Recensioni / La lezione di Francoforte

Allievo di Adorno ha fatto conoscere il suo pensiero in Italia e lo ha sostenuto discutendo con Cesare Cases l’aspetto apparentemente antilluminista.

Anche se ho conosciuto suo padre Sergio (a cui è dedicato un bel testo in questa raccolta), non ho mai incontrato personalmente Renato Solmi, che ha esattamente la mia stessa età. Tuttavia posso dire che, a più riprese, alcuni dei suoi scritti hanno cambiato la mia vita di architetto.
Naturalmente delle ottocento pagine che raccolgono in questa meritevolissima raccolta di tutti i suoi scritti a cura di Michele Ranchetti (Renato Solmi, Autobiografia documentaria, scritti 1950-2001, Quodlibet, pagg. 836, 60 euro) ne conoscevo solo una piccola parte ed in particolare quelli dedicati alla scuola di Francoforte: a cominciare dall’introduzione a Minima Moralia che ha fatto scoprire nel 1954, almeno al pubblico dei non specialisti come me, le idee di Thoeodor Wiesegrund Adorno (di cui egli è stato allievo a metà degli anni cinquanta) e l'intera importanza della scuola di Francoforte. Infine, otto anni più tardi, la prefazione alla sua traduzione di Angelus Novus di Benjamin.
Negli anni successivi sono andato alla caccia dei suoi testi, sovente di difficile reperimento ma molti di questa raccolta erano a me sconosciuti. Qualche anno fa sono tornato a leggere, in occasione di un testo che stavo scrivendo intorno all'uso della nozione di realismo critico in architettura, la sua traduzione del celebre libro di Lukacs sull'argomento. Né posso dimenticare a questo proposito il suo dibattito con l'amico Cesare Cases (ripreso poi in varie occasioni) a proposito dell'aspetto apparentemente antilluminista di Adorno per i suoi caratteri radicalmente critici; peraltro messi in discussione anche dalla scuola fenomenologica di Enzo Paci.
Al di là di quelli intorno alla Sozialforschung di Francoforte, il volume raccoglie scritti che coprono più di mezzo secolo e sono organizzati cronologicamente, ma anche per argomenti di interesse via via più rilevanti per Renato Solmi, anche se alcuni temo non lo abbandonano mai.
Dai due primi gruppi dedicati prima all'antropologia poi, più accentuatamente, alla politica si passa ad un terzo che è soprattutto connesso al suo lavoro presso la casa editrice Einaudi: scritti su Thomas Mann, su Giaime Pintor, su Norberto Bobbio e sul Disgelo di Ilya Ehrenburg. Poi viene il lungo capitolo dei saggi su Adorno, Benjamin e Marcuse.
Nel capitolo successivo Solmi, diventato professore di liceo, scrive soprattutto sulle condizioni della scuola: a partire dalle esperienze di contestazione del ’68 riguardate con profonda simpatia.  Il penultimo capitolo è intitolato “la nuova sinistra americana, la guerra del Vietnam e lo sviluppo dei movimenti pacifisti”, un pacifismo fondato su convinzioni teoretiche profonde che mi sembra l’atteggiamento dominante anche nei suoi ultimi anni. Infine un’ultima parte contiene una serie di scritti sul proprio passato e ripensa al suo intero percorso intellettuale criticamente, senza rimpianti o smentite. A questi ricordi appartiene,  nella descrizione in uno scritto del 2000 dei suoi anni presso Einaudi, una frase che mi ha colpito per la precisione in cui come generazione mi sono identificato: “Quella polarità – egli scrive – di comunismo e di nichilismo, di solidarietà umana e di disperazione individuale, che anch’io, come molti altri, ritengo, della mia generazione, nati e cresciuti nell’epoca del fascismo e della seconda guerra mondiale, sentivo vivere e agitarsi dentro di me”.
Ho scritto all'inizio che alcuni saggi di Solmi hanno cambiato la mia vita di architetto, ma credo anche abbiano influito sull'atteggiamento generale della mia generazione e voglio schematicamente spiegare perché. Ancor più degli sconvolgimenti portati sulla cultura dall’ottimismo un po’ burocratico della sinistra politica, l'effetto della ragione dialettica del pensiero negativo sul semplificato pensiero teoretico degli architetti fu di importanza decisiva per la comprensione dello scivolamento del progetto moderno in architettura verso una sua interpretazione positivista, interpretazione che accompagnò il dilagare del suo successo dopo il 1950. Il nostro fu, invece, un tentativo di ricollocare il movimento moderno a confronto critico con il contesto e con la tradizione storica della propria disciplina.
Il pensiero della scuola di Francoforte, pur nelle sue interne differenze, assunto come metodo della dialettica della ragione, fu ciò che permise alla mia generazione un’interpretazione dello stato dell’architettura in grado di ripensare, pur senza illusioni, le radici ideali di liberazione che una parte importante della tradizione del moderno in architettura aveva messo in campo: compreso il problema della sua revisione di fronte a nuovi ostacoli.
Proprio di fronte a tali nuovi ostacoli e confusioni il contributo degli scritti di Renato Solmi potrebbe contare ancora molto anche per i destini della mia disciplina oggi.