Recensioni / Un po’ sballati, un po’ idioti, un po’ dementi

Chiacchierare con Ermanno Cavazzoni è un’esperienza che, in certo senso, ti fa uscire fuori dal tempo. Non solo perché la sua è una delle voci più singolari della letteratura italiana, tra le meno organiche a qualunque dibattito letterario “in corso”, e non soltanto per i continui riferimenti alla classicità dei suoi discorsi, per gli sconfinamenti negli scritti medievali che ha frequentato da studioso e da appassionato lettore. È anche la sua casa bolognese, a due passi dalle torri, che sembra uscita da uno dei suoi romanzi, a creare un ambiente in cui la conversazione si immerge in un’atmosfera particolare. Una casa vuota e piena allo stesso tempo, piena di libri ma con alti soffitti, che ricorda la magione di una casata nobiliare in decadenza, dove Ermanno Cavazzoni invita periodicamente una variegata congrega di amici, scrittori e non, a leggere e chiacchierare assieme degli autori e degli scritti più vari (l’ultima mail arrivata consigliava a tutti di leggere il Manuale di Epitteto). Quando scrivo che la sua casa sembra uscita da uno dei suoi romanzi, dove la realtà è un po’ diversa da quella abituale, si fa un po’ “sbilenca”, per così dire, e finisce in questo modo per mostrare il suo lato imprevisto, beh lo intendo quasi in senso letterare. Durante una di queste riunioni, infatti, Ermanno ci ha portato a visitare uno strano scantinato – strano dal punto di vista dell’architettura, inconsueta per le case più moderne – che ricordava molto lo scantinato in cui il protagonista di La madre assassina trova i pezzi del proprio cadavere. Questo romanzo del 2020, una rivenzione del noir dove è il morto stesso che conduce un’indagine sul proprio surreale assasinio, si svolge in realtà a Milano, ma è chiaro che l’ispirazione dei romanzi di Ermanno Cavazzoni viene, oltre che dalle infinite letture, da uno sguardo particolarissimo e personale sulla realtà.
Professore di estetica e autore di romanzi irregolari dedicati a figure eccentriche, membro dell’OpLePo – l’opificio di letteratura potenziale ispirato all’OuLiPo – e ispiratore dell’ultimo film di Fellini con il suo primo romanzo; la parabola artistica di Cavazzoni è variegata e ricca di incontri. Qualche mese fa ho avuto modo di fare una lunga conversazione con lui sulla sua idea di letteratura, sugli spunti che gli hanno fornito idee e materiali per i romanzi, e su mille altri argomenti che abbiamo seguito in modo anche rapsodico, per digressioni. Ne riporto qui solo una parte, per ovvie ragioni di spazio, una parte che però restituisce un percorso tra storie e personaggi dei suoi libri da cui emerge quella sua visione acuta e allo stesso tempo un po’ comica, da intellettuale, per così dire, “disorganico”.

Quando hai cominciato a scrivere?
In terza liceo, per corteggiare una mia compagna di classe, scrivevo delle poesie alla moda surrealista, cioè buttando giù parole a caso. Avevo la cosapevolezza che si trattasse di una truffa, però avvertivo anche che le cose letterarie avevano un grande prestigio. In quegli anni leggevo parecchia letteratura, Jack London, Kipling, la collana Omnibus di Mondadori. L’inizio della mia scrittura, dunque, è coinciso con il primo piccolo autoinganno. Poi, dopo la laurea è iniziato un momento di intenso studio, facevo il ricercatore, e ricordo che scrissi un finto saggio su De Amicis, che era una via di mezzo tra un gioco letterario leggermente parodico e un vero saggio accademico. Luciano Anceschi, il professore con cui mi ero laureato, decise di pubblicarlo sulla rivista che dirigeva, “Il Verri”. Iniziai a cimentarmi con piccole prove. Il tono parodico, leggermente comico, caratterizzava tutti questi esperimenti che ho fatto tra i venticinque e i trent’anni. Questo è stato il mio esordio in minore, anzi, in minorissimo, nel mondo della letteratura. Era anche un po’ un modo di scappare dalla scrittura accademica, che avevo imparato ad usare dalla tesi di laurea in poi, ma sentivo intimamente che non era il mio campo. Più avanti ho letto, in quel bellissimo libro che è “Finzioni occidentali”, degli scritti di Gianni Celati che sono sì dei saggi accademici, ma scritti in un’altra maniera, in tono narrativo, cosa che mi colpì moltissimo: si poteva scrivere di cose serie senza quel lessico limitato e riconoscibile che è quello dell’accademia.

