Recensioni / Lezioni europee. Una civiltà in mille pagine

A differenza di quanto accade per altri insegnamenti («Letteratura latina», «Storia dell'arte moderna»...), che possono essere di per sé molto impegnativi ma almeno sono espliciti sul loro contenuto, lo studente del primo anno di Lettere ha difficoltà a comprendere in cosa consista l'esame di Filologia romanza. In realtà, dietro questo nome vagamente esoterico sï nasconde una materia umanistica che, anche se non studiata nelle scuole, può essere considerata tra le più ricche, interessanti e formative che si possano approfondire. Consiglierei decisamente a qualunque matricola di privilegiare questo corso, ancora prima di decidere l'orientamento dei suoi studi: ne uscirà con la mente allargata.
Rischiando una solenne tirata di orecchie da parte degli specialisti azzardo una definizione della materia: il campo di studi della filologia romanza è la formazione e lo sviluppo della civiltà europea, considerata primariamente dal punto di vista di quel vasto gruppo di lingue sorte come rami dal grande tronco del latino: il romeno, l'italiano, il provenzale, il francese, il catalano, lo spagnolo, il portoghese, con tutte le loro varianti dialettali. Ma visto che per moltissimi secoli (almeno fino alla metà del Settecento) il latino continuò a essere la lingua ufficiale della cultura, dell'esperienza religiosa e del diritto, intorno a questo nucleo (la cosiddetta «Romània») andranno considerati i contributi (spesso decisivi) provenienti da altre identità linguistiche e nazionali: prime fra tutte l'inglese e la tedesca, senza trascurare il mondo slavo.
Il panorama, come si può vedere, è ampio e straordinariamente intricato: la circolazione delle idee e delle forme, la contsuninazione, la memoria del passato sono i motori principali di una civiltà che ha fatto della letteratura, nelle sue innumerevoli forme, l'asse portante della propria identità. Chi si dedica a tali studi ha bisogno di sviluppare simultaneamente due virtù che purtroppo procedono spesso separate: la visione complessiva e il culto del dettaglio significativo. Negli anni Ottanta, quando ero studente (in verità abbastanza scarso) alla facoltà di Lettere di Roma, ho avuto la fortuna di ascoltare le lezioni di un grande luminare della filologia romanza, Aurelio Roncaglia, e del più giovane Roberto Antonelli. Ebbene, è a questi due insigni studiosi che è stata affidata la cura e l'introduzione delle edizioni italiane di quelle che sono universalmente considerate le due Bibbie della filologia romanza.
Nel fatidico 1956 Roncaglia presentò al pubblico italiano Mimesis, l'insuperabile affresco di Erich Auerbach (accolto nel catalogo dell'Einaudi) dedicato alla rappresentazione realistica del mondo. Le incredibili vicende legate alla composizione di questo capolavoro sono state di recente raccontate da Daniel Mendelsohn in un libro molto affascinante, Tre anelli. In originale Mimesis fu pubblicato nel 1946; due anni dopo fu la volta della seconda Bibbia, Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius. La fama e l'autorevolezza di questo libro non sono state mai inferiori a quelle di Mimesis, ma l'assenza di una traduzione italiana fu molto più prolungata. Sicuramente, pesò su questa latitanza (strana per l'editoria italiana, certo non avara di traduzioni) il giudizio negativo di Benedetto Croce, affidato a un saggio velenoso fin dal titolo: Dei filologi «hanno idee». Bisognò aspettare fino al 1992 che Roberto Antonelli potesse infine firmare l'introduzione alla traduzione italiana (uscita per La Nuova Italia), ora ristampata da Quodlibet. Nel febbraio di quell'anno, i 12 Stati fondatori avevano firmato il Trattato di Maastricht, dando inizio effettivo all'Unione Europea, e il grande libro di Curtius, considerato nel suo aspetto di catalogo o regesto delle idee-guida della storia letteraria del continente, poteva sembrare straordinariamente adeguato a un diffuso clima di ottimismo (molto compromesso, va aggiunto, dallo scoppio della guerra nell'ex Jugoslavia e dall'inizio dell'assedio di Sarajevo). Ma forse questa ristampa, trent'anni esatti dopo, in un momento storico in cui i problemi sembrano nettamente prevalere sulle soluzioni, assume un significato ancora più profondo e vitale per tutti noi europei.
Se l'espressione «pozzo di scienza» ha ancora un significato, ben si addice a Ernst Robert Curtius: uno di quei rarissimi ingegni che sembrano non solo aver letto tutti i libri, ma averli anche riletti, e compresi a fondo.
Conservatore di inclinazione liberale, oltre che gran sacerdote della Tradizione, affine a Thomas Mann per molti aspetti, Curtius continuò a lavorare nella Germania nazista (era professore a Bonn), con la disperazione di chi sente il proprio mondo spirituale disgregarsi sotto la pressione di immani barbarie. Alla disperazione, oppose l'unica forza contraria efficace, che è quella del metodo, inteso essenzialmente come lavoro ben fatto. Ma doveva esserci in lui anche una buona dose di visionarietà, o di follia se si preferisce: ingredienti necessari anche solo a concepire un'impresa intellettuale capace di offrire al lettore, in diciotto capitoli e in venticinque appendici, il quadro completo della nostra tradizione, dal dissolversi delle strutture statali e della cultura dell'Impero romano fino all'avvento della civiltà industriale.
