Recensioni / Roma: una città reale, molte immaginarie

Giulio Carlo Argan, in una intervista di Mino Monicelli del 1978 (pubblicata nel 1979 da Editori Riuniti e ripubblicata nel 2021 dalle Edizioni di Comunità con il titolo Un’idea di Roma), sostiene che «a ogni città reale corrispondono almeno una, più spesso parecchie, nel caso di Roma molte, città immaginarie». E aggiunge: «poiché anche la memoria è immaginazione, la città può essere immaginata nel futuro come nel passato. È appunto il caso di Roma, dove, quando si è cercato di progettarne (quindi immaginarne) il futuro, si è cominciato sempre con il fantasticare sul suo passato».
Tutti coloro che studiano Roma conservano dei libri del cuore che più profondamente hanno indicato possibili metodi di interpretazione della sua complessità, tanto densa da non far sentire all’altezza di una visita un viaggiatore del calibro di Carl Gustav Jung (vedi Sogni Ricordi Riflessioni, BUR 1992). Nel caso di chi scrive, questi libri non sono interpretabili come ritratti compiuti della città, ma come composizioni di molte visioni che raffigurano epoche diverse o diverse parti di Roma. Alla città reale si sovrappone sempre la sua immagine, persino nei titoli, come ne Il volto di Roma e altre immagini del 1944 di Marcello Piacentini, in Immagine di Roma del 1976 di Ludovico Quaroni e nel saggio Il genius loci di Roma di Christian Norberg-Shultz pubblicato in Roma Interrotta nel 1978, il cui primo paragrafo si intitola appunto Immagine. E l’immagine è una traccia, non un riflesso completo e risolutivo ma un “atto di resistenza contro il reale”, direbbe George Didi-Huberman (vedi Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005), traccia nella quale la realtà è registrata solo parzialmente ma nella quale si condensa lo “strappo” tra la sua verità e la sua proiezione ideale. È proprio tra questi due termini che entra in gioco il progetto, come slancio verso una possibilità che alla realtà ancora manca.
L’immagine di Roma, in ognuno di questi libri, sfugge alle definizioni, sempre in accordo con l’opinione di Argan secondo il quale alla Roma reale corrispondono molte città immaginarie: Roma Caput mundi non esiste, o meglio esiste declinandosi in molte forme diverse, assunte e poi negate nei secoli della sua storia. Roma è monumentale, ma il suo genius loci è dato (anche) dalla dimensione minuta della strada e della piazza (Norberg-Shultz), Roma è soprattutto un’atmosfera, una luce, un clima (Quaroni), Roma ha uno spirito irrequieto, e lo dimostra tanto nelle operazioni urbanistiche che nei singoli edifici, impossibili da ricondurre a un sistema geometrico o dimensionale riconoscibile (Piacentini).
Anche nel volume di Piero Ostilio Rossi (La città racconta le sue storie. Architettura, paesaggi e politiche urbane. Roma 1870-2020, Quodlibet, 2021) appaiono molte e mutevoli immagini di Roma. Il libro non ambisce a dare una descrizione unitaria e lineare della città e della sua storia, ma piuttosto ricompone un collage di pezzi dispersi geograficamente e temporalmente, raccoglie una serie di storie, al plurale. Si traccia in questo modo un ritratto di Roma per parti, nel quale gli strumenti di indagine, secondo il metodo di ricerca proprio dell’autore, sono tanto quelli della storia che quelli del progetto. I saggi sono scritti nell’arco di venticinque anni, una significativa porzione di vita dedicata a comprendere fenomeni complessi, creare nessi e tessere relazioni.
Viene in mente la serie di dipinti di Paul Cézanne per il Mont Sainte-Victoire: un paesaggio sul quale il pittore torna a lavorare più volte perché non può circoscriverlo in un solo sguardo, non può darne forma conclusa, può solo raffigurarlo per segni successivi, tratti di colore tra i quali inevitabilmente rimangono spazi vuoti, tutti ancora da immaginare, che assumono nel totale dei dipinti un’importanza pari ai pieni delle pennellate. E lo stesso autore, nel tempo, si trasforma, come il paesaggio che osserva.
