Recensioni / Alberto Ravasio / Nomi comuni altamente metaforici

n trattino invisibile separa il figurato dal figurativo, langue e parole si accartocciano fra loro producendo un romanzo che ha il respiro del racconto (e non viceversa), un diario “psicanalitco-grottesco” che assume, per brevi cenni, le forme del pamphlet: La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, opera prima di Alberto Ravasio, appare come una stramba “ucronia stilistica” già dal titolo, con quel particolare mescolamento di alto e basso, di evocazione lessicale saggistica e gioco di nominazione popolaresca, quasi rabelaisiana. Si tratta, infatti, di una peculiare “meteora” nel panorama letterario del nostro paese (anzi, del nostro “strapaese”, come verrà spiegato più avanti): una “prova di forza” della scrittura unita a un solido e circoscritto intreccio, una opera chiusa – pur con diverse screziature e rivoli di sperimentazione al suo interno – mentre predominano le auto (e allo)biografie, i resoconti finzionali, il giornalismo autoriale. Gugliemo Sputacchiera è, come lascia intravvedere il suo epiteto, un nome comune ma altamente metaforico: personaggio ultra-letterario ed esagerato, ma allo stesso tempo molto concreto, che rappresenta una certa fetta di venti-trentenni d’Italia, disoccupato (sia dal lavoro che dai sogni), in perenne “comodato d’uso” presso i propri genitori (a loro volta assenti nel loro ruolo parentale), educato ma incapace d’autonomia esistenziale, “sepolto” nella propria cameretta a sopperire la sua carenza di rapporti sentimentali attraverso il consumo ipertrofico di pornografia. Vergine e illibato, suo malgrado. Suo malgrado, all’inizio del romanzo, si risveglia improvvisamente trasformato da uomo in donna, anzi in donno (come viene detto nel libro). Una transessualizzazione forzata e misteriosa, meta-forica nel senso sia letterale che letterario del termine, da cui prende abbrivio una sghemba storia di (de-)formazione.
Deformazione a tutto tondo: del corpo del protagonista, delle sue (peraltro praticamente assenti) relazioni interpersonali, del mondo attorno. Sputacchiera, di colpo sprovvisto del “fallo” attorno cui girava sostanzialmente l’intera sua esistenza, si ritrova (sembrerebbe per la prima volta nella sua vita) costretto ad agire: come comunicare questa sua trasformazione ai genitori? come conviverci e, nel caso, porvi rimedio? quali conseguenze nella propria “vita sessuale”, che dà il titolo al romanzo, o comunque nella propria vita? Di riferirlo al padre – figura abbozzata e oltremodo archetipica, maschilista e conservatore come tutti i padri comuni della provincia italiana –, manco a parlarne. Con la madre – “matta per scelta”, ovvero come forma di reazione alla sua minorità imposta, e al senso di colpa per la propria estrazione contadina – sussiste uno sprazzo di dialogo, che però si rivela inconcludente, vista la sostanziale “freddezza” e sufficienza con cui viene accolta la notizia. Inizia così un breve (in termini di pagine), ma “denso”, viaggio iniziatico attraverso una città astratta e assonnata (“questa città artefatta e traditrice”, tratteggiava Ermanno Cavazzoni nel suo Il poema dei lunatici), appunto verso un metonimico “strapaese provinciale” che, se già appariva al protagonista alieno e indifferente, ora che è avvenuta la sua forzata transessualizzazione si rivela in tutta la sua grottesca e lugubre ostilità. Così lo descrive Ravasio nel romanzo: Che cos’è il paese? Chiedeva Sputacchiera a se stesso, dato che in giro non c’erano cervelli utili. Il paese è quel posto preindustriale, prescientifico, precolombiano e felice di esserlo, che resta sempre uguale quando tutto intorno cambia. Il paese è periferico ma non è periferia: se la periferia è assenza frustrata della città, il paese, quando chiude gli occhi, sogna se stesso, sta bene dove sta e dove è sempre stato, fuori dai casini, ovvero dalla Storia, tutto accade all’indicativo presente, senza passato e senza futuro.
Immune dal bacillo della cultura, ripulito e ingrassato dal boom economico ma eternamente mezzadro nella calotta cranica, il paese crede di aver visto tutto perché in fondo non ha mai visto niente, non ha altro obiettivo a parte quello di reiterare se stesso, in un circolo gastrico chiuso, lavoro-casa-chiesa, dove il battesimo coincide con il funerale, la bocca con lo sfintere.
Sovranista, qualunquista, papista, il paese non conta né poveri né laureati, né proletari né borghesi, ma soltanto eterne corporazioni di idraulici, elettricisti e muratori, formiche risparmiatrici intente a perseguire non la ricchezza, non il piacere e nemmeno la fama, ma il decoro dell’irrilevanza.