Quando hai capito che la letteratura era il tuo mondo?
Come lettore abbastanza presto. Già alle medie leggevo molto, soprattutto i romanzi d’avventura come “David Crockett” o i libri di Salgari. Avevo una zia, la sorella minore di mio padre, che mi dava i libri da leggere, quelli che lei riteneva che fossero adatti a un bambino della mia età. Leggevo molti classici degli anni Trenta, di cui era piena la mia casa, e poi è arrivata la stagione dei russi e dei francesi. Leggere mi piaceva davvero moltissimo. Come autore ho cominciato con quei racconti parodici di cui parlavo prima, per staccarmi dal campo accademico e anche dalla rissosità del mondo universitario – la competizione per ottenere posti e riconoscimenti è qualcosa che ho sempre patito. Fare giochi letterari era una specie di evasione ma anche una vena di scrittura che mi dava soddisfazione. Poi arrivarono i romanzi di Celati, prima ancora di conoscerlo personalmente. La banda dei sospiri , il primo suo libro che ho letto, mi influenzò moltissimo: era pieno di “errori sintattici”, potremmo chiamarli così, rispetto alla bella forma che rendevano però viva la lingua. Non avevo mai pensato, prima di leggere lui, che si potesse scrivere anche così.

Tra gli scrittori che hai incontrato c’è qualcuno che consideri un maestro o un fratello maggiore?
Celati indubbiamente ha avuto un peso molto grande, un vero e proprio fratello maggiore. Anche Luigi Malerba l’ho conosciuto prima come lettore e poi di persona e mi ha influenzato molto. In quegli anni avevo scoperto questo filone meno conosciuto e forse più sofisticato della letteratura italiana che non coincideva coi grandi nomi come Pasolini e Moravia, che sono tutt’ora molto letti e che all’estero sono pressoché totalmente identificati con la letteratura italiana. Leggere il primo Volponi, Zavattini, Malerba e Manganelli è stato per me illuminante. Appartengono, mi verrebbe da dire, a un filone della “miscredenza”. Questa è una cosa che ho scoperto pian piano: la letteratura fin dalle origini, è come se seguisse due filoni paralleli che arrivano fino a Pinocchio e Il libro cuore , due libri contemporanei ma antitetici. Uno è il libro della disobedienza – Pinocchio è un bugiardo ma alla fine, leggendo il libro, si parteggia per lui – e l’altro è il filone che sostiene i valori, il civismo, la rettitudine. Questi due filoni hanno attraversato tutte le epoche della letteratura italiana. Il Decameron , ad esempio, è un libro che compare in un momento in cui la religione è tutto, è l’aria che si respira, un dovere insopprimibile, eppure è un libro pieno di tradimenti a tutti i livelli, persino i preti fanno sesso, è un mondo miscredente. Di esempi se ne possono fare tantissimi, anche con il poema cavalleresco italiano. La chanson de Roland è il poema dell’Occidente che porta avanti la sua guerra e si difende dall’invasione islamica, è un racconto molto serio dove i valori sono importantissimi e fondanti. Il poema cavalleresco italiano, invece, ha introdotto lo scherzo, il giocare con i valori: l’ Orlando Furioso dell’Ariosto viene spesso definito ironico, anche se forse non è la parola giusta, ma è indubbiamente un poema scherzoso. Questo è stato un prodotto esclusivo della letteratura italiana. Non a caso nel Don Chisciotte , quando il prete decide di bruciare i libri cavallereschi di Alonso Quijano, non tocca quelli di Boiardo e Ariosto. Tasso, invece, sicuramente appartiene all’altro filone.
Ora, mi rendo conto che tagliare in due di netto la letteratura sia anche in parte arbitrario, ma io la vivo in questo modo e credo anzi che le cose stiano tutt’ora così. Persino in un libro importante come i Promessi sposi il personaggio più memorabile, alla fine dei conti, è quello meno santo, Don Abbondio, che è un Alberto Sordi di allora. Sordi, nei suoi film, ha interpretato in vari modi la figura dello scettico, di quello che in fondo non crede a nulla. È singolare che in un libro che affronta un tema religioso il personaggio più riuscito sia un prete miscredente e codardo, che non segue le regole della sua dottrina. Io credo che lo scivolamento verso il buffo e l’irrispettoso è una via maestra, forse quella che riesce meglio, non so se perché connesso intimamente con la stessa lingua italiana o con la mentalità di chi la parla. La commedia all’italiana del cinema ne è un’ulteriore incarnazione e persino Fellini, del suo cinema, diceva che era essenzialmente comico.

