Michele Ranchetti è stato un intellettuale insolito se non unico. Ha spaziato in campi molto diversi: è stato storico della Chiesa (ha insegnato nell’Università di Firenze dopo essere stato assistente di Delio Cantimori), studioso di psicoanalisi, di filosofia, poeta, pittore, traduttore, consulente editoriale (per Feltrinelli, Adelphi e Boringhieri) dopo essere stato segretario di Adriano Olivetti tra il '49 e il ’52 e direttore delle Librerie Feltrinelli. I suoi interessi molteplici, il suo itinerario non convenzionale, le sue posizioni scomode (specie nei confronti della gerarchia ecclesiastica), il suo carattere per nulla accomodante l’hanno un pò relegato nelle zone d’ombra della cultura italiana. Ma lui non se ne preoccupava molto e aveva deciso di starsene appartato nella sua grande casa fiorentina, pur senza arrendersi alla circostante decadenza culturale, politica e del gusto.
Ranchetti è morto, a 83 anni, nel febbraio scorso, ma ci ha lasciato una terza raccolta di versi (Poesie ultime e prime), che esce ora, postuma, nella collana Quodlibet, «Verbariurn», che lui stesso aveva pensato e diretto (dopo la raccolta di scritti di Renato Solmi, il progetto proseguirà con i testi che Banchetti aveva già messo in programma: le conversazioni di Ivan Illach su Vangelo e Occidente, i saggi e le conferenze di Stefano Mistura). Personalità proteiforme, non classificabile entro categorie disciplinari precostituite, ha curato edizioni di Wittgenstein, Celan, Rilke, Benjamin, e per i Meridiani ha diretto l’edizione della Bibbia di Diodati.
Per Bollati Boringhieri negli ultimi anni Ranchetti si è occupato dei Testi e contesti di Freud, due volumi che gli hanno procurato qualche dispiacere, cui si è aggiunto il definitivo ritiro dal commercio, in seguito a una querelle legale con Renata Colorni, coordinatrice delle prime traduzioni italiane del padre della psicoanalisi. Il travaglio di quella vicenda è stato raccontato bene dall’amica Anna Ruchat sul «Diario», il quindicinale di Deaglio, cui ha risposto Renata Colorni. Se Ranchetti ha avuto il torto di rivedere senza avvertenza le traduzioni vulgate su cui si fondava, qualcuna avrebbe però dovuto riconoscergli di avere letto in una nuova luce le opere freudiane mettendole in relazione con vasti materiali di allievi, collaboratori, amici e nemici in modo da ricostruire movimenti e contesti contemporanei.
Ranchetti ha condiviso il suo destino di isolato con uno dei suoi maestri, Felice Balbo, redattore dell’Einaudi al tempo di Pavese, di Pintor e di Leone Ginzburg. Filosofo cattolico del quale Ranchetti ha ammirato, sia pure rinunciando a una militanza vera e propria, l’idea di una convivenza tra cattolicesimo e comunismo. Ranchetti si definiva un poeta. Non perché il resto della sua attività gli sembrasse secondario, ma perché probabilmente sentiva che la poesia riassumeva in sé, distillandole, le varie componenti del suo spirito inquieto. Prima tra tutte l'insofferenza, da cristiano, verso un'istituzione cattolica che, diceva, era diventata totalitaria dall'ottocento, cioè invasiva anche sul piano etico e comportamentale. E rincarava la dose quando pensava alla Chiesa di oggi, dove vedeva «i segni più chiari della decadenza religiosa». Un'insofferenza illustrata in un saggio di esemplare chiarezza come Non c'è più religione (Garzanti, 2003), dove sosteneva tra l'altro che nella Chiesa visibile di Wojtyla (tutta portata a manifestazioni di consenso spettacolare) «l'unica virtù che può forse recuperare un senso religioso alla vita è la disobbedienza "cieca e assoluta"».
Quelli che considerava gli «ultimi preti», come Turoldo, Camillo de Piaz o Balducci, hanno colto il «pervertimento» della Chiesa predicando contro i falsi valori, ma senza tracimare nella disobbedienza: testimoni di una fede vissuta dall’interno delle strutture più che fautori di una proposta alternativa. Gli interrogativi di Ranchetti sulla fede e sulla divinità religiosa lo hanno condotto, direttamente o meno, verso la filosofia (Wittgenstein) e la psicoanalisi (fu tra i primi a lavorare con Musatti alla traduzione di Freud): «La ricerca di Freud è il tentativo più radicalmente antireligioso che io abbia incontrato nella mia vita», ha detto in una bella intervista rilasciata a Ennio Abate. « E’ un’interrogazione precisa di tutti i presupposti religiosi nell’ipotesi di ricondurli ad altre fonti».
Di questo complesso intreccio di esperienze intellettuali sono intessute le poesie, ma senza darlo a vedere troppo. Poche, per la verità, e di una coerenza assoluta nelle tre sole raccolte: La mente musicale (1988), Verbale (2001) e ora, appunto, Poesie ultime e prime. «Momenti di un giro a vuoto mentale», definiva Banchetti il primo sobrio fascio di componimenti, scritti nel corso di cinquant’anni. Formula che potrebbe funzionare anche per questa serie postuma, dove il senso della fine convive con quello dell’inizio fin dal titolo. E infatti l’io poetante trapassa di continuo dalla vita alla morte e viceversa («Credevi accompagnarmi da vita a morte / ora da morte a vita») come fossero due mondi interscambiabili: anzi l'aldilà contiene l'al di qua, il presente è già futuro: «presente fuori dal tempo delle membra», presente «senz'ombra di presente». E’ una poesia religiosa, ma di religioso inquieto, depurato di ogni confessione o fede riconoscibile (il me di Ranchetti è stato spesso accostato a quello di Clemente Rebora). Basta leggere versi come questi: «La vittoria ascesa / verso l' assenza / di ogni e ogni forma / di conoscenza per essere / solo di acceso / amore per la luce». Dove si avverte il paradosso di un intelletto che nel corso della sua esistenza ha aspirato alla conoscenza per conquistare infine l’accecante felicità del nulla (di conoscenza): perché in realtà «solo la morte interviene a conoscere». Poesia filosofica dista dai toni solenni della poesia filosofica, anzi con felicissimi squarci autobiografici, come nella bellissima: «Quanto, diceva mio padre, mi dovrete / rimpiangere, quando sarò morto. Non è stato così, ma è stata / una corsa a raggiungerlo / tra mio fratello e me (...)».
I versi di Ranchetti, sostenuti da un tono colloquiale tenace e mai dimesso, ruminano pensieri, emozioni e visioni anche pittoriche («Tra le due ante il cielo»), illuminandosi di rime interne quasi impercettibili, che regalano però il sapore di una musicalità profonda. Una musicalità increspata da piccole vertigini sintattiche, da lievi contorsioni del senso che segnalano, in una pace interiore apparentemente raggiunta, un che di non pacificato una volta per tutte: «All'aprirsi del giorno non sai / se la luce più ti riguarda». Come il tremolio di una nostalgia di vita.