Così, se nel libro di Rossi i saggi sono ordinati cronologicamente rispetto al paesaggio osservato, ovvero Roma a partire dal 1870, può anche essere interessante rovesciare la lente e analizzarli invece cronologicamente rispetto all’anno di pubblicazione da parte dell’autore, rinnovando un senso di lettura della città che si allinea con la complessità del contemporaneo, in una idea di temporalità non lineare, in un avanzare per salti, per trame complicate che si smagliano nel tempo e nello spazio.
Questi salti mettono in evidenza come alcune vicende a Roma inesorabilmente si ripetano, e come ad esempio alcuni personaggi legati al fascismo scompaiano durante la guerra per poi ricomparire in nuove vesti nella progettazione della città negli anni Cinquanta e Sessanta. Tra questi Virgilio Testa, artefice nascosto della trasformazione del quartiere E42/Eur: gli edifici abbandonati durante il conflitto sono riadattati a nuovi usi prima per l’Esposizione Internazionale dell’Agricoltura nel 1953 e poi per le Olimpiadi del 1960, e la “città bianca” diviene una “moderna città-parco”, riemergendo dalla damnatio memoriae per reinserirsi nello sviluppo urbano come brano indispensabile della trama che dal centro arriva fino ad Ostia, oggi senza più soluzione di continuità.
Nonostante i tentativi di pianificazione siano stati i più diversi, la città nel corso del secondo Novecento si sviluppa, scriveva Italo Insolera in Roma Moderna (Einaudi, 1962), esattamente come Mussolini l’aveva voluta, con una direttrice principale che entrando in città in direzione nord-sud, si rivolge infine verso il mare.
Nei capitoli di Rossi emerge questo fil rouge, questa permanenza di forme rispetto alla quale il disegno di Roma si compone nel tempo. Il fenomeno è analizzato per la prima volta nel 2004 con il saggio che studia l’E42 e il Foro Mussolini come porte urbane della Terza Roma; poi nel 2013 in tre saggi, che tracciano l’uno le vicende dell’espansione di Roma verso il mare a partire dal 1870, l’altro le circostanze della definizione del piano dell’E42 come snodo cruciale per il disegno di Roma “in forma di cometa” proposto da Gustavo Giovannoni nel 1938-1939, e l’altro ancora gli accadimenti che conducono al disegno delle “arterie di scorrimento” da parte di Luigi Piccinato per portare il traffico fuori dal centro antico, sempre in direzione nord-sud, secondo un modello di sviluppo “aperto” alternativo a quello chiuso e radiocentrico del Grande Raccordo Anulare che invece verrà realizzato nonostante i molti pareri avversi; infine nel 2021 con un saggio che descrive la definizione di un sistema viario principale a T nel cuore di Roma, con l’asta in direzione nord-sud coincidente con via del Corso, due direttrici trasversali verso Termini e verso il Tevere, il punto di congiunzione in piazza Venezia e il fuoco urbano in Campidoglio, poi aggirato e collegato al Colosseo con l’asse di via dell’Impero, voluto da Mussolini e prolungato come veloce rettifilo fino al Tirreno.