C’entra anche la commedia dell’arte e il ricorso ai dialetti, che finiscono sempre per avere una sfumatura irrispettosa e divertente?
Beh sì, è un’ottima osservazione. Le parlate dialettali, gli italiani regionali, sono spesso all’orgine di scritture memorabili. Basta pensare a Belli, un autore meraviglioso, che è essenzialmente un autore comico satirico ed era ammirato anche da Gogol. Probabilmente le tradizioni locali, che tendevano allo scherzoso, all’allegro tumultuoso, hanno avuto un’influenza sul resto della letteratura. Ovviamente un discorso del genere andrebbe approfondito con uno studio specifico, ma penso che probabilmente una connessione ci sia.

Quanto è stata importante l’Emilia, come luogo di ispirazione, per la tua scrittura? È un luogo reale o letterario per te?
L’elemento centrale è la parlata. Tempo fa con Celati, quando avevamo questa piccola rivista che si chiamava Il Semplice, ci invitarono in vari posti della Germania identificandoci come scrittori “padani” e scrittori “della nebbia”. Noi ci scherzavamo su e avevamo abbozzato l’idea di scrivere una storia della letteratura italiana per i tedeschi che contenesse tutte queste idee climatiche. Io, in realtà, mi ci ritrovo con fatica nella tendenza a identificare un clima e uno scrittore. È vera l’idea di Donizetti, che sostiene che non c’è un italiano ma tanti italiani, e quindi forse potremmo dire tante letterature legate ai luoghi di provenienza. Spesso questa concezione è stata interpretata come un’influenza geografica mentre, io credo, il discorso centrale è nella lingua. Esiste una parlata grossomodo emiliana, che si può estendere anche alla parlata romagnola – che però ha i suoi dialetti che sono molto differenti. C’è un’area linguistica che circola attorno al Po, tra l’Emilia e il sud della Lombardia, come esiste un’area lingustica del Veneto. Sentirsi dentro una parlata locale che ti appartiene significa riconoscersi in quella che è un po’ la tua vera lingua materna. C’è sempre stata l’idea che scrivere in maniera “letteraria” significhi abbandonare le inflessioni locali e quindi anche tutti i piccoli errori che si fanno rispetto all’italiano della Crusca. Era un’idea molto in voga negli anni Cinquanta, ad esempio, e ricordo che anche nella vita quotidiana mia madre, che al telefono con sua madre parlava dialetto, a me bambino invece si rivolgeva in italiano, perché il dialetto era visto come una cosa volgare e incolta. Era un vero e proprio rifiuto. Gli autori che citavo prima, come Celati e Malerba, facevano invece un ampio ricorso a soluzioni che divergevano dall’italiano strandard e attingevano dal parlato, ed è indubbiamente un alimento per l’invezione.
L’attenzione al parlato emiliano, non solo mia ma di tanti scrittori di quest’area, è stata un po’ come una liberazione: la parola esce molto più facilmente e distesamente. Questo esperimento l’ho fatto con il mio primo romanzo, Il poema dei lunatici , dove la parola è volutamente imperfetta e il protagonista ha una capacità di pensiero limitata, diciamo così, e quindi si esprime con la lingua che conosce.

