Recensioni / In vetrina c’è (solo) l’artista

Nome nuovo, firma nuova, brand, marchio... comunque declinate, con le sue parole-chiave l'età contemporanea ha segnato il passaggio dal Sistema delle arti come era andato costituendosi dal Cinquecento al campo largo e lasco della creatività diffusa e ha sostituito l'apprezzamento per l'opera con il culto dell'autore. Bruno Pedretti, scrittore e saggista, da anni docente all'Accademia di architettura di Mendrisio (recentemente ha pubblicato anche un romanzo, Memoria della malinconia, Castelvecchi), ha dedicato alcune riflessioni a questo tema (Il culto dell'autore. Le arti al tempo della civiltà estetica, Quodlibet, pagine 1.44, € n2) le cui pericolose propaggini si estendono fino all'inclusione di tutta la creatività come arte, al passaggio dalla gloria postuma per l'artista alla fama momentanea per il personaggio, dal trionfo dell'opera alla vetrinizzazione dell'autore «creato» da qualche talk show o da una costruzione del consenso basata sul conformismo, unico dogma contemporaneo.
II culto dell'autore è la compensazione della perduta autorità delle culture artistiche. La scomparsa della Letteratura e dell'Arte sostituite dalla diffusione degli scrittori e degli artisti segnano l'avvento di un Pancreazionismo: ci vogliono nomi, nomi, nomi...
Gli esiti del culto dell'autore (che semina per strada un proletariato artistico come testimoniato dal recentissimo Come vivono gli artisti di Santa Nastro, Castelvecchi) nell'epoca della «creatività democratica» e diffusa sono la parodia come linguaggio obbligato delle arti, il kitsch o un prodotto finalizzato alla sola comunicazione. «Le opere dei singoli artisti visivi sono diventate accadimenti mediatici programmati e gestiti da apparati del consenso», scrive Pedretti. La comunicazione costruisce l'autore e trova riscatto soltanto quando, pur rimanendo all'interno del circuito del conformismo come discorso unico, propone una immagine che, se non assume valore civile, almeno raggiunge quella della denuncia alla quale segue lo sdegno momentaneo.
Il divorzio dal canone delle arti, dall'esercizio per metodi critici ha finito con il privilegiare il prontuario, l'iconicità inconsapevole di quanto già avvenuto e presente nel grande atlante visivo delle arti (Bilderatlas) immaginato da Aby Warburg. Quest'ultimo configura un universo eclettico ma solo attraverso il quale prende senso ogni nuova reale proposta.
In questo mondo di «creatività democratica» ed estetizzazione diffusa, la figura del bricoleur è l'inatteso depositario del pensiero artistico. ll bricoleur, l'assemblatore, è colui che va oltre i generi, supera la cesura tra le «due culture», tecnico-scientifica e storico-letteraria verso un nuovo modo di comprendere. Di contro, dove le poetiche «eleggono a proprie muse l'esclusiva espressività soggettiva» si finisce con il lasciare entrare in casa (si include anziché essere esclusivi) «tutti quanti passano per strada» e il «diletto intellettuale si trasforma in idiozia espressiva». Sprofondiamo così nell'attuale bioestetica, nella «credulità estetica», nella parodia come linguaggio delle arti in una modernità attratta dal «principio illusione» del nuovo e del kitsch. Quando non da un rigurgito di impegno separato dall'estetizzazione coltivando l'illusione di separare etica ed estetica (già espressa da Adorno), suscitando «compassionevoli perplessità» nella lotta all'immagine, specie poiché nutrita dall'ideologia americana dei cosiddetti French studies, ovvero il conformistico atteggiamento dell'espansione all'infinito dei diritti come moda.