Rispetto a questo disegno chiaro, a questa figura che nella sua emergenza dal magma urbano evidenzia un certo grado di continuità storica da Roma Capitale d’Italia nel 1870 fino alle Olimpiadi nel 1960 e oltre, gli altri saggi fanno comparire una serie di frammenti, o “immagini satellite”, brani di città che si definiscono in diversi archi cronologici per essere poi avvolti, inghiottiti e trasformati: quartieri di villini e palazzine negli anni Venti; borgate realizzate dal Governatorato negli anni Quaranta; quartieri Ina-Casa nel dopoguerra; quartieri costruiti nel quadro dei Piani per l’Edilizia Economica e Popolare, tra i quali Spinaceto del quale Nanni Moretti “pensava peggio”; quartieri progettati da Saverio Muratori, ovvero San Basilio, Magliana e Centocelle; quartieri per lo sport visitati da Le Corbusier affascinato dalla sapienza strutturale di Pier Luigi Nervi; e infine la città contemporanea, della quale sono descritte opere maggiori ed episodi minori, oggetti architettonici di rilevo ma anche pezzi di città abusiva, alla ricerca di strategie per la qualità urbana.
Un accenno a parte merita l’ultimo capitolo del libro, nel quale Rossi riflette sulla Roma che verrà. Qui è espressa tutta l’incertezza che abbiamo di fronte, al bivio tra una visione urbana legata a una proiezione del futuro post-pandemico positiva e solidale, e una negativa e ostile. Questo bivio lascia presagire due città diverse: nella prima, che potremmo definire “aperta”, temi come spazio pubblico, trasporti e verde urbano saranno al centro del dibattito progettuale, nella seconda, che potremmo definire “chiusa” o “divisa”, gli spazi di condivisione saranno ridotti, cambieranno le modalità di fruizione del turismo, i luoghi di lavoro o di svago, disertati, dovranno essere completamente ripensati e assumerà sempre più peso la reinvenzione degli spazi privati.
In questo scenario, Roma potrebbe avere una grande occasione, dovuta alla sua storia: si tratta infatti dell’unica città italiana che si è sviluppata in un territorio “vuoto”, l’Agro. Rossi immagina il progetto di un sistema integrato di infrastrutture (non solo quelle della mobilità ma anche quelle dell’acqua e del bosco, ad esempio, come nuovi “corpi ambientali”) che potrebbe valorizzare la dispersione urbana nella campagna circostante e trasformarla in una prassi efficace di progettazione, mettendo in discussione la contrapposizione fra centro “denso” e periferia “labile” in funzione del ridisegno di una figura urbana continua e policentrica.
Così il tema delle centralità urbane proposte dal piano regolatore del 2018 tornerebbe al centro della discussione. A patto che, come osserva Vezio De Lucia nel suo commento allo stesso volume, se ne misuri il dimensionamento: il grattacielo Eurosky, fulcro della centralità Eur-Castellaccio, svettante sul panorama urbano che si estende orizzontalmente sotto gli occhi dei turisti affacciati dalla terrazza del Pincio, sembra il simbolo di un programma pensato in un momento già distante da quello attuale. Ora è evidente piuttosto l’urgenza di lavorare sul costruito, con interventi mirati, alla ricerca di un tessuto di relazioni di senso anche nella città abusiva che ha inghiottito quella progettata.
Così si passa al tema dell’urbanistica partecipata e della collaborazione fra pubblico e privato, altro argomento cruciale sul quale tornare a discutere. A tal proposito, nella recensione al libro di Rossi di Andrea Venanzoni pubblicata su “Il Foglio” (Roma, la “non” città raccontata dall'urbanista Ostilio Rossi, in “Il Foglio”, 15 gennaio 2022), si insiste sulle dinamiche già presenti nel tessuto urbano cittadino, come i consorzi di recupero, oggi impossibilitati ad agire in maniera efficace perché sottoposti a fallimentari complicazioni burocratiche. Roma è una città priva di una autentica “visione” di sviluppo, scrive Venanzoni, una città che va avanti, nei campi amministrativi e urbanistici, “alla giornata”, dunque una “non” città.