È qui che, dopo il colpo di scena iniziale (la trasformazione), i piani si confondono ulteriormente. Il figurato e il figurativo perdono la propria distinzione, generando una coesistenza di livelli e una lingua che sembra voler assommare su di sé ogni proliferazione di significato, e dunque ritenere ogni concrezione discorsiva nel minimo d’espressione verbale: “Sputacchiera rifletteva, spremendosi le meningi, e già che c’era pure le cosce”, “dieci chilometri e cinquecento anni d’analfabetismo lo circondavano”, “nutrendosi soltanto di piacere onanistico e caffè solubile”… un gioco di elisione retorica spesso utilizzato nel testo, teso appunto a eliminare ogni distanza fra realtà materiale e mentale, fra corpo e psicologia. E infatti, in maniera piuttosto esplicita, la trama di La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera chiama in causa i meandri della psicanalisi: il/la protagonista, ora diventata per proprio auto-battesimo Carmela Pene, incontrerà – con esiti fra il comico e il disastroso – ben due psicologhe per risolvere il suo “problema”. E, d’altronde, questa sua transessualizzazione improvvisa si rivela sempre più come un sintomo di travagli esistenziali e di coscienza, una sorta di “contrappasso in vita” che conduce il personaggio di Ravasio a inglobare fisicamente in sé quell’oscuro oggetto del desiderio che non riesce a “possedere” carnalmente.

Se dunque, mano a mano che procede l’intreccio, lo stile e l’atmosfera del libro si complicano verso una policromia grottesca e ambigua, il suo nocciolo tematico e bersaglio polemico diventano più chiari e precisi. La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera è un romanzo che utilizza la transessualità come espediente narrativo ma non parla di transessualità, anche se a tutta prima si potrebbe scorgere una certa ambivalenza. Al contrario quella che si dipana attraverso il testo è una sorta di riflessione indiretta sulla/e mascolinità, più o meno egemoni: dal maschilismo schietto e acritico del padre di Sputacchiera, sempre evocato sullo sfondo come uno “spettro”, dalle dinamiche patriarcali che configurano in calce il percorso e lo status esistenziale della madre, dalle contraddizioni socioculturali alto-borghesi (“scrittrice femminista coi soldi del patriarcato: quelli del disprezzato padre ingegnere e quelli dell’ex marito violento, capopopolo maoista da giovane, svendutosi, con successo, all’imprenditoria”, dice l’io narrante nel descrivere la madre del suo primo e unico amore metropolitano-liceale) alla misoginia introiettata per “incoscienza di classe” di alcune protagoniste, fino appunto alla mascolinità debole e involuta del protagonista, sessualmente inetto e “inadatto”. Ravasio riesce a esplorare questo “microcosmo” senza moralismi e con gusto del tratteggio satirico, attraverso una comicità talvolta anche eccessiva e scabrosa ma del tutto priva di ironia (dunque, di distanza): c’è invece una sorta di pietas, una compassione acre e asciutta, per nulla sentimentalistica, verso la condizione del suo universo di reietti. Con punte, se vogliamo, di obliqua tenerezza: l’incontro sui generis fra Sputacchiera, ora Carmela Pene, con il suo migliore amico Guido Coprofago prima della decisione di lasciare il paese e trasferirsi è infatti un sottile gioco di rimandi e di equivoci sull’incapacità maschile di esprimere in maniera diretta un sentimento amicale, un’intimità affettiva (“Mi prenderai per finocchio, ma è la persona a cui voglio più bene”, si dice a un certo punto). Un dialogo caustico e surreale, che rimanda alla lontana al celebre monologo dello stand-up comedian statunitense Bill Burr.

Correndo lungo il filo di questo sottotesto tematico, sul finale del libro (che non sveliamo) Ravasio si gioca tutto o quasi: chiude il cerchio degli eventi, costringe il protagonista e il lettore a una dolorosa catarsi, che impone al potenziale interpretativo del romanzo una “sterzata” ancor più psicanalizzante del resto della trama. Il “trauma”, dettato dalla metamorfosi sessuale del protagonista, viene definitivamente squarciato, e lasciato a sanguinare, dalla punta acuminata del “triangolo edipico” che viene ora illuminata per riflesso. È la rivincita dello “strapaese” contro i desideri di fuga? È l’inevitabile, e in fondo benefica, irruzione della realtà dentro al mondo finzional-cosmo-pornografico in cui il protagonista si era scavato la propria tana? È una conclusione romanzesca, tutto sommato, coerente con le premesse del libro. Eppure, è come se la forma della scrittura di Ravasio, così sapientemente calibrata in un misto di imprevedibilità e precisione, di arguzia descrittiva e ardimento lessicale, venisse ora risucchiata dalle esigenze del “ragionamento”, avviluppata – paradossalmente – in una ferrea necessità di sviluppo della trama. Intanto – nel “paesello stercoso”, benché “di rado e a orari menefreghistici” – gli autobus verso la città, verso il fuori della liberazione (?), continuano a passare.

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