L’Emilia ti ha fornito dei tipi umani che sono stati di ispirazione?
C’è una tipologia umana che mi ha sempre interessato, non solo emiliana ma più in generale italiana, che è la categoria dei perdenti. C’è nella letteratura come nel cinema, con la commedia all’italiana. È difficile in Italia raccontare delle storie trionfanti come avviene in America. Poi esistono anche da noi dei generi che incarnano un’epoca, come il giallo poliziesco. Però il perdente ha un posto d’onore nelle storie italiane e sicuramente è una figura che mi affascina. Per restare all’Emilia Romagna c’è, in effetti, una figura che circola molto, che potremmo definire quella del “mezzo matto” e che torna in molti racconti. A ben vedere è una figura presente in molte regioni. In Emilia, tuttavia, il “mezzo matto” è spesso guardato con un leggero sorriso di divertimento, ma anche con una certa ammirazione, come se fosse uno in grado di dire cose insolite, fuori dal normale. Per cui i personaggi un po’ sballati, un po’ idioti, un po’ dementi sono molto più interessanti di quanto possa esserlo il buon padre di famiglia, sposato e con figli dilingenti, ad esempio, che è un personaggio che dà poche risorse letterarie.

Mi racconti la genesi del Poema dei lunatici , il tuo primo romanzo?
Il poema dei lunatici nasce da una ricerca. Negli anni precedenti, sull’onda della Storia della follia di Foucault, mi ero messo a fare delle ricerche nei manicomi dell’Emilia. L’istituto Beni culturali della Regione mi aveva commissionato un lavoro sugli archivi dei vecchi manicomi. Dopo la legge Basaglia e la chiusura dei manicomi, gli archivi erano stati dismessi e gettati un po’ disordinatamente negli scantinati. In Emilia ci sono cinque grosse strutture che risalgono all’Ottocento e persino all’epoca pre-napoleonica, alla fine del Settecento. Hanno degli archivi enormi, che seguono le vicende del manicomio similmente ai grandi manicomi francesi raccontati da Foucault. La ricerca sugli archivi manicomiali aveva l’obiettivo di capire in che stato erano e se si dovessero restaurare e mentre la svolgevo avevo la speranza di imbattermi in scritti di ricoverati. Foucault aveva pubblicato diversi scritti bellissimi di ricoverati che aveva rinvenuto, come “Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…”, una sorta di memoriale di una persona che aveva ucciso tutta la sua famiglia. Da questo punto di vista, però, questa mia ricerca laterale è fallita. D’altronde è ovvio, uno che finisce in manicomio spesso ha proprio perso la capacità della lingua, di esprimersi, è una rarità che la mantenga. I pochi memoriali che ho trovato erano molto poveri e privi di interesse. Però ho trovato moltissimi spunti nei resoconti di chi faceva ricoverare un parente, ad esempio le testimonianze del prete che spiegava le ragioni per cui una persona doveva essere ricoverata, oppure nelle anamnesi dei medici. La cartella clinica dell’Ottocento è strardinaria, perché siamo in piena epoca positivista, e quindi il documento, l’empiricità, erano elementi fondamentali. Questi incartamenti sono dei veri e propri malloppi, molto grossi, che contengono scritti di ogni tipo: memorie familiari, resoconti delle autorità, referti clinici, anamnesi, scritti autobiografici degli stessi ricoverati. Da questo punto di vista le cartelle cliniche ottocentesche sembrano dei romanzi smontati, non ancora messi in forma narrativa. Ho passato moltissimo tempo in questi archivi, da solo, negli scantinati dove erano tenuti e dove avevano cominciato a degradarsi, ad ammuffire. Ho letto molte cartelle cliniche, una lettura estremamente istruttiva e da cui ho cavato tanti spunti che mi sono poi serviti per questo mio primo libro di narrativa. Anche delle piccole espressioni: mi ricordo di aver trovato in una lettera un’espressione di una paziente, una signora anziana, che trovo straordinaria e che poi ho usato nel libro, che diceva al medico per iscritto: “ho le braccia che mi sembrano due pezzi di corda”, per dire che non riusciva neanche a sollevarle. Mi annotavo frasi di questo tipo, ripromettendomi di utilizzarle, magari aggiunstandole un poco. La pazzia a volte produce delle espressioni verbali anomale, un po’ sbagliate, ma molto più espressive che se fossero dette in una lingua pulita e corrente.

Un altro tuo libro, La valle dei ladri , si svolge nel basso mondo, che è una bellissima invenzione letteraria. “Nel basso mondo tutto è vecchio e consunto”, così lo descrivi; un luogo in cui “gli dèi, se ci fossero, se ne starebbero a letto tutta la settimana, malaticci e indolenti”. È un posto al rovescio rispetto al mondo reale, ma che in questo suo essere al rovescio racconta una verità. Come ti è venuta questa idea?
Il basso mondo è un aldilà. Però non è un aldilà che viene dopo la vita, come nel cristianesimo. È un aldilà che assomiglia a quello degli antichi greci, di Platone. Per Platone l’aldilà viene prima della vita. Si pensava che in una vita precedente, o in un luogo precedente alla vita, venissero impresse alle persone le proprie inclinazioni, le proprie qualità. Un’eredità che ancora abbiamo oggi di quel modo di vedere le cose sono i segni zodiacali: se uno nasce sotto una certa stella, questa influenzerà il suo carattere. Nel decimo libro della Repubblica di Platone c’è un bellissimo mito, il mito di Er, un soldato che una volta morto torna in vita per raccontare delle cose viste nell’altro mondo. È un mondo prima del mondo, perché le anime sarebbero poi tornare a nascere, cariche delle inclinazioni assegnate loro in questo luogo. Ho deciso di costruire il basso mondo su questo modello di una vita che precede la vita, salvo che poi un personaggio nell’ultimo capitolo ne esce e si ritrova a Milano, dove finisce per corteggiare una signorina che somiglia moltissimo a una donna che aveva incontrato e corteggiato precedentemente. Solo che questo basso mondo è un mondo degradato, dove tutto va in malora, perché è un soggiorno temporaneo, non c’è un futuro, niente viene tenuto in piedi, tutto è rovina.

Il titolo del libro è cambiato. La prima edizione, uscita con Einaudi, si intitolava Cirenaica , mentre l’ultima, uscita per Quodlibet, si intitola La valle dei ladri . Per quale motivo?
La valle dei ladri è il titolo che volevo mettere originariamente anche alla prima edizione, ma era l’epoca di mani pulite e l’editore era convinto che si rischiasse il fraintendimento. Allora ne ho cercato un altro. “Cirenaica” l’ho scelto perché in un capitolo del libro si parla dell’unico cinema del basso mondo dove si proietta sempre e soltato un unico film, ambientato grossomodo in Cirenaica. Questa fascinazione geografica mi viene da un mio zio che, durante la guerra, era stato mandato proprio in Cirenaica, quando aveva vent’anni. Lui raccontava questa avventura militare, finita in modo strano, perché lui e tutti i suoi commilitoni si consegnarono volontariamente agli inglesi perché non era fascisti e non volevano combattere quella guerra. Nei suoi racconti, però, questa guerra era piena sì di avventure, ma tutte un po’ sbiadite. Allora mi sembrava come se si trattasse di un film non completo, fatto di diversi spezzoni.
D’altronde, come si dice nella Certosa di Parma , quando a vent’anni si viene mandati in guerra non si sa nemmeno dove si va, non ci si rende conto di nulla, e il mondo favoloso dell’avventura militare è un mondo anche un po’ incomprensibile. Allora mi figuravo il suo racconto come un film sbiadito, di cui non si conosce la trama intera, ma di cui si vedono solo dei pezzetti. Ho capito dopo che questo titolo aveva un limite forte: solo a me ricorda mio zio e quel suo racconto. Per tutti gli altri Cirenaica ha un eco coloniale che con il libro non c’entra nulla. Sono sempre stato scontento di questa soluzione.

La “vita prima della vita” in fondo è un limbo. E questa parola mi riporta a un altro tuo libro, Il limbo delle fantasticazioni, che è un libro particolare, di riflessioni, dove metti a fuoco una tua idea di letteratura, in parte contestando la scrittura narrativa come professione. Me ne parli meglio?
Quella di cui parlo in quel libro è un’idea di letteratura come possibilità di fare il colpo gobbo. Una via accelerata per avere successo senza tutta la trafila degli studi, senza dedicarsi indefessamente a qualcosa. È una speranza che tocca molti e, intediamoci, probabilmente ha toccato anche me. In questa maniera, però, la letteratura è come se fosse solo uno strumento per innalzarsi. Magari a qualcuno serve a conquistare la ricchezza – cosa rarissima con i libri; a qualcun altro serve a conquistare degli amori, o a farsi considerare maggiormente. Questa dimensione grava sulla letteratura e sull’arte in generale, la speranza di ottenere velocemente qualcosa. Anche la politica funziona in questo modo, fa balzare agli onori delle cronache personaggi che ottengono incarichi importanti senza fare tutta la trafila del funzionario pubblico, che si guadagna lentamente credibilità. Credo che sia una cosa che può guastare la mente di chi si dedica alla letteratura.

Nel libro scrivi: “Se potessi legiferare, decreterei che la questione dell’arte sia d’ora in poi trascurata, e che la cosiddetta letteratura coi suoi generi (poesia, romanzo eccetera), le sue figure (l’autore, l’opera, l’Opera Omnia), con al sua organizzazione di giudici, la sua rete di promozione, le sue teorie (e la domanda tipica: che cos’è la letteratura?), decreterei che la letteratura sia un caso particolare, piccolo (anche se supponente e aggressivo), del più vasto, vastissimo e libero limbo delle fantasticazioni. Dico limbo perché, come si sa, nel limbo sostavano i non battezzati; e dico fantasticazioni per sottrarre le scritture all’apparato ministeriale della letteratura”. È una una bella provocazione rispetto al professionismo letterario. Mi scuserai se, a questo punto, ti rivolgo anch’io la domanda tipica: se non deve essere tutto questo, che cosa deve essere, per te, la letteratura? E, soprattutto, ha senso porsi queste domande?
Anche queste frasi, che ho scritto io, al fondo sono sempre contraddittorie. Perché qualunque cosa uno faccia si sottomette a delle regole esterne a lui, che ci sono. Oggi chi scrive, scrive principalmente romanzi. Cinque secoli fa avrebbe scritto un poema. Se scrivesse oggi un poema nessuno lo leggerebbe. Quindi, alle regole, c’è poco da fare, chi scrive finisce per sottomettersi. La forma romanzo, ad esempio, ha assunto una dimensione più o meno standard, una suddivisione in capitoli che si trova costantemente, eccetera. Le regole sono tantissime e finisco per determinare la forma in cui scriviamo. Ma d’altronde applichiamo anche la sintassi e la grammatica della lingua che parliamo. Poi si può decidere di sballarle un po’, queste regole, ma di fatto vi siamo immersi. Quello che volevo provare a dire in quel passaggio è che sarebbe bello se la scrittura fosse una cosa spontanea, se si potesse buttare fuori un discorso come il ragno butta fuori il suo filo. Non applica regole, è la sua fisiologia che glielo fa fare. Sarebbe bello che fosse così ma forse è impossibile, perché una comunità applica delle regole formali perché altrimenti le forme espressive non circolerebbero e non sarebbero capite. Questa idea, però, resta come un ipotetico polo d’arrivo: quello in cui chi scrive limita al massimo le regole apprese, e quindi la ripetizione di forme, e cerca di andare verso una sua piena espressività. Pensa a Celine – per fare un esempio noto – che ha trovato una forma che è solo sua; certo, anche lui poi deve utilizzare una sintassi, una grammatica, eccetera. Però ha tirato il discorso verso una forma più personale, che sembra fluire naturalmente (anche se so che l’avverbio “naturalmente” può essere fuoriviante, nella scrittura di totalmente naturale c’è poco). Lo immagino come una specie di istinto che può venire a chiunque, come avvenne a una mia prozia di cui parlo nel libro, che presa da ispirazione scrisse un’unica poesia, una sola volta nella vita. La differenza tra un artista riconosciuto e mia zia che scrive una sola poesia è che se dici qualcosa qualcosa di troppo personale, in una forma troppo personale, quel discorso finisce per diventare ermetico e non comunica più niente a nessuno. L’artista deve saper usare delle regole ma, per fare un discorso personale che si stacchi dalla ripetizione, deve scrivere il più possibile fuori da esse.