Recensioni / Rem Koolhaas, amoureux excessif

Tra quelle italiane, la scuola di architettura dove ho studiato era una delle più aperte. Ho però buone ragioni per ritenere di esservi stato accolto più o meno come avveniva, circa mezzo secolo fa, anche da altre parti. Al momento di iniziare gli studi si veniva muniti di un amuleto: i 5 punti dell'architettura di Le Corbusier. Impressi nella memoria, era una convinzione diffusa, avrebbero accompagnato gli studenti anche dopo, nella loro vita professionale. All'epoca nessuno si chiedeva se quella usata da Le Corbusier per mantrarizzare le sue 5 prescrizioni, la parola libre, non formasse un ossimoro con sudario. Tenere a memoria i 5 punti era poi ritenuto propedeutico alla lettura di Vers une architecture. Una volta letto questo libro, forti dell'anamnesi e sicuri della cura, si potevano affrontare i successivi anni di studio muniti di una conchiglia simile a quella che i pellegrini esibivano dopo aver percorso il Cammino di Compostela. A questo punto, non diversamente dagli insegnanti migliori e come accadeva in tante altre scuole nel mondo, gli allievi iniziavano a costruire i loro castelli di sabbia; «ora», osserva Rem Koolhaas, «nuotiamo nel mare che li ha spazzati via».
Vi sono diverse ragioni per pensare che Testi sulla (non più) città curato da Manuel Orazi ordinando, come spiega, i frammenti di un libro non nato, potrebbe sostituire nelle scuole di architettura gli amuleti che venivano distribuiti agli studenti all'epoca in cui anche Koolhaas andava a scuola, sebbene a Londra, all'Architectural Association School da lui frequentata, gli usi sembra fossero un po' diversi da quelli diffusi in Italia.
Tra i fili che legano i saggi di Koolhaas raccolti nel libro alcuni sono più rossi di altri. Con quale «autorità» la cultura architettonica può immaginare di occuparsi della città contemporanea, non dei singoli accadimenti o delle puntuali emergenze, ma dei progetti che sarebbe necessario pensare per dare forma alle energie che la vanno trasformando da organismo disciplinare a prodotto della società del controllo, necessariamente «post-architettonica», si domanda Koolhaas. Spiegando come l'urbanistica, che ha avuto il compito di custodire «l'insoddisfazione nei confronti della città», sia giunta a un estremo stato di inedia perché incapace di pensare «alternative credibili, elaborando solo modi più raffinati per esprimere quella insoddisfazione», e questo proprio quando l'urbanizzazione è diventata l'energia incontrollata che muove il mondo, Koolhaas offre una prima risposta a questa domanda. Ma non è soltanto l'urbanistica a doversi ripensare, a partire «dalla certezza della propria sconfitta», «prendendosi meno sul serio» e spingendosi sino al punto di rifondarsi come una «gaia scienza», auspica Koolhaas, senza però immaginarla come nell'originale quale "una danza sopra la morale", ma più prosaicamente come «urbanistica light», che è un modo succinto per riassumere quanto il libro ripete: «oggi, per sopravvivere, l'illusione non conta più, bisogna avvicinarsi alla nullità del reale», diceva Jean Baudrillard, mentre Koolhaas intitolava Immaginare il nulla un suo saggio nel 1985. Non meno della vecchia urbanistica, «alchemicamente» illusa di potere «trasformare la quantità in qualità» nell'epoca delle grandi città, l'architettura non è, però, un «rifugio sicuro». Anche l'architettura è chiamata a fare i conti con la sua sempre più accentuata irrilevanza, alla acquisizione della quale hanno contribuito non soltanto i processi globali che hanno reso persino la parola "metropoli" adatta unicamente per raccontare dei bei tempi andati, ma altri accadimenti più puntuali che Koolhaas descrive con lo strumento più appropriato per farlo, l'ironia. Lo fa in pagine brillanti. Quelle, per esempio, nelle quali parla della progressiva trasformazione delle Halles di Parigi in «un cimitero di massa di cattive e buone intenzioni», di Brasilia, «uno spasmo finale più che una nuova alba», oppure della città di Atlanta. Della sua mancanza di forma Atlanta è debitrice «a una normativa così debole che l'eccezione è qui la regola che rende tutto possibile», a cominciare dall'abolizione di ogni distinzione tra centro e periferia. Mentre «sempre più materia va a innestarsi su radici ormai disseccate», la progressiva abolizione della legge della gravitazione