Un Medioevo remoto e immaginario, fatto di fame e carestie. Una corte sgangherata
guidata dal marconte Berlocchio de Cagalanza e dalla sua
fresca sposa Bernarda. Con loro un
gruppo improbabile di soldati, il curiale Belcapo, frate Cappuccio. Devono
raggiungere e prendere possesso del
castello de Tripalle, che Berlocchio ha
avuto in dote dalla moglie. Troveranno
un postaccio decrepito abitato da villani per nulla disposti a farsi governare.
Il regista Francesco Lagi è entrato nel
Medioevo creato nel 1978 da Luigi Malerba (1927-2008) nel romanzo Il pataffio — dove, scriveva allora Antonio Porta sul «Corriere», con un rimando alla
letteratura quattrocentesca «la parola
"pataffio" sta a significare "pasticcio",
che vale anche per "satura", o piatto
pieno d'ogni specie di cibi, a prima visita incompatibili gli uni con gli altri» —
e da quel testo (disponibile nell'edizione Quodlibet del 2015) ha tratto un film.
Il 6 agosto Il pataffio, produzione Vivo
film con Rai Cinema, sarà in concorso
al 75° Locarno Film Festival e il 18 agosto arriverà in sala per o1 Distribution.
«La Lettura» ne ha parlato con il regista, autore anche della sceneggiatura.
«Ho letto il libro per caso dopo avere
trovato su una bancarella un'edizione a
due euro. Vi ho scoperto un mondo affascinante. E un libro semplice e complesso allo stesso tempo, pieno di
spunti, di strane irregolarità che mi
hanno catturato. Ci ho visto un film, ma
la complessità mi spaventava. I produttori, Gregorio Paonessa e Marta Donzelli, mi hanno invitato ad andare a fondo.
Sentivo gli echi di quelle commedie
medievali che andavano molto negli
anni Settanta. Un genere cinematografico che mi attrae: che ha avuto una versione nobile, un sottogenere, un decadimento, fino a diventare una farsa».
Come ha affrontato il testo?
«Mi sono innamorato di quel mondo
e soprattutto della lingua che Malerba
usa: immediata ma complessa. Nel libro, ambientato agli albori della lingua
italiana in un imprecisato Medioevo,
Malerba si inventa un volgare arcaico.
Per il frate crea un latino strampalato. A
certi personaggi di corte attribuisce invece un linguaggio più forbito. Crea
tante variazioni in una dimensione linguistica affascinante, che ho cercato di
riprodurre e rielaborare».
E per quanto riguarda la storia?
«Ci ho messo tempo a capire dove
stava il cuore del film. Ho preso dei personaggi, ne ho buttati altri, ho cercato
di renderli vicini a una mia sensibilità.
Mi sono preso tante libertà pur rimanendo fedele allo spirito del libro.
Adattare un libro vuole dire tradirlo,
muoverlo, agganciare pezzi che in origine non stanno insieme».
Un tradimento necessario?
«E un tradimento anche rispetto alla
propria sensibilità, che è per forza diversa di quella di un altro autore. Ho
rielaborato molte cose. Ho eliminato
parti del libro, un volume gigantesco da
cui si potrebbero trarre sei film. E ho
cambiato completamente il finale, il
destino dei personaggi. Malerba trasporta dinamiche sociali e umane del
suo contemporaneo nel Medioevo;
un'operazione felicissima che ho voluto
ereditare. Ma la società degli anni Sessanta è diversa da quella del 2022. Volevo fare un film sul nostro contemporaneo, così, mantenendo lo stesso schema narrativo di Malerba, il gioco di usare il Medioevo come specchio dell'oggi,
ho cambiato alcuni segni, per cercare di
far parlare il Medioevo con il 2022».
E cosa racconta dell'oggi?
«Il film, come il libro, è un racconto
sul potere e sulla complessità della sua
gestione. Si interroga su cosa voglia dire creare una comunità, sviluppare un
senso di comunità. Parla anche di religione; centrale è il tema della fame, bisogno primario che anche oggi resta
importante. Nel romanzo di Malerba c'è
un aspetto che mi affascina molto: i
personaggi hanno un bagaglio emotivo
limitato, non sanno leggere le proprie
emozioni e capacità, non possiedono le
parole per esprimere la propria interiorità. Nel confronto di questi personaggi
rudimentali con una realtà complessa
si crea un cortocircuito che mi sembrava adatto alla commedia».
Questo è il cuore che cercava?
«Il cuore stava nel raccontare personaggi inadatti a ciò che vivono. Sentivo
che arrancavano dietro una realtà più
complessa di loro, che li. schiacciava. E
questo sembrava che mi riguardasse».
Ha affidato i personaggi a grandi
attori: Lino Musella (Berlocchio),
Giorgio Tirabassi (Belcapo), Viviana
Cangiano (Bernarda), Daria Deflorian (la vecchia del Castellazzo), Alessandro Gassmann (Cappuccio), Valerio Mastandrea (il villano Migone)...
«Il lavoro su una lingua così peculiare e divertente da costruire ha contribuito all'entusiasmo con cui gli attori hanno aderito al film. La messa in scena si.
basava anche sull'orchestrazione di
questi suoni costruiti via via, una lingua
che doveva essere artificiosa ma piana e
comprensibile. La scrittura era precisa,
ma ognuno ha poi messo del suo».
La centralità della parola dà al film
un impianto teatrale?
«La parola è centrale nella costruzione dei sentimenti dei personaggi. Nel
modo in cui si esprimono risiede il centro del loro stare al mondo».
Dove avete girato «Il pataffio»?
«In Ciociaria: il castello si trova a Vicalvi (Frosinone). Lo scenografo Daniele Frabetti e il costumista Mariano Tufano hanno fatto un ottimo lavoro nel
creare il realismo fiabesco del finn: una
fiaba che fosse divertente, ma trattasse
anche aspetti reali. Una commistione di
generi che viene proprio da Malerba».
Le musiche sono firmate da Stefano Bollani.
«Ha affrontato una sfida musicale
complessa: ha creato musiche che sottolineano la stratificazione del film, i
vari toni e l'evoluzione. Ha creato anche
un paio di canzoni e ha cercato di dare
al film quell'aria scanzonata, dove serve, e intima altrove, portando dalla
tronfia pomposità del marconte fino a
momenti più silenziosi».
Ha tratto ispirazione dai film medievali di cui parlava? Come «L'armata Brancaleone» di Mario Monicelli?
«Questo è un film completamente
diverso, ma mi piace pensare che sia
apparentato a un genere estinto che va
da Monicelli a Pasolini, a Pippo Franco,
Discendenze
«È un film diverso, ma mi
piace pensare che sia
apparentato a un genere
che va da Monicelli a
Pasolini a Pippo Franco»
ai decamerotici...» .
Un genere che lei ora esplora.
«Lo trovo una lente molto interessante per guardare all'oggi. In fondo viviamo in un inondo così apocalittico, in
cui la fine sembra vicina. L'idea di
esplorare un mondo lontano, arcaico,
uni sembrava interessante dopo i due
anni che abbiamo vissuto...».