Chi è Albert Dadas? Perché quest'uomo — nato a Bordeaux il
10 marzo 1860, la complessione minuta, la testa lunga come
un cilindro, la fisionomia «di
volta in volta intelligente e inebetita»,
che «sa appena leggere e quasi per niente scrivere», mite, tenero se non languido, affetto da un'incoercibile inclinazione al pianto - all'improvviso comincia a
camminare e un passo dopo l'altro attraversa la Francia, sconfina, arriva in Belgio, va a Vienna, ad Algeri, a Costantinopoli, a Mosca? Com'è possibile che, percorsi migliaia di chilometri, Albert Dallas non sappia dire nulla delle ragioni
per le quali è infine giunto in un luogo o
in un altro? Interrogato, viene fuori che i
suoi viaggi non hanno nessun legame
con esigenze lavorative o con passioni
sentimentali: non è in cerca di nessuno,
nessuno lo attende, non sta inseguendo
e non sta fuggendo: il suo è un impulso a
un moto potenzialmente perpetuo che
trova l'innesco in quell'altrove - che è
anche un altrimenti — che è la vita onirica. In sogno, Albert Dadas ascolta il nome di una città e a quel punto parte: durante il cammino è sveglio, certo, ma sta
dormendo, il viaggio si articola in uno
spazio concretamente geografico ed è
una specie di rêverie, un luminoso girovagare tra le ombre.
Nel 1886, il medico alienista Philippe
Tissié. intercetta — come se lo afferrasse
al volo — Albert Dadas: i due uomini trascorrono il tempo tra indagini cliniche,
esperimenti, terapie, tentativi di diagnosi. Registrando l'evoluzione del rapporto, Tissié dà forma a una serie di scritti
che oggi Quodlibet pubblica con il titolo
Il caso clinico del viaggiatore sonnambulo, nella traduzione e per la curatela di
Valeria P. Babini, in una collana, Compagnia Extra, che in ogni volume compendia la sua attrazione nei confronti di
scritture oscillanti, picaresche e funamboliche (nonché magnificamente sonnamboliche).
Riflettendo sull'esperienza di Dadas
— e dunque su qualcosa che è un irrisolvibile miscuglio di realtà fisica e di immaginazioni altrettanto materiali e
sul senso di stupore vissuto da questo
accumulatore di vagabondaggi, a ogni
risveglio, nel ritrovarsi in una città tanto
desiderata quanto sconosciuta, Tissié
annota: «Tutto ha sapore di romanzo...».
Non si può che essere d'accordo. Perché Dadas è un fratello tardo-ottocentesco del Sigismondo di Calderon e di Lazarillo de Tormes, è affine al Lenz büchneriano maniacalmente a spasso per
l'Alsazia e al Rönne di Gottfried Benn,
incredulo al cospetto della cosiddetta
realtà; Dadas `è dominato da una fame
incolmabile, la stessa che spinge i personaggi di Knut Hamsun e di Robert Walser ad andare ininterrottamente in giro,
concentratissimi e distratti, silenziosi o
queruli, collegando con il loro andirivieni il dentro al fuori, fino a quando tra il
personaggio e lo spazio non c'è più nessuna differenza.
La dromomania di Dadas è febbrile e
incantata, morbosa e struggente; vale
per lui quello che scrive Joseph Roth di
Franz Tunda che in Fuga senza fine peregrina per l'Europa di inizio Novecento:
«Era un giovane senza nome, senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi e senza professione: non aveva né patria né diritti».
A questa infilata di senza che definiscono il personaggio per sottrazione, ne
aggiungiamo ancora uno: Dadas, come
Tunda, è senza fissa dimora. In lui si manifesta il bisogno del tutto umano di sradicarsi e di farsi irrintracciabile, prima
di tutto a sé stesso. Dadas è un disertore,
ma la sua diserzione, invece di essere la
violazione di una regola esterna, è uno
stato d'animo: Dadas diserta, sì, ma da
ciò che si intende per continuità psichica. Diserta da un'idea di identità. La sua
flânerie è in buona parte inconsapevole
a una manciata di anni dall'avvento
del pensiero freudiano, potremmo dire
«inconscia» — ed è coatta. Dadas è captivé: catturato dal viaggio, imprigionato
nel movimento («Avanti pure!, mi dico,
ancora una fuga! Che disgrazia!», esclama incitandosi e insieme constatando la
sua tragicomica condanna).
Nei suoi scritti, accanto a un potente
interesse scientifico Tissié rende percepibile anche una profonda simpatia nei
confronti di Dadas, come se intuisse che
in quell'uomo c'è qualcosa che lo riguarda a un livello intimo e originario. È utile
allora domandarsi, come fa Valeria P.
Babini nella postfazione, perché Tissié
tiene così tanto a Dadas, perché lo osserva e perché lo racconta: perché, cioè, lo
considera «un caso»: «Dal latino casus,
stessa radice del verbo cadere, il termine
fa riferimento a un evento imprevedibile, fortuito», scrive Babini. Un caso è
dunque l'accidentale che si manifesta,
ma è anche, in ambito medico, una relazione che riferisce circa una costellazione di «sintomi, segni, diagnosi, trattamento». Un caso è l'eccezione alla regola, ma è ancora di più.
Leggendo il libro di Tissié viene in
mente Jean Itard, il pedagogista che all'inizio dell'Ottocento descrive la sua
esperienza con Victor, «il ragazzo selvaggio dell'Aveyiron», così come viene in
mente il consigliere di Corte d'appello
Anselm von Feuerbach che nel 1832 ricostruisce la vicenda di Kaspar Hauser, ll
trovatello di cui nessuno sa niente comparso una mattina in una piazza di Norimberga. Casi, sì, tra la clinica, la pedagogia, l'antropologia e la storia (e anche,
tanto, la scoperta del linguaggio), ma
non solo: perché ogni caso, proprio in
quanto caduta nel mistero della vita
umana, ha in sé del reale e del fantastico. Ha un fondamento scientifico ed è
attraversato da tonalità morbide o aspre,
ludiche, comiche, malinconiche. Come
nei sogni.
Un caso è il punto di intersezione tra
due individui: un essere umano si concentra talmente su un altro essere umano che quella concentrazione — quella
cosa che viene chiamata «studio» - rivela la medesima sostanza del sogno. E
dunque Dadas è il sogno di Tissié, così
come Victor c., il sogno di Iiard e Kaspar
Hauser quello di von Feuerbach. Come
accadeva all'erratico Dadas, tanto il caso
quanto il sogno non sanno mai bene dove stanno andando. Tanto il caso quanto
il sogno sono la materia del legame.