Recensioni / Farsa e smarrimento: il Medioevo nel 2022

Un Medioevo remoto e immaginario, fatto di fame e carestie. Una corte sgangherata guidata dal marconte Berlocchio de Cagalanza e dalla sua fresca sposa Bernarda. Con loro un gruppo improbabile di soldati, il curiale Belcapo, frate Cappuccio. Devono raggiungere e prendere possesso del castello de Tripalle, che Berlocchio ha avuto in dote dalla moglie. Troveranno un postaccio decrepito abitato da villani per nulla disposti a farsi governare.
Il regista Francesco Lagi è entrato nel Medioevo creato nel 1978 da Luigi Malerba (1927-2008) nel romanzo Il pataffio — dove, scriveva allora Antonio Porta sul «Corriere», con un rimando alla letteratura quattrocentesca «la parola "pataffio" sta a significare "pasticcio", che vale anche per "satura", o piatto pieno d'ogni specie di cibi, a prima visita incompatibili gli uni con gli altri» — e da quel testo (disponibile nell'edizione Quodlibet del 2015) ha tratto un film. Il 6 agosto Il pataffio, produzione Vivo film con Rai Cinema, sarà in concorso al 75° Locarno Film Festival e il 18 agosto arriverà in sala per o1 Distribution. «La Lettura» ne ha parlato con il regista, autore anche della sceneggiatura.

«Ho letto il libro per caso dopo avere trovato su una bancarella un'edizione a due euro. Vi ho scoperto un mondo affascinante. E un libro semplice e complesso allo stesso tempo, pieno di spunti, di strane irregolarità che mi hanno catturato. Ci ho visto un film, ma la complessità mi spaventava. I produttori, Gregorio Paonessa e Marta Donzelli, mi hanno invitato ad andare a fondo. Sentivo gli echi di quelle commedie medievali che andavano molto negli anni Settanta. Un genere cinematografico che mi attrae: che ha avuto una versione nobile, un sottogenere, un decadimento, fino a diventare una farsa».
Come ha affrontato il testo?
«Mi sono innamorato di quel mondo e soprattutto della lingua che Malerba usa: immediata ma complessa. Nel libro, ambientato agli albori della lingua italiana in un imprecisato Medioevo, Malerba si inventa un volgare arcaico. Per il frate crea un latino strampalato. A certi personaggi di corte attribuisce invece un linguaggio più forbito. Crea tante variazioni in una dimensione linguistica affascinante, che ho cercato di riprodurre e rielaborare».

E per quanto riguarda la storia?
«Ci ho messo tempo a capire dove stava il cuore del film. Ho preso dei personaggi, ne ho buttati altri, ho cercato di renderli vicini a una mia sensibilità. Mi sono preso tante libertà pur rimanendo fedele allo spirito del libro. Adattare un libro vuole dire tradirlo, muoverlo, agganciare pezzi che in origine non stanno insieme».

Un tradimento necessario?
«E un tradimento anche rispetto alla propria sensibilità, che è per forza diversa di quella di un altro autore. Ho rielaborato molte cose. Ho eliminato parti del libro, un volume gigantesco da cui si potrebbero trarre sei film. E ho cambiato completamente il finale, il destino dei personaggi. Malerba trasporta dinamiche sociali e umane del suo contemporaneo nel Medioevo; un'operazione felicissima che ho voluto ereditare. Ma la società degli anni Sessanta è diversa da quella del 2022. Volevo fare un film sul nostro contemporaneo, così, mantenendo lo stesso schema narrativo di Malerba, il gioco di usare il Medioevo come specchio dell'oggi, ho cambiato alcuni segni, per cercare di far parlare il Medioevo con il 2022».

E cosa racconta dell'oggi?
«Il film, come il libro, è un racconto sul potere e sulla complessità della sua gestione. Si interroga su cosa voglia dire creare una comunità, sviluppare un senso di comunità. Parla anche di religione; centrale è il tema della fame, bisogno primario che anche oggi resta importante. Nel romanzo di Malerba c'è un aspetto che mi affascina molto: i personaggi hanno un bagaglio emotivo limitato, non sanno leggere le proprie emozioni e capacità, non possiedono le parole per esprimere la propria interiorità. Nel confronto di questi personaggi rudimentali con una realtà complessa si crea un cortocircuito che mi sembrava adatto alla commedia». Questo è il cuore che cercava? «Il cuore stava nel raccontare personaggi inadatti a ciò che vivono. Sentivo che arrancavano dietro una realtà più complessa di loro, che li. schiacciava. E questo sembrava che mi riguardasse».

Ha affidato i personaggi a grandi attori: Lino Musella (Berlocchio), Giorgio Tirabassi (Belcapo), Viviana Cangiano (Bernarda), Daria Deflorian (la vecchia del Castellazzo), Alessandro Gassmann (Cappuccio), Valerio Mastandrea (il villano Migone)...
«Il lavoro su una lingua così peculiare e divertente da costruire ha contribuito all'entusiasmo con cui gli attori hanno aderito al film. La messa in scena si. basava anche sull'orchestrazione di questi suoni costruiti via via, una lingua che doveva essere artificiosa ma piana e comprensibile. La scrittura era precisa, ma ognuno ha poi messo del suo». La centralità della parola dà al film un impianto teatrale? «La parola è centrale nella costruzione dei sentimenti dei personaggi. Nel modo in cui si esprimono risiede il centro del loro stare al mondo».

Dove avete girato «Il pataffio»?
«In Ciociaria: il castello si trova a Vicalvi (Frosinone). Lo scenografo Daniele Frabetti e il costumista Mariano Tufano hanno fatto un ottimo lavoro nel creare il realismo fiabesco del finn: una fiaba che fosse divertente, ma trattasse anche aspetti reali. Una commistione di generi che viene proprio da Malerba».

Le musiche sono firmate da Stefano Bollani.
«Ha affrontato una sfida musicale complessa: ha creato musiche che sottolineano la stratificazione del film, i vari toni e l'evoluzione. Ha creato anche un paio di canzoni e ha cercato di dare al film quell'aria scanzonata, dove serve, e intima altrove, portando dalla tronfia pomposità del marconte fino a momenti più silenziosi». Ha tratto ispirazione dai film medievali di cui parlava? Come «L'armata Brancaleone» di Mario Monicelli? «Questo è un film completamente diverso, ma mi piace pensare che sia apparentato a un genere estinto che va da Monicelli a Pasolini, a Pippo Franco, Discendenze «È un film diverso, ma mi piace pensare che sia apparentato a un genere che va da Monicelli a Pasolini a Pippo Franco» ai decamerotici...» .

Un genere che lei ora esplora.
«Lo trovo una lente molto interessante per guardare all'oggi. In fondo viviamo in un inondo così apocalittico, in cui la fine sembra vicina. L'idea di esplorare un mondo lontano, arcaico, uni sembrava interessante dopo i due anni che abbiamo vissuto...».