Roma. Era un grande paese la Roma di Dolores Prato. Un grande paese
o una piccola città addormentata nel
verde. Rimpianta come una locanda a
cielo aperto. Punto del mondo dov'era
giusto passare senza insediarsi mai. E
dove tante altre cose erano decise dal
destino. Compreso il motto oraziano
del carpe diem: impossibile da far nascere altrove, inconcepibile in qualsiasi altro punto dell'universo. E totalmente spaesato in aria che non fosse
aria romana. A casa solo qui. In quel
"senso eterno del suo non essere".
Era appunto una Roma dall'allure
piranesiana la Roma di Prato. Ma
nell'età adulta della sua prosa civile,
questa Roma era già svanita. Scomparsa sotto i picconi piemontesi. Fatta
fuori da quel dì. Dal momento che "gli
italiani entrorno a Roma". Perché
proprio gli italiani l'avevano via via
intontita sbrecciandone la cinta di
eternità. "Scusa, sai, ma voialtri che
eravate?", domandava la scrittrice al
nonno. Risposta: "Noantri erimo romani". Prato lo raccontava in un dattiloscritto senza data, perso nel tempo
come la sua città, e raccolto oggi in Roma, non altro (Quodlibet, 2022). Perché
non esisteva tarlo più assiduo di Roma nei pensieri della scrittrice, che
dal 1950 al '78 ripercorreva la storia di
un amore ormai spento. Quello fra lo
spazio e il tempo romano. Ormai dannatamente e inversamente proporzionali.
Quando "gli italiani entrorno a Roma", i chilometri iniziarono a mangiarsi i secoli. Lo spazio si cibava del
tempo e l'asfalto fagocitava il verde di
un Campo Vaccino. O quello di una
periferica Piazza Barberini. Il Leviatano in espansione accartocciava i secoli, e l'eternità diventava comica. Ma
la salvezza di Roma si annidava forse
nel suo stesso vizio. Nell'indifferenza
delle statue sonnolente e nella noncuranza di un popolo abituato a tutto. Insensibile e sempre in ritardo. Persino
nel giorno del giudizio universale. Dopo lo smistamento del mondo fra paradiso e inferno, quel popolo - secondo
una leggenda - si aggirava nei paraggi
del Cielo. Serafico, senza fretta, perché "a forza di vedere spettacoli di tutti i generi" era diventato cinico. E una
voce, alla vista di quel gruppo diceva:
"Ho capito, sono romani!". Leggendo
Prato s'intende che è forse in questo
pericolo che nasce e cresce ciò che
salva. E nell'indifferenza delle statue
bianche che ne han viste di tutti i colori. E nella pietra che resiste agli assalti dell'invasore. Inclusi quelli del gatto, bestiola importata dall'Egitto c antesignana delle genti postunitarie ormai padrone della città.
Dolores Prato amava le ghirlande
della Roma pagana almeno quanto le
case medioevali a ridosso di San Pietro (la Spina di Borgo, colpevolmente
sventrata dal Duce). E in questa sintesi perfetta di rose pagane e spine cristiane si fissava, per lei, lo spirito di
Roma. Ancora vivo nella Chiesa mescolata ai templi, con la dea Cibele e
la Madonna a vegliare sul Pantheon...
C'era un unico scopo, dunque, nel
concetto di Roma capitale: soffocarne
l'anima. Perché a Roma tutto aveva
un'anima, per Prato. Persino i bus che
la perdevano. Smettendo di annunciarsi con sigle piene di storia per adottare infine la freddezza dei numeri.
Conformandosi agli standard di un'ordinaria capitale europea. Con l'aritmetica al posto delle humanae litterae. Ma per fortuna Roma era molto
meno accorata di Dolores Prato. E
senz'altro lo è ancor oggi se se ne frega
di chi calca il sampietrino. E se nasconde l'anima in posti inaspettati. A
volte in quei posti che neppure ci
piacciono, A Dolores Prato, per esempio, non piaceva il suo quasi omonimo
quartiere. L'antipapalino Prati, "banale zona della Roma nazionale". E
neppure amava le antipatiche case
parioline, che "hanno tutte le tinte
escluse quelle della città". De gustibus. Ma proprio lassù, per i moderni
sentieri dove fioriscono i limoni, Prato ritrovò il suo mondo. Seguendo un
andirivieni di furtivi popolani, su e
giù per una scaletta. Attirata da quelle profonde invocazioni latine, finì anche lei sottoterra. Nella catacomba di
Sant'Ermete. Là dove etiopi, cinesi e
caucasici-sacerdoti e chierici di tutte
le razze - cantavano all'unisono nella
lingua di Roma. Parecchio fuori dalla
prammatica turistica.