Sul finire del XVIII secolo Novalis bollava il Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe come opera
«troppo prosaica e moderna», biasimandola per i suoi temi impoetici, specialmente a causa delle
descrizioni dettagliate delle attività commerciali, dei problemi materiali di vita quotidiana, dei
discorsi della gente comune. È a partire da questo binomio aggettivale che muove il volume di
Daria Biagi Prosaici e moderni. Teoria, traduzione e pratica del romanzo nell’Italia del primo
Novecento, utilizzandolo come lente interpretativa per illuminare le tappe cruciali dello sviluppo del
genere romanzesco in particolar in modo in Italia. Sulla scorta del concetto bourdieusiano di
«lettura», per cui l’aspetto individuale del lavoro traduttivo non è mai recidibile da quello più
propriamente sociale, la ricerca di Biagi coniuga senza soluzione di continuità sociologia letteraria,
ricostruzione storica, teoria della traduzione e della ricezione e analisi testuale, per delineare in
maniera prospettica la fisionomia dei fenomeni letterari più caratterizzanti dei primi trent’anni del
secolo scorso, prestando grande attenzione ai produttivi legami che si vengono a creare nel
panorama italiano fra teoria e prassi della letteratura, traduzione ed editoria, e che sono poi innesco
fondante del lento ma progressivo rinnovamento del repertorio letterario nostrano, sino a quel
momento attardato e incapace di stare al passo con i profondi mutamenti sociali ed economici
propri della modernità.
Il primo capitolo – Educazione romanzesca – fornisce, in tal senso, una panoramica esaustiva della
situazione del romanzo in Italia a inizio XX secolo, delineando le principali posizioni estetiche
emerse in seno alle maggiori riviste del periodo – in primis «La Voce» –, le cui resistenze antinarrative e anti-finzionali, accompagnate da una spesso rigida obbedienza ai precetti crociani, sono
tra i motivi principali per cui il romanzo tarda ad affermarsi in quanto genere letterario degno di una
sua ragion d’essere, essendo invece considerato, almeno fino alla metà degli anni Venti, un
passatempo ameno, non meritevole di alcun incoraggiamento o approfondito ragionamento. Ciò
spiega le ragioni per cui arriva altresì in ritardo la consacrazione di quegli scrittori, come Verga,
Pirandello, Svevo e Tozzi, che oggi, dopo essere stati ampiamente canonizzati, sono considerati a
tutti gli effetti i principali esempi italiani di protomodernismo (Verga) e modernismo (Pirandello,
Svevo, Tozzi). In questo scenario fortemente conservativo si segnalano però eccezioni come quelle
di Giuseppe Antonio Borgese e Alberto Spaini, che, attraverso il loro infaticabile lavoro di scrittura
pubblicistica, di insegnamento accademico (nel caso di Borgese), di traduzione, di curatela
editoriale, divengono non solo veri e propri mediatori culturali, specialmente legati alla letteratura
tedesca, ma anche vettori di un germinale rinnovamento romanzesco, stilistico e contenutistico, che,
cavalcando di lì a poco il successo editoriale delle collane di narrativa tradotta degli anni Trenta,
permetterà al genere di uscire finalmente dal suo stato di minorità. Biagi presta particolare
attenzione, anche in virtù di un accorto utilizzo della documentazione epistolare e d’archivio, a
figure altrettanto fondamentali in questo processo di modernizzazione romanzesca, come Rosina
Pisaneschi, Barbara Allason, Lavinia Mazzucchetti, Alessandra Scalero, anch’esse germaniste,
traduttrici, scrittrici, curatrici editoriali che si pongono come anelli di congiunzione tra gli sviluppi
letterari tedeschi – in particolare i romanzi della Neue Sachlichkeit – e il campo narrativo italiano,
in cui si assiste negli stessi anni alla rivalutazione in chiave ammodernante di Goethe.
Argomento centrale del secondo capitolo – Tradurre per costruire – è proprio il processo di
rilettura modernizzante che Borgese compie sui testi di Goethe, non solo del Wilhelm Meister ma
anche del Faust e del Werther, procedendo di pari passo all’elaborazione di una sua specifica
poetica, fondata sui concetti di costruzione e discorsività, destinata perciò ad allontanarlo sempre di
più dall’estetica crociana e dalle categorie della prosa d’arte primonovecentesca, come
frammentismo, autobiografismo e calligrafismo. Accanto a passaggi argomentativi maggiormente
panoramici e orizzontali, intenti a illuminare i connotati centrali del milieu culturale entro cui tali
fenomeni di apertura e rinnovamento del genere romanzo vengono ad inscriversi e a trovare una
peculiare collocazione, Biagi opera, assecondando un disegno argomentativo progressivo ma anche
circolare, ripetute verticalizzazioni analitiche, che arricchiscono il portato epistemologico del
volume, senza snaturarne però la fisionomia fluida e l’architettura minuziosa. Ecco allora che,
sempre nel secondo capitolo, la studiosa si presta ad una close reading molto approfondita di Rubè
di Borgese, di cui vengono evidenziati, mediante un confronto con Le affinità elettive, gli aspetti
compositivi e tematici che ne fanno un romanzo di rottura nello stantio panorama italiano. Segue un
focus sull’attività editoriale dello stesso Borgese, direttore della collana «Biblioteca romantica»
varata da Mondadori, progetto attraverso cui, coerentemente alla sua visione teorica, prosegue nella
pratica quella legittimazione del romanzo che aveva già avviato con la precedente attività critica e
creativa, pubblicando in traduzione cinquanta classici del romanzo delle principali letterature
moderne.
Il terzo capitolo – Esperimenti di modernità – è certamente il più denso a livello teoretico e critico,
perché qui Biagi compie, pur senza trascurare il discorso editoriale e di ricognizione traduttologica,
un dettagliato esame comparativo tra i maggiori romanzi tedeschi, o comunque di area
germanofona, dell’epoca – Berlin Alexanderlpatz di Döblin, E adesso, pover’uomo? di Fallada, Il
processo di Kafka, Il caso Mauritius di Wassermann –, e i romanzi italiani che più risentono
dell’influenza, stilistica e tematica, di queste opere apparse in Italia grazie al fervente lavoro di
traduzione dei personaggi sopracitati – Tre operai di Carlo Bernari, Luce fredda di Umberto
Barbaro, Quartiere Vittoria di Ugo Dèttore, Nessuno torna indietro di Alba De Céspedes, L’uomo è
forte di Corrado Alvaro. Tale analisi comparativa viene portata avanti sulla scorta dei concetti
chiave della modernità letteraria emersi nei capitoli precedenti, edificazione, costruzione,
pluridiscorsività, finzionalità, con l’intento di sottolineare le ragioni contenutistiche –
emancipazione femminile, esperienze metropolitane, lavoro e industrializzazione – e compositive –
montaggio, plurilinguismo, discorso indiretto libero – che rendono questi romanzi italiani esempi
paradigmatici, sebbene ancora minoritari, di un rinnovamento tenacemente perseguito non solo
nella teoria letteraria, sottrattasi in parte alla dominazione crociana, ma altresì nella prassi
romanzesca, nella costruzione delle vicende, nella definizione dei caratteri, nell’ambientazione delle
scene, nell’architettura diegetica.
Il volume di Biagi perciò non solo ha il merito di illuminare – restituendo con dovizia di particolari
il fitto intrecciarsi di traduzioni, riflessioni teoriche, sviluppi editoriali, pubblicazioni – un periodo
storico fondamentale per le sorti del romanzo italiano, molto spesso trascurato o affrontato secondo
assiomi manichei, ma merita un plauso anche per la capacità di analizzare nel dettaglio il lavoro
ampio e sfaccettato svolto da figure cruciali (anche se sovente lasciate ai margini) nel traghettare le
patrie lettere fuori dalle secche di un conservatorismo formale anacronistico e di indagare con
grande contezza, senza mai deviare dall’impianto metodologico posto alla base della ricerca e senza
mai distaccarsi dal tracciato principale dell’argomentazione, le modalità espressive e linguistiche
mediante cui la nostra letteratura, a partire dagli anni Venti, avvia un processo di avvicinamento
all’Europa, accostandosi senza più alcuna presunzione alle manifestazioni più tipiche di una
modernità complessa, problematica e metamorfica.