienza di qualcosa di imprevedibile, che solo è capace di disinnescare la logica di dominio che governa la storia.

Ma l’attesa messianica non va nemmeno proiettata in un tempo a venire, sempre procrastinato, come se non bastasse la croce ad averne sancito il fallimento storico; l’irrompere del Regno tocca invece il presente e prende corpo nel farsi prossimi agli ultimi della Terra: questo è il vero segno della vittoria sul male, la cui radice è fondamentalmente l’autoaffermazione e la volontà di potenza.

Non lo scorrere delle ore scandisce la misura dell’avvicinarsi del Regno, ma il corrodersi lento delle sicurezze e dei privilegi che corazzano ogni identità; non nel balzo, ma nello scavo si accede allora alla vita vera.

Leggendo queste pagine si respira un’aria tersa: quello di Gesù è un Regno di una tale fragilità a cui noi, attori dell’età tecnologica, rassicurati dalle pianificazioni e dalle strutture, non di rado facciamo solo finta di credere.

Ci si domanda allora se basti l’annuncio o se non sia necessario attendere quella povertà estrema che pochi scelgono, ma che di tanto in tanto la vita impone con i suoi svuotamenti drammatici.

Rimane la grande tentazione di ridurre l’esperienza del Risorto – a cui è dedicato il sesto capitolo – alla narcisistica pretesa d’immortalità dell’individuo moderno, o tutt’al più a consolazione delle sue afflizioni e miserie. Ci sembra che l’autore voglia invece indicare ai cristiani di oggi l’esigenza di ripensare nuovamente il nesso vitale tra il messaggio etico-escatologico di Gesù e la fede nella sua morte salvifica, senza dissoluzione dell’uno nell’altra. Non sarà però una teoria, ma solo un’esperienza vivente ad aprire quella porta che per ora pare sigillata.

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