«In tutta la sua figura
c'era qualcosa di legato, di compresso,
di chiuso come un
pugno. Nessuno
slancio, nessun segno d'apertura. Gettava invece qua e là delle occhiate
quasi oblique, sfuggenti senza mai
guardare dritto negli occhi chi gli.
stava di fronte» (Berg); «la mattina si
lavava a fatica il viso e le mani, portava sempre la biancheria sporca e un
abito tutto impiastricciato. Nelle tasche dei calzoni aveva immancabilmente una provvista di dolci di ogni
tipo» (Ljubiè-Romanoviè); mangiava
«con straordinaria voracità, curvandosi a tal punto che i suoi lunghi capelli cadevano nel piatto» (Annenkov); scriveva «girando fra le dita
delle pallottole di pane bianco
che a suo dire lo aiutavano a concentrarsi . Un amico aveva raccolto un mucchio intero di queste
pallottole e le conservava con venerazione» (ancora Berg); eccetera. Le bizzarrie del personaggio, le sue flagranti contraddizioni, enfatizzate e moltiplicate da
una pletora di testimonianze
spesso discordanti, hanno fatto
sì che le raccolte di aneddoti relativi a Nikolaj Gogol' costituiscano, nella bibliografia del grande
scrittore, un genere particolarmente frequentato già a partire da
metà Ottocento. Ultimo titolo in ordine di tempo, Nikolaj Gogol' nei ricordi di chi l'ha conosciuto, allestito
da Giovanni Maccari con una competenza e una passione degne delle curatele russe di Tommaso Landolfi.
Pur tenendosi lontano dagli opposti estremi dell'agiografia e della denigrazione, questa antologia sceglie di
rispettare le regole di un genere
che privilegia la vita rispetto alle
opere: in questo modo corre consapevolmente e gioiosamente il rischio del pettegolezzo biografico,
quello in cui, malgrado tutto, risiede
l'interesse di un libro peraltro turpe
come Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi di Antonio Ranieri.
Al pari di Leopardi, Gogol' era gracile e malaticcio, goffo e trascurato,
sordido nel vestire e a detta di molti
«ripugnante», sfuggente, furtivo,
ipocondriaco. Ma tutto questo, scrive Maccari, non gli impediva «di coltivare un amor proprio tirannico
che lo portava a elaborare progetti
colossali e a concepirsi come un essere separato». Mi viene da pensare
che questa scissione non sia estranea al surrealismo fantastico di chi
ha incentrato un racconto sul distacco di un naso dalla faccia del proprietario (per la cronaca, stando a Panaev, il suo naso era «lungo, incavato e adunco come il becco di un rapace»): in ogni caso deriva da qui il leggendario istrionismo di Gogol', il suo amore per i travestimenti, la ricerca quasi programmatica di un
provocatorio cinismo, la fiducia nella sostanzialità comica dell'universo. E se fosse vero ciò che l'antologia
suggerisce, e cioè che Gogol' non sia
esistito tanto in sé e per sé quanto
nelle apparenze e nelle messinscene, significherebbe che il suo progetto di sottrazione è perfettamente riuscito.
Uno che lo conosceva bene come
Aksakov (sua la testimonianza più
lunga), pur non facendogli sconti intuisce che sotto quella maschera indisponente e quella subdola inaffidabilità si nascondeva una vocazione comica rabdomantica, come una
forma di conoscenza e, di fatto, uno
straordinario regalo ai suoi interlocutori: «Ho avuto modo innumerevoli volte di constatare come le stesse
cose che raccontate da Gogol' facevano scompisciare gli ascoltatori,
ripetute da me o da chiunque altro non producevano alcun effetto». Analogamente, Panaev trova
Gogol' maleducato e artefatto,
ma appena gli sente leggere qualche pagina delle Anime morte si
sente pervaso da «brividi di piacere» (e così un po' tutti, ad esempio Pogodin: «Ma come leggeva?
E impossibile anche solo immaginarlo. Nessuno si muoveva, tutti
restavano come incatenati ai loro posti. L'incanto della lettura
era talmente forte che capitava
che il pubblico restasse immobile,
quasi avesse paura di respirare liberamente»). Le stesse Anime morte, pensa Aksakov, sarebbero state
scritte per esorcizzare (o digerire)
l'orrore della società russa, «spaventosa accozzaglia di mostri umani»:
parole che sembrano scritte per il Pasticciaccio di Gadda, un altro grande
nevrotico capace di suscitare ilarità
dalla bruttura e dal dolore. Ma possiamo anche retrocedere nel tempo, e imbatterci in più di una figura (nel
senso auerbachiano del termine) gogoliana: per esempio in artisti saturnini ed «astratti» come Piero di Cosimo o Pontormo, o come Leonardo,
la cui favolosa capacità di astrarsi
dal mondo torna in questa bellissima testimonianza italiana, per una
volta di Gogol' in persona: «Quando
abitavo in Italia mi è capitato questo
fatto: un giorno di luglio ero in viaggio fra i paesi di Genzano e Albano.
Lungo la strada, su un'altura, c'è
una trattoria polverosa con un biliardo nella sala principale, dove le palle rotolano costantemente. In quel
periodo stavo scrivendo il primo volume delle Anime morte e non mi separavo mai dal quaderno. Non so
perché, nel momento in cui entrai in
trattoria mi venne voglia di scrivere.
Presi un tavolo, mi sedetti in un angolo, tirai fuori la borsa e nonostante il rotolio delle palle sul biliardo, il
baccano incredibile, il via vai del cameriere, il fumo, il caldo soffocante,
sprofondai in una specie di sogno e
scrissi un capitolo intero senza alzare la testa. Quelle pagine mi sembrano ancora fra le più ispirate che ho
mai scritto».