C'è ,un nuovo scrittore in
città. E Alberto Ravasio, classe
1990, autore di «La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera» (Quodlibet). Non mi
occuperò qui delle virtù letterarie del romanzo, ampiamente lodate da Daniele Giglioli su «La Lettura» con parole che condivido pienamente. Quello che mi interessa
sottolineare in questa sede è
un certo carattere locale del
testo, perché Bergamo — o
meglio, la provincia — è profondamente presente nella
storia. E non ci fa una bella figura, anche se l'ironia spesso
feroce di Ravasio è temperata
da lampi di affetto per un'appartenenza che, come per i
genitori, è inevitabile: non si
nasce come o dove si vuole,
ma come e dove capita, e te lo
porti dietro tutta la vita.
Guglielmo Sputacchiera è,
tecnicamente, quello che oggi
si definisce un neet: non studia (più), non lavora, non cerca un posto nel mondo. Un
posto, pensa lui, ce l'ha già:
nella sua stanzetta di trentenne a carico della famiglia, davanti al computer, possibilmente collegato a un sito porno. Ah, già: il povero Guglielmo è vergine, per quanto
allupato. Eppure, non è uno
sfigato. Sfigato è chi lo è senza
sapere di esserlo. Guglielmo,
invece, è ferocemente consapevole del proprio fallimento,
e ci si è rassegnato. In questo,
ahimè, incarna la condizione
di moltissimi suoi coetanei.
Finché un giorno, all'inizio
della storia, con un colpo ardito che cita il Kafka di «La
metamorfosi», Sputacchiera
si risveglia trasformato: non
in insetto, ma in donna, e deve affrontarne le conseguenze. Ed è qui che l'orizzonte
delle quattro pareti domestiche si sfonda e appare, intorno a lui, il mondo in cui abita.
Un paese senza nome, che potrebbe essere qualsiasi luogo
della piana orobica, «un posto preindustriale, prescientifico, precolombiano e felice
di esserlo, che resta sempre
uguale quando tutto intorno
cambia». Non che non cambi
il paesaggio, anzi: il paese in
questione assomiglia al villaggio leopardiano solo nello
spirito, perché intorno impazzano capannoni, centri
commerciali, villette a schiera. Segni di una modernità superficiale perché «immune
dal bacillo della cultura, ripulito e ingrassato dal boom
economico, ma eternamente
mezzadro nella calotta cranica, il paese crede di aver visto
tutto perché in fondo non ha
mai visto niente».
Qui e altrove Ravasio tocca
un punto ambiguo (e dolente)
della bergamaschità: l'altra
faccia della medaglia di quella
resilienza che ha avuto nell'epopea del «mòla mia» pandemico il suo punto di maggior popolarità. E vero: sappiamo essere tetragoni alla
sventura, pronti a rifugiarci in
una cultura del fare e dell'agire che è un modello positivo.
Ma non è forse che tutto questo pragmatismo si basa su un
rifiuto del pensare, del chiedersi a cosa serva guadagnare,
risparmiare, investire, svilupparsi che è il modello della
cultura del lavoro bergamasca? Non è che ci agitiamo come matti, senza star fermi,
perché se lo facessimo ci dovremmo porre delle domande
scomode? Le stesse che è costretto a farsi il povero Sputacchiera una volta che si ritrova donna: chi sono, quali
sono la mia storia e il mio futuro? Se cercate un libro per
l'estate, è questo. Non perdetelo, anche se non è esattamente quel genere di libro