Uno dei più acuti osservatori dei fenomeni urbani contemporanei, Rem Koolhaas, intitola proprio Testi sulla (non più) città il suo ultimo saggio (Quodlibet, Macerata 2021), nel quale si trova una definizione della città contemporanea estremamente calzante: visto che la città moderna, nella sua immagine compiuta, non è in fondo mai stata realizzata da nessuna parte, dobbiamo oggi “arrangiarci” con una città composta di frammenti di modernità, perché alcuni elementi formali sono riusciti a sopravvivere mentre la programmazione urbanistica su larga scala è fallita. Ma Koolhaas spiega: «di questa mancata riuscita non farei un dramma: questi strati neomoderni, che negano letteralmente la città tradizionale nello stesso modo in cui negano il progetto iniziale della modernità, offrono nuovi temi su cui lavorare. Attraverso di loro si possono mettere a confronto edifici di epoca e spazialità diverse, cosa che era inconcepibile per la pura dottrina del modernismo. Da loro si può anche imparare a destreggiarsi con i substrati, mescolando il già costruito con il progetto ideale».
Combinare i diversi frammenti nel tempo e nello spazio, ricongiungere la città reale con quella ideale, pensare insieme Roma e le sue immagini. Ritorniamo a riflettere sulla citazione di Argan all’inizio di questo commento, sull’idea che nel progettare (immaginare) il futuro di Roma si sia sempre partiti dal “fantasticare sul suo passato”. Pensare scientificamente il passato significa pensarlo modernamente, non per preservarlo a tutti i costi in uno sterile immobilismo, semmai per reimmetterlo nel ciclo dinamico della vita urbana, destinandolo anche, dove e quando possibile, a nuovi usi.
Roma invece appare oggi, agli occhi di chi la abita, una città immobile. Certo, si dirà, questa situazione di immobilismo si protrae da molti anni, ma seguendo un andamento implosivo mai come adesso la città si è mostrata tanto sommersa da strati di inazione che hanno aggravato, se non reso irrisolvibili, i suoi problemi.
La fotografia sulla copertina del libro di Rossi ritrae il cantiere dell’Ara Pacis di Richard Meier, una dimostrazione che si è intervenuti in un passato relativamente recente anche nel cuore di Roma. Nel guardarla, chi scrive ricorda immediatamente le polemiche sorte sull’edificio all’epoca della realizzazione, e non si vuole qui darne giudizio. Polemiche, motivate o meno, che hanno fatto seguito d’altronde anche alla realizzazione del Maxxi di Zaha Hadid, del Centro Congressi “Nuvola” di Massimiliano Fuksas e perfino dell’Auditorium di Renzo Piano, architetture oggi accettate dalla cittadinanza, frequentate, apprezzate, vissute.
Naturalmente l’epoca delle grandi opere si è conclusa e c’è bisogno di lavorare su scale diverse, non più su oggetti ma su sistemi di relazioni, con processi sottili e puntuali. Ma con l’idea che si sarebbe potuto fare meglio, sembra si sia finiti per non fare nulla. «Dove non c’è niente tutto è possibile, mentre dove c’è architettura niente (altro) è possibile» scrive sempre Koolhaas, e a questo “niente altro” possibile, alla soluzione definitiva, questa città dalle molteplici immagini che si muove per stratificazioni magmatiche in perenne modificazione, sembra opporsi con ogni sua forza.
Il libro di Rossi è uno strumento di riflessione per riaprire il dibattito su architettura e urbanistica, cruciale per la vita politica e culturale della Capitale, e per riflettere sui corsi e ricorsi della sua storia. Roma tutto assorbe e trasforma, la Roma Capitale dell’Italia unita, la Roma del Ventennio, la Roma del dopoguerra e perfino la Roma dell’abusivismo, si compongono in una sola città dai mille volti in eterno divenire. Per non sbagliare il passo in questa evoluzione si dovrebbe oggi intervenire con processi urbani adattivi (action plan) in grado di aggiornarsi continuamente in relazione all’ambiente urbano, antropico e naturale. Rispetto alle soluzioni da adottare per questo tipo di interventi, molto più definitiva risuonerebbe l’implosione del divenire di Roma, se si dovesse perseverare nell’inazione e nella rinuncia.