Ma come eseguire un tale disegno? È vero che Letteratura europea e Medio Evo latino è un libro di quasi mille pagine, ma è pur sempre, rispetto all'immane quantità del materiale trattato, una sintesi, una miniatura dei fenomeni esposti. E qui entrano in gioco proprio quelle «idee» che secondo alcuni i filologi dovrebbero tenere per sé, o lasciare ai critici e agli studiosi di estetica. Curtius di idee ne aveva fin troppe. E sbaglierebbe di grosso chi considerasse la filologia semplicemente come lo studio dei manoscritti e delle grafie.
La filologia è ben altro: di un dato testo (si tratti della Commedia dantesca o della cronaca di un oscuro monaco dell'epoca carolingia) considera non l'essenza astratta mala vita, ovvero le condizioni e i luoghi in cui è stato copiato, gli ambienti i cui è stato letto e quelli in cui è stato ignorato, le eventuali modalità del suo insegnamento e delle sue interpretazioni. Se esiste una statica della cultura, essa va accompagnata sempre alla sua dinamica, ovvero alla sua accidentata e imprevedibile esistenza nel tempo, ed è questo il campo specifico della filologia.
In Curtius insomma, ed è forse questo l'aspetto più vitale del suo pensiero, l'idea di «trasmissione», con tutte le sue incognite, prevale nettamente su quella, molto più astratta, di «eredità». E questa è già di per sé una profonda concezione morale e civile, perché è troppo facile pensare di essere gli eredi di qualcosa per diritto di nascita e per il semplice fatto di essere venuti dopo.
Gli eredi non fanno nulla per meritarsi ciò che il passato avrebbe accumulato per loro. La trasmissione, al contrario, è un lavoro, soggetto a innumerevoli incertezze e difficoltà: il suo inestimabile vantaggio, per lo storico, è quello di lasciare tracce concrete.
La lettura del libro di Curtius (ritengo preferibile quella da capo a fondo, ma ci si può orientare scegliendo percorsi tra i singoli capitoli) ha il merito di cambiare una volta per tutte le nostre idee su come una determinata epoca legge i testi delle età passate, senza mai vederseli recapitare gratuitamente sulla porta di casa. E per questo che Curtius procede legando strettamente l'evoluzione delle forme letterarie e quella dell'insegnamento scolastico: se la letteratura è trasmissione, scuole e università ne sono il luogo deputato e privilegiato. E se noi oggi siamo abituati a distinguere come nemici mortali la retorica e la poesia, per un'epoca millenaria l'una ha fecondato l'altra, nella ricerca dell'idea capace di esercitare l'influenza più efficace sul lettore: ricerca che accomuna Dante e Goethe a innumerevoli stuoli di scribacchini di cui mai conosceremmo neppure i nomi.
Ovviamente, Curtius non nega l'esistenza del genio, tanto è vero che Dante è l'astro maggiore di tutto il suo sistema, ma lo fa emergere da quell'infinito gioco combinatorio di idee e di forme che è come il collante universale dell'identità europea.
Un aspetto del capolavoro di Curtius al quale bisogna almeno accennare è quello della sua intrinseca, deliberata bellezza. Letteratura europea e Medio Evo latino è un libro appassionante come raramente i romanzi sanno essere, capace di accendere l'immaginazione ad ogni pagina, a ogni frase. A differenza di Auerbach, che scriveva bene ma aveva scarso interesse per la forma complessiva dei suoi testi, Curtius aveva fatto proprio il motto di José Ortega y Gasset: «Un libro di scienza deve essere di scienza; ma deve anche essere un libro».
Che cosa significa esattamente? Quello che forse è sul capitolo più celebre dell'opera di Curtius si intitola Il libro come simbolo: vi si danno convegno, in pagine indimenticabili, Johann Wolfgang von Goethe e Dante Alighieri, William Shakespeare e la Bibbia. Certamente, l'idea che il mondo sia come un libro percorre i secoli contribuendo a quell'unità spirituale che lo studioso tedesco vuole restituire alla nostra coscienza. Ma che il mondo sia come un libro è vero solo se è altrettanto vero il suo contrario, perché un vero libro è a sua volta un mondo: un organismo, vale a dire, dotato di armonia e ricorrenza dei fenomeni, architettura nel senso più ampio e nobile della parola. Se si trattasse solo di accumulare dei dati, accatastandoli uno dietro l'altro come in un calcolo puramente aritmetico, il sapere non sarebbe altro che una forma perversa di ignoranza.
Cresciuto all'ombra di grandi poeti, Curtius capì il rischio vanificatore dell'informe. La mole quasi inconcepibile delle sue letture gli aveva insegnato, prima di ogni altra cosa, che solo le forme sono capaci di durare nel tempo, è che la bellezