Recensioni / “Roma, non altro”: le storie romane della scrittrice Dolores Prato

Dolores Prato è una scrittrice che appartiene a quella schiera di autori dimenticati della nostra letteratura. Marchigiana di origine, visse e scrisse a Roma, dove collaborò con le maggiori riviste di metà Novecento, prima fra tutte il “Mondo” di Mario Pannunzio. Questo libro, che esce per i tipi di Quodlibet, raccoglie scritti, articoli ed elzeviri riguardanti proprio Roma, pubblicati per la maggior parte tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso.

“Roma non è una città come le altre. Essa anche se unica nella sua monumentalità, non era grande nello spazio, era grande nel tempo tanto che pareva averlo superato entrando nell’eternità”. Questa affermazione, tratta da uno degli scritti che compongono Roma non altro inquadra bene il taglio di questi elzeviri. Essi sono soprattutto una riflessione sul tempo, e sul passato. Sono una ricerca su una “Roma com’era”, “una piccola città addormentata in un verde secolare con uno strano carattere di immensità”, che alterna la poesia e i topoi sulla città eterna ad una forma di strana nostalgia che solo chi guarda Roma “da fuori” riesce ad avere.

Memorie romane
Ritroviamo in questi testi la poesia della città “magica”, prima che le venisse “appioppato dagli italiani” il ruolo di capitale. Oppure prima che fosse “sventrata” per fare spazio alle costruzioni moderne; prima che il ruolo istituzionale (“gli architetti piemontesi”) la rovinasse con l’anonimato di certi nuovi quartieri. Basta però un albero, o un sasso, o un pino che pare una nuvola scura, a fare riemergere, quasi come una memoria involontaria, quel tempo e quei luoghi spariti. E accanto alla bellezza, presente o perduta, si nasconde sempre un retrogusto umido e oscuro; quell’ossimoro costante che è il mistero ultimo di Roma.

Una Roma “obliqua”
Quello che emerge insomma, in questi scritti, è una certa inquietudine che li rende qualcosa di più di semplici cartoline, o resoconti turistici o folkloristici. Sarà forse la lingua, così arguta, con cui sono scritti, ma il punto di vista resta sempre obliquo anche quando vengono descritti quei luoghi noti a tutti. Basta eggere il testo sul Pantheon per capirlo. È una lingua a tratti spumeggiante che non perde mai la freschezza dello sguardo disincantato sul mondo. E siamo sempre in bilico tra l’antico e il moderno, letto col sorriso sardonico di chi sa che Roma si nutre anche di queste contraddizioni permanenti. Solo un esempio: “Per la prima volta le strade dell’Urbe, dove il papa passava disegnando crocette nell’aria, passava ora una sovrana ingioiellata che piegando la testa di qua e di là accennava lievi saluti rubacuori”; così è descritto, ad esempio, l’arrivo della regina Margherita nella nuova capitale del Regno. In questo ritratto ironico si annida tutto lo spirito di una città.

Una città che resiste
Roma, insomma resta un mistero, come il suo stesso nome, che anticamente veniva custodito come la più sacra delle cose. E Roma è come una persona che si tiene ostinatamente la maschera sul volto, scrive Prato nel testo che apre la raccolta. Siamo a metà tra archeologia, nostalgia e ricerca del tempo perduto. Roma è una città ambigua, amorevole e crudele, centrale e marginale, “spezzata, dispersa, esposta a frantumi sotto forma di reliquia”, diversa ma forse sempre uguale a se stessa. Una città che resiste, come la voce di questa scrittrice, ennesimo esempio come nel Novecento italiano si trovino fuori dal canone alcuni dei nostri autori migliori.