Finalmente una buona notizia,
un motivo per rallegrarsi almeno un poco in un periodo
così nero che se ce lo avessero
raccontato non ci avremmo
creduto, tra pandemie, guerre,
crisi ambientale e campagna elettorale.
Stiamo parlando della ripubblicazione delle Opere
complete di Learco Pignagnoli (Quodlibet), un piccolo
classico che fin qui aveva circolato quasi in forma clandestina, al più esposto in
bella mostra nella libreria dei cultori che se
ne erano gelosamente
accaparrati una copia
nella prima e ormai introvabile edizione (Aliberti) di una quindicina di anni fa.
Oggi fortunatamente Daniele Benati lo rimette in circolazione e
ce ne presenta un'edizione abbondantemente ampliata con l'aggiunta di altre Opere
complete che aumentano di 180 unità il numero di questi
brevi o brevissimi capolavori
della letteratura comica.
Si tratta di aneddoti surreali, aforismi ironici, riflessioni
satiriche; frammenti che vanno da una riga appena ad una
manciata di pagine, disposti ognuno sotto un numero progressivo che aleggerli di seguito rivelano una struttura iterativa, con temi, motivi e personaggi che ritornano ad intervalli calcolatissimi. Si va
dall'Opera numero 1 ("Conoscevo uno che sbagliava sempre le parole. Una volta voleva
dire polipo, ha detto flauto")
alla 425 ("Comunque c'è troppo casino a questo mondo, non
si può andare avanti così. Voi
cosa dite, siete d'accordo con
me o ci ho ragione io?").
In mezzo le situazioni più
disparate e stralunate che,
trattate con unalinguacalcolatissima che mima il parlato vagamente emiliano, sviluppano
"una visione disgustata del
mondo - come scrive Ermanno Cavazzoni nella presentazione - e una comicità caustica
e politicamente scorretta sulla
vita, sui luoghi comuni, su certi
opinionisti televisivi in vista,
sulle patrie lettere e così via".
Provocando incontrollabili eccessi di riso liberatorio.
Ma queste brevi opere vengono da una tradizione lontanissima e ricordano l'apoftegma, parola difficile e ormai rara, che potrebbe essere tradotta con sentenza, detto breve e
memorabile, portatore di
qualche verità espressa però
con grande arguzia. Inizialmente presso i greci dell'epoca
arcaica venivano tramandati
oralmente, come quei fatti locali indimenticabili che si raccontano nei bar di provincia,
ma poi i greci hanno cominciato araccoglierli in forma scritta
e sono venuti fuori le sentenze
dei sette savi - addirittura l'origine della filosofia - oppure,
più tardi, gli apoftegmi di Isocrate o i Moralia di Plutarco.
Poi però l'antica sentenziosità
oracolare è via via decaduta,
come tutto, e la serietà di questi
brevi detti si è trasformata, soprattutto in Italia, in aneddoto
comico, in motto di spirito -
come si può vedere nella novellistica da Boccaccio in avanti -
o nella facezia spassosa, come
nei Detti e facezie del Piovano
Arlotto. E siamo già nel serissimo periodo detto dell'Umanesimo, in cui anche gli autorevolissimi Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci si
dilettavano con favole e apologhi ormai liberati di qualsiasi
finalità didattica.
Ma il più prossimo progenitore di Learco Pignagnoli ci
sembra essere nientemeno che
Filippo Ottonieri, stravagante
filosofo sotto le cui mentite
spoglie Giacomo Leopardi
tracciò un ritratto ironico di sé stesso
nei Detti memorabili di Filippo Ottofieri, nelle Operette
Morali. Il suddetto
Ottonieri fu infatti
odiato dai suoi concittadini "perché
parve prendere poco piacere di molte
cose che sogliono essere amate e cercate
assai dalla maggior
parte degli uomini".
Ed ecco che i fulminei aforismi, i rutilanti aneddoti di Learco - sotto le cui
mentite spoglie si cela il Benati come il Leopardi sotto quelle
di Filippo - sono una gnomica
che fa saltare tutti i luoghi consensuali della nostra civiltà
contemporanea, che attraverso la risata ribaltano la vana egolatria della società attuale.
Sono, come le Galline pensierose di un altro emiliano, Luigi
Malerba, degli apologhi zen
che qualora fossimo disposti al
gioco ci condurrebbero in un
punto di vertigine metafisica:
Opera n. 63, "E finito male e sai
perché? Perché credeva di essere sé stesso". Se fossimo tutti
un poco più pignagnolesi, o pignagnoliani - non saprei come
dire - insomma se smettessimo di voler primeggiare, la civiltà sarebbe sicuramente un
posto più vivibile.