urbana si è compiuta in questa città della Georgia anche grazie al contributo degli architetti. Ad Atlanta, infatti, ha prosperato il fautore ed interprete più fortunato di questa rivoluzione, l'architetto John Portman. Portman ha goduto nel recente passato di una certa considerazione e Koolhaas ne ha fatto il protagonista di un saggio piuttosto noto e che ora si può leggere in Testi sulla (non più) città. Lo ha ritratto al lavoro attorniato dai suoi epigoni «post-ispirati», passati «dall'imporsi al sottomettersi nel giro di una sola generazione», ma come lui estremamente efficienti, capaci di «progettare edifici spropositati per dimensioni e complessità in un giorno solo». Ma l'ironia, anche quella messa in campo da Koolhaas parlando di Portman, come spesso accade è una maschera del tragico. Dopo averlo definito «disurbanista del mondo» (ma per capire questa beffarda definizione bisogna leggere le pagine in cui Koolhaas racconta di un suo pellegrinaggio moscovita attraverso gli scheletri del costruttivismo), come sarebbe stato possibile non cogliere una smorfia tragica in un personaggio che per spiegare il significato delle sue costruzioni affermava: «considero l'architettura musica congelata»? Ma più in particolare: non è sostanzialmente tragica l'invenzione che Koolhaas attribuisce a Portman di un fortunato tipo edilizio, la torre-atrium, che si identifica con l'osceno del vuoto arredato che contiene (Hyatt Regency Hotel, Atlanta 1967), artefice e non soltanto interprete dell'incalzante trasformazione del «cuore della città in un accumulo di svuotati panoptici che attirano i loro volontari prigionieri», mentre gli spazi occupati dagli esclusi e dal residuo, masse sottratte alle legge di Newton, vengono colonizzati o si spostano sempre più in là? Ad Atlanta, non soltanto ad Atlanta, non si entra nel carcere varcandone la porta, bensì nel momento stesso in cui si esce di casa. Ma non è soltanto la loro stupefacente capacità di «fraintendere sé stessi» di cui hanno dato prova personaggi quali Portman o Libeskind (cfr. pagina 135), quella contro la quale Koolhaas punta il dito, ma più in generale è il contributo dato dagli architetti alla trasformazione delle città in un insieme di luoghi nei quali «ognuno diviene il guardiano dell'altro», escludendosi dallo spazio su cui la loro professione poteva contare per mettere alla prova la propria «autorità», contribuendo «a reinventare la vita della città».
Un altro filo rosso che attraversa il libro è più aggrovigliato, come lo sono i sentimenti nei quali entra in gioco la nostalgia, non così diversi dall'affetto che Koolhaas nutre per New York. Koolhaas denuncia la macchinazione ordita dal tempo, ma portata a compimento da congiurati più o meno consapevoli, di cui New York è stata vittima: l'imposizione per legge del feticcio della qualità della vita, l'igiene come norma di legge, la sicurezza come fine, il controllo come scopo, o se si vuole: «comfort, sicurezza, sostenibilità» , i valori che dovrebbero ispirare le politiche volte a rendere intelligentemente accogliente ogni città - smart city: è come se Zarathustra e la sua scimmia invece di arrivare camminando alle porte della città vi fossero giunti su un calesse e la scimmia, afferrate le redini, avesse relegato Zarathustra sul sedile posteriore. Una volta accettati questi valori, «una fauna di avvocati, affaristi, urbanisti e intermediari», con i propri politici alla testa e gli architetti stretti nei ranghi, ha provveduto ad igienizzare New York - o meglio: il suo centro storico - dove «la qualità della vita è stata imposta con la forza» dando il la a nuove forme di "zoning". Così a New York anche al commercio della pornografia, ricorda Koolhaas, è stato imposto di cercarsi uno spazio diverso da quello che si era conquistato. Ma una volta espulsa da Times Square, la pornografia questo spazio lo ha trovato democratizzandosi, uscendo allo scoperto, ampliando il suo mercato. Si è trasformata in uno spettacolo pubblico e per tutti, quello offerto dai profili delle torri che si moltiplicano scalando il cielo di Manhattan. Slanciate e anoressiche sgambettano imitando le ballerine protagoniste del film 42nd Street, ma ora lo fanno sguaiatamente su un palcoscenico smisurato perché, trascorsi novanta armi, non c'è più un coreografo bravo come Busby Berkeley a disegnare i loro movimenti.
