Che Hugo von Hofmannsthal
sia stato un maestro assoluto
di scrittura epistolare è un fatto
acquisito, come dimostra lo
scambio ultraventennale di lettere
con il compositore e sodale
Richard Strauss, pubblicato da
Adelphi giusto venti anni fa. Non
di meno sorprende che lo scrittore
e poeta austriaco, poco più che
ragazzo, si dimostri altrettanto
profondo nello scambio di lettere
tra il 1892 e il 1895 con il guardia
marina Edgard Karg von
Bebenburg, di cui dà conto il libro
Le parole non sono di questo mondo,
ottimamente curato da Marco
Rispoli per l'editore Quodlibet.
Edgard non è un giovane raffinato
e colto come l'amico, ma la sua
indubbia sensibilità, e la
spasmodica ricerca di una vita
piena e autentica, colpiscono
Hofmannsthal. E lo spingono a
riflettere ad alta voce sulle cose
che gli stanno più a cuore: la
poesia, l'amicizia, il valore
dell'immediatezza in un mondo
sempre più caotico, fasullo,
indecifrabile. E, soprattutto, a
compiere tale sforzo con la
massima semplicità possibile, per
rispetto nei confronti del cadetto
di marina, che letteralmente
pende dalle sue labbra.
Ecco perché sono così toccanti le
sue riflessioni. In particolare
quelle sulle aporie costitutive di
un linguaggio che mai riesce a
toccare il cuore indicibile
dell'esistenza. Come si desume
perfettamente dalla lettera del 18
giugno '95 e che offre il titolo al
libro. «Le parole non sono di
questo mondo, sono un mondo a
se stante, un mondo del tutto
indipendente, come il mondo dei
suoni. Si può dire tutto quello che
c'è, così come si può musicare
tutto quello che c'è. Ma non si
potrà mai dire qualcosa proprio
così com'è. Per questo le poesie
producono lo stesso sterile
struggimento che producono le
note. Molti però ignorano tutto
questo e quasi soccombono nel
tentativo di dire la vita. La vita
però dice se stessa. Parla
attraverso i fenomeni». La
conseguenza è lapidaria: «Perciò
vedi, io penso questo: non vi è
nulla di scritto a cui si possa
credere».
Sette anni dopo, aprendo il
Novecento, Hofmannsthal
compirà un passo ulteriore e
definitivo con la celebre Lettera di
Lord Chandos, in cui il
protagonista, nella
consapevolezza di non poter
governare pensiero e linguaggio,
dichiara di voler abbandonare la
professione di scrittore.
Ora, non dico arrivare a tanto, ma
se via via qualche concittadino
compulsivo rinunciasse anche solo
a un tweet o a un post ripensando a
Lord Chandos, mica sarebbe male.
Non vi pare?