Noto nell'ambito della
storiografia per la
teorizzazione della
microstoria e del paradigma indiziario -
e, naturalmente, per
la loro applicazione
nelle sue opere più famose, da I benandanti a Storia notturna, Carlo Ginzburg ha proposto a partire dal concetto di
«tracce» una complessa ermeneutica delle fonti, cercandovi
il non detto, aprendo ad arditi
accostamenti congetturali e
raccontandole attraverso seducenti strategie narrative.
I suoi sono metodi lontanissimi da una concezione positivista dei «fatti». Tuttavia, Ginzburg si è sempre opposto con
forza anche a quell'antipositivismo storiografico che si è affermato in ambito anglofono negli ultimi decenni del Novecento, e che viene di solito definito
come svolta retorica, decostruzionista o postmoderna. Questo indirizzo (rappresentato ad
esempio da Hayden White) si
fonda su un radicale scetticismo verso l'oggettività del sapere storico, e insiste sulla sua dimensione retorica e narrativa,
non distinguendolo in linea di
principio dal racconto letterario e finzionale.
Da Nietzche ad Aristotele
Ginzburg vi legge una pericolosa rinuncia alle pretese referenziali del discorso storico: in altre
parole, all'obiettivo di dire la verità sul passato e all'idea che sulla strada di questa verità possiamo valerci di «prove» in qualche
modo oggettive. Non si tratta
per lui solo di un astratto principio. Negli anni Novanta si è occupato fra l'altro del problema della rappresentazione della
Shoah e del contrasto al negazionismo; e ha pubblicato la sua ricostruzione del processo a
Adriano Sofri , nel volume Il giudice e lo storico. Su questi terreni,
la possibilità di distinguere la verità dalla finzione e dall'inganno, dunque la possibilità per la
storia di rappresentare uno strumento di testimonianza etica e
di giustizia sociale, è affidata a
un solido concetto di prova.
È un tema, questo, sviluppato in modo più sistematico nel
volume Rapporti di forza: storia, retorica, prova: una raccolta di saggi uscita in italiano nel
1998, poi in edizione ampliata
nel 2000, tradotta in molte lingue e ristampata oggi da Quodlibet (pp. 172, €18,00). Lo scetticismo della svolta retorica è ricondotto da Ginzburg al pensiero di
Nietzsche, in particolare al suo
breve scritto «Sulla verità e la
menzogna in senso extra-morale», che tratta la verità come «un
mobile esercito di metafore», ovvero come il sottoprodotto di relazioni di potere retoricamente
forgiate. E questo il nucleo del
decostruzionismo e degli orientamenti poststrutturalisti, a partire da quello di Foucault. Naturalmente, Ginzburg non predica affatto il ritorno a una visione
«neutrale» e positivista dei fatti:
ma si chiede se sia possibile
mantenere una consapevolezza
del carattere retoricamente costruito della conoscenza, unendola però a un concetto di prova
che la agganci in modo referenziale alla realtà oggettiva. La risposta che propone consiste nel
rivendicare un concetto di «retorica» diverso da quello di Nietzsche e dei suoi diversi nipotini. Per i quali, nella tradizione
sofista e ciceroniana, la retorica
è un'arte di convincimento e
persuasione che fa perno sull'emotività di chi ascolta, del tutto
svincolata dalla corrispondenza al reale.
A ciò si può contrapporre una
concezione aristotelica della retorica come forma pratica di conoscenza, fondata su un nocciolo razionale che consiste appunto nella «prova» - in una accezione di questo termine che include i suoi molti significati, come
quelli espressi dalle parole inglesi proof (dimostrazione) e evidence (riferimento ai dati empirici),
ma anche nel senso del «tentare», del procedere per tentativi
ed errori, confrontandosi comunque con una realtà indipendente dal soggetto. Si delinea
dunque per la storia una forma
di conoscenza diversa sia da
quella scientifica che da quella
sapienziale, volta al conseguimento di «verità probabili», che
devono essere costantemente
sottoposte all'indagine e all'interpretazione. La consapevolezza del nesso fra sapere e potere
non può risolversi nella riduzione del primo al secondo; al contrario, studiare i «rapporti di forza» che stanno dietro la produzione delle fonti (e delle narrazioni storiche) dovrebbe spingerci a leggerle «contropelo», secondo la famosa espressione di
Benjamin. Per questo c'è bisogno di potersi appellare a una
«verità» che sia al di là della logica del potere.
Un simile programma è articolato nei saggi molto diversi che
compongono il volume: al primo che si focalizza su Nietzsche
e Aristotele ne fanno seguito altri dedicati alla rilettura del famoso testo di Lorenzo Valla sulla
donazione di Costantino, considerato il prototipo della critica
delle fonti; a un testo francese
del 1700 su una rivolta indigena
nelle Isole Marianne; alla poetica degli «spazi bianchi» nell'opera di Flaubert; al rapporto di Picasso con l'arte africana. Temi
eterogenei, che affrontano specialismi disciplinari diversi, e
che sono per Ginzburg il campo
di prova del suo virtuosismo filologico e di un expertise intellettuale avastissimo raggio. Ciò che
hanno in comune scritti così diversi è il modo di interrogare le
fonti, secondo una logica costruita su congetture e confutazioni
che trova alimento in accostamenti comparativi spesso sorprendenti ed affascinanti. Con il
rischio, semmai, che l'eccessivo
virtuosismo, come accade in certe esecuzioni musicali, faccia perdere di vista al lettore distratto la
complessiva architettura epistemologica del libro.
Attualità rivisitata
A oltre vent'anni dalla prima
edizione, è lecito chiedersi se
Rapporti di forza conservi una sua
attualità. Senz'altro sì, anche se
gli obiettivi critici andrebbero rimodulati rispetto al contesto attuale della storiografia e degli
studi sociali. Negli anni Novanta, Ginzburg identificava i problemi del postmodernismo nel
suo scetticismo o relativismo
epistemologico, nella sostituzione dei fatti con le interpretazioni e, si potrebbe dire, della politica con la retorica. Oggi la visione nietzschiana che riduce il sapere al potere ha assunto una diversa fisionomia: non più scetticismo e neppure più retorica,
ma una teoria fin troppo forte
dei rapporti di forza: spesso letti
in termini di egemonia di identità sociali essenzializzate (bianchi/neri, uomini/donne, etero/Lgbtq), che produrrebbero conoscenza o cultura solo in funzione del sostegno al loro dominio (oppure come resistenza alla loro oppressione).
Al mito della neutralità della
scienza si è sostituito quello di
un sapere «situato», da valutare
Pablo Picasso, La famiglia Soler, 1903, menzionato da Carlo Ginzburg nei passaggi relativi alle fonti dell'arte di Picasso
solo per il suo significato ideologico e privo dunque di ogni possibile oggettività e universalità
(qualità che sarebbero mere e interessate pretese del discorso
egemonico). Tempi duri dunque per le «prove», per la retorica aristotelica e persino per il paradigma indiziario. Il titolo del
libro di Ginzburg potrebbe esser letto oggi, contro le sue intenzioni, come un supporto al
catechismo woke: rispetto al
quale, invece, recuperare un po'
di vecchio sano scetticismo non
sarebbe inutile.