È molto difficile
parlare delle Opere
complete di Learco
Pignagnoli e altre
Opere complete, appena edito da
Quodlibet. Innanzitutto sappiamo molto poco del suo autore.
Come dice la bandella «Learco
Pignagnoli è nato a Campogalliano e a San Giovanni in Persiceto. Lavora presso la ditta Scoppiabigi e figli, dove tiene dietro
al loro lupo». Altre notizie, molto scarne, le possiamo ricavare
da una testimonianza di Daniele Benati, attuale curatore di
queste Opere, che negli anni Novanta, quando collaborava alla
rivista «Il Semplice», le riceveva
per posta, in buste rigorosamente senza mittente, e che in seguito le ha raccolte, catalogate, e ripulite dalle migliaia di apocrifi
che circolano nei circuiti social
o altrove.
La testimonianza di Daniele Benati si riduce ad una precisa descrizione delle buste, di cui fornisce le misure esatte, e della notizia che tutte erano rigorosamente senza mittente.
Storia di una vocazione
A differenza della gran parte degli scrittori italiani contemporanei Pignagnoli si caratterizza
per la sua totale assenza di frequentazione del panorama culturale: non partecipa a eventi
letterari, non rilascia interviste,
non si sa neanche dove abiti.
«Come è stato detto, Learco Pignagnoli brilla di luce propria
nel campo della nostra letteratura contemporanea, perché la
sua presenza corrisponde radiosamente a una massima assenza».
Qualche notizia in più possiamo forse ricavarla da Giacomo/Romanzo autobiografico di
Learco Pignagnoli, dove si parla
del mistero della vocazione e
della sua progressiva manifestazione: «Ci sono dei misteri come la vocazione che non si capiscono. Io ci avevo quarantadue
anni quando la riconobbi e non
ero mica più un ragazzo nel colmo della sua giovinezza poderosa».
Dapprima Giacomo inizia a vedere che mentre girovaga per casa sua si ferma sempre davanti
a un tavolo nella sua camera,
senza capirne il perché, ma ci va
spesso a guardare quel tavolo.
Insieme al tavolo, comincia a
guardare anche una seggiola e
a metterla vicino al tavolo. In
quella casa, un tempo piena di
gente e ormai vuota, adesso ci
sono restati soltanto Giacomo e
la sua vecchia madre.
Un giorno Giacomo decide di
prendere un treno per recarsi
in una città vicina. Appena sceso, essendosi dimenticato a casa la sigarette, cerca con frenesia una tabaccheria. La trova e
appena entrato in negozio vede
una pila di quaderni che gli ricordano l'epoca scolastica, «con
le copertine così nere che sembravano fatte di catrame». Decide di punto in bianco di comprarne uno, anzi ne compra
due. Gli sembra un'insensatezza, ma è felice. Adesso, quando
guarda nella sua camera, vede il
tavolo, la seggiola e i due quaderni.
Tempo dopo, in modo fortunoso, durante una vendemmia
Giacomo riuscirà a rubare anche una matita, una Staedtler
2B. Adesso a casa guarda il suo
mozzicone di matita appoggiato di fianco a uno dei due quaderni e dice: «Veh!». Ma il tempo
continua a passare. Oppure no.
«Due o tre anni dove il tempo faceva solo finta di passare ma
non passava... Due o tre anni
che saranno stati come un secolo per quanto mi riguarda». E
poi anche la madre non c'era
più, dov'era finita sua madre?
«Sembrava che c'ero rimasto solo io, della mia grande famiglia
in quella casa».
E così d'impulso si chiude a
chiave in camera sua, si siede,
prende la matita «E mi tornò alla memoria una certa tipologia
di gente che avevo conosciuto,
il mio compagno di scuola Borlenghi, la Nadia che non avevo
mai dimenticato il lutto, e perfino quel tale Enos giocatore di
calcio. Poi cominciai a scrivere,
fumando tutte le sigarette che
avevo in tasca. Sentivo come
una benedizione che mi pioveva sul collo. Io, lì, seduto su quella seggiola... anche se non ero
buono a scrivere, scrivevo lo
stesso. Stavo lì seduto come se
mi avessero inchiodato. C'era
mica distrazione dalle mie parti, ma giù a rotta di collo a dire
quello che andava detto. A modo mio, senza ricami. Le parole
mi venivano fuori da non so dove, perché ci pensavano loro. Capire i misteri, io che non ci avevo la più pallida idea, lasciavo
che bussassero alla porta mentre che la testa misi riempiva di
parole, e fu così che cominciai a
scrivere».
Giacomo e Learco
Dunque, se la biografia di Pignagnoli coincidesse veramente
con quella di Giacomo, come ci
viene suggerito dal sottotitolo
"romanzo autobiografico" ci
troveremmo alle prese con un
uomo di più quarant'anni, chiuso in casa dalla vita, che un bel
momento, senza averne particolare esperienza, si mette a scrivere come un matto nella speranza di riuscire a risuscitare i
morti e il tempo passato.