«Il colpo di genio» che a New York ha portato a «immaginare la vita nella metropoli come un'esperienza profondamente irrazionale che utilizza le nuovissime tecnologie per esasperare i desideri» ha trovato espressione negli edifici costruiti tra il 1900 e il 1933 (Flatiron Building, Rockefeller Center). Queste costruzioni hanno generato, continua Koolhaas con una vena di rimpianto, «una densità che amplia in modo esorbitante il repertorio di programmi, eventi e sovrapposizioni, e al contempo una fluidità che la vita urbana non ha mai conosciuto in precedenza». Questo universo urbano così diverso da quello «sobrio e astratto» immaginato dal modernismo europeo, rappresenta, ma in maniera parallela perché in ogni caso delirio e conservazione sono inseparabili, l'ultima configurazione dei modi di vita della città fondista. L'Empire State Building, fu completato nel 1931 dopo ventuno mesi di lavoro. La costruzione di un grattacielo, diceva il costruttore dell'Empire, richiede «organizzazione del lavoro e disciplina ed è l'equivalente più prossimo della guerra in tempo di pace». All'epoca, l'ingegnerizzazione della riproducibilità si realizzava nella indifferenziazione delle superfici costruite, indivise ed elasticamente adattabili alla domanda del mercato. Il loro valore variava a seconda della distanza di ciascun piede quadrato da una finestra. Nel caso dell'Empire i posti di lavoro offerti erano 25.000. II vuoto economicamente razionale degli spazi interni non ha però impedito che i più di cinquanta grattacieli che dal 1920 sino alla fine del successivo "decennio frenetico" si sono aggiunti al profilo di Manhattan mirassero ciascuno ad avere una propria attrattiva identità grazie all'irrazionalità dei loro paramenti esterni e alla fantasmagoria delle loro lobbies. L'apparenza della diversità ha reso New York splendidamente terrificante e dolcemente accogliente. Quando le torri gemelle del World Trade Center sono state inaugurate ne11972 si poteva supporre che questa storia fosse giunta al passo d'addio. Le due torri dominavano lo skyline di Manhattan «senza farne parte ed essere gemelle era il loro unico tratto di genio», scrive Koolhaas. Ma le due torri, accoppiandosi uguali, avevano puntato sull'esibizione della riproducibilità sino ad allora mascherata dagli involucri compiacenti dei grattacieli, violando la legge che stabilisce che quanto concepito per venire riprodotto, la merce, si presenti sempre con un aspetto diverso. Le Twin Towers non erano geniali; erano banalmente gemelle e scomparendo hanno solo fatto spazio all'inserimento di una protesi nello zoccolo più duro della città fordista.
In Testi sulla (non più) città oltre a questi vi è un altro filo da seguire, più rosso degli altri. Inizia da Berlino e finisce a Berlino. Seguendolo si ha qualche motivo di più per ricordarsi che sarebbe davvero una perdita se anche la figura di Oswald Mathias Ungers, il Baedeker di Koolhaas a Berlino, finisse tra le nostre smemoratezze. Degli studi su Berlino compiuti da Koolhaas con Ungers il libro offre una sintesi essenziale: descrive il percorso compiuto da quando la ricostruzione della città aveva generato «un cumulo di utopie», al momento in cui la si è pensata (Ungers/Koolhaas) come «un arcipelago verde» custode del suo declino. Le pagine più belle del libro sono quelle dedicate al Muro. Le "prime" sono del 1971. Less is more: quale miglior dimostrazione del Muro di Berlino che less is more non è un fine ma un dato di fatto? «Potente, decisivo, minimalista, estemporaneo», lungo 165 chilometri, al punto che anche l'architetto più attento alla lezione di Georges Bataille, scrive Koolhaas, mai «avrebbe potuto vantarsi della performance trasgressiva del Muro e dell'assoluto radicalismo della sua esistenza». Il Muro, «una straordinaria rovina lineare di struggente bellezza»: «dopo le rovine di Pompei, Ercolano e del Foro romano», prosegue Koolhaas, «queste erano forse le vestigia di più pura bellezza della condizione urbana, e la loro permanente doppiezza lasciava senza fiato». Come l'architettura il Muro escludeva, separava, chiudeva, «bello come il suo orrore». Non a caso nelle pagine che Koolhaas ha dedicato a Berlino, attraversate dagli echi di Bataille e di Lautréamont, affiora anche il ricordo di Pompei. Forse è più di un indizio del fatto che visitando e pensando Berlino Koolhaas ha fatto quello che prima di lui aveva fatto, così come la racconta Freud, il giovane archeologo Norbert Hanold recandosi a Pompei, inseguendo il fantasma di Gradiva per comprendere lì che non si trattava di un fantasma. La medesima ombra ha dato nome a un quadro meraviglioso di Dalí, Gradiva descubre las ruinas antropomorfas, due figure abbracciate, il mare e sullo sfondo un'isola dei morti. Questa è forse l'immagine più appropriata per dire quello che Koolhaas, «amoureux excessif» come il Norbert Hanold di Roland Barthes, ha studiato a Berlino, quando la città non era un ricordo rimosso, e ha cominciato lì a riempire la scatola degli attrezzi grazie ai quali ha osservato e scruta il mondo intorno a lui.
A Koolhaas si devono gli scritti più intelligenti usciti dalla penna di un architetto dai tempi in cui i libri di architettura venivano scritti per dire ai lettori che cosa ci si aspettava loro facessero. Già questa è una buona ragione per augurarsi che quanti frequentano le scuole di architettura decidano di acquistare Testi sulla (non più) città; così facessero, troverebbero un amico non incline a consolarli e soltanto raramente prescrittivo.

Recensioni correlate