Ma la cosa non è così semplice
perché per esempio è sempre lo
stesso Pignagnoli che nell'Opera n. 120 dice: «Tante volte, di
notte, mi chiedevo chi poteva
essere Learco Pignagnoli. Me lo
immaginavo come un venditore di cose al dettaglio, un rappresentante che girava per l'Emilia
fermandosi nelle trattorie a
mezzogiorno, e lì al tavolo, dopo pranzo, in attesa di un Fernet, buttasse giù tre o quattro righe. Non so perché, ma non riesco a vederlo in un altro modo.
Tra le tante cose che ho pensato,
questa è quella che continua a rimanere nella mia mente come
più probabile. Forse perché anch'io, in tempi lontani, ho fatto
la stessa vita, e mi piaceva, di
tanto in tanto, scrivere».
Qui ci troveremmo davanti a
un Pignagnoli rappresentante
di commercio, cioè in giro per il
mondo, o perlomeno per la sua
provincia, e non chiuso in casa,
forse trentenne, o addirittura
ventenne. Ma la cosa più interessante è la differenza nell'atto della scrittura: non più una
specie di rito laico per cercare di
resuscitare i morti, ma la scrittura di tre o quattro righe mentre
si beve un fernet dopo pranzo,
in qualche osteria.
Se continuiamo a leggere con attenzione, il quadro diventa ancora più complicato in quanto
è sempre Pignagnoli che nell'Opera n. 95 ci dice: «Forse fra le cose più patetiche del mondo, anzi, la più patetica di tutte è la
rappresentazione della figura
dello scrittore nei film americani. Nei film americani infatti
gli scrittori vengono sempre
rappresentati come persone di
grande fascino e con una vita
piena di esperienze profonde o
segnata da un grande dolore.
Mentre invece un vero scrittore
fa esperienze solo quando scrive e, se ci riesce, è felice».
Per Pignagnoli non esisterebbero dunque esperienze profonde o grandi dolori a dare sostanza al mestiere di scrivere, ma
non c'è mestiere di scrivere, esiste soltanto la felicità di scrivere, Pignagnoli sarebbe soltanto
quello che Pignagnoli scrive in
modo felice. In questo senso cercare di ricostruire una scarna
biografia di Pignagnoli potrebbe risultare inutile o quasi scorretto, passiamo quindi alle sue
opere.
Temi vari
I temi affrontati da Pignagnoli
nelle sue Opere sono svariati.
Vorrei iniziare da un'opera che
a mio giudizio in un attimo è in
grado di aprirci un mondo:
«Opera n. 40. Il piacere di un tempo, quando al bar di sera si guardava il giornale per vedere che
film davano in provincia, e poi
si partiva in tre o quattro, in
macchina, in mezzo alla nebbia». Ma oltre ai piaceri possiamo trovare anche una continua attenzione alle normali
sventure della vita, come nell'Opera n. 27: «Mi era andato tutto
male, quel giorno, e tornando a
casa avevo anche pestato un rospo». Come si fa a guardare alle
cose? Difficile dirlo. Pignagnoli
percepisce la realtà pura, ma
sembra sempre che la guardi
un po' di sbieco: «Opera n.78. Nella nostra strada c'è un punto in
cui si vedono sempre delle macchine con il cofano alzato, e della gente intorno che ci guarda
dentro», oppure «Opera n. 29. C'era una strada con della gente seduta che bivaccava. A ben guardarli, si vedeva che impugnavano distrattamente dei fucili e
ogni tanto lasciavano partire
un colpo». Anche l'Opera n. 378:
«Le mosche quando volano fanno i quaranta all'ora».
La nostra vita è uno strano tessuto di ritmi e armonie invisibili ma esatte tra i viventi e sé, tra i
viventi e i viventi, e tra i viventi
e il mondo. Mai si può sbagliare
ritmo perché significherebbe
distruggere l'orchestra. Pignagnoli, con infinita leggerezza, è
in grado di vederlo questo ritmo che potremmo chiamare il
grande inconscio tra le cose.
Per esempio, nell'Opera n. 4 dice
«Una sera mio zio Gaetano è tornato a casa dal bar di Marmirolo alle due di notte e ha acceso
la televisione per vedere se davano qualcosa di interessante.
Gli piacevano i programmi con
le donne che ballano, ma quella
sera non c'era niente del genere
e ha continuato a cambiar canale finché non ha trovato la scena di un film dove stavano per
fucilare qualcuno. Allora ha
aspettato che lo fucilassero, poi
ha spento la televisione e è andato a letto».
Ma il tutto, cioè le nostre vite,
stanno anche dentro al linguaggio, perciò bisogna stare attenti
a come lo si usa: «Opera n. 69. Nella mia vita appena ho imparato
che esistevano parole come assurdo e utopistico, non ho mai
fatto altro che usarle. C'è stato
un momento in cui le adoperavo in continuazione e per qualunque tipo di argomento, come se il mio vocabolario si fosse
ridotto a quelle due sole parole
e non ce ne fossero altre per descrivere il mondo che vedevo,
ho detto al dottor Treossi».
In queste Opere potremo trovarci dentro anche tante altre cose,
ma visto che abbiamo parlato
di inconscio, ben coscienti che
l'inconscio è prima di tutto dispettoso, concludiamo con
«Opera n. 408. Non dormivo quasi mai. E le poche volte che ci riuscivo sognavo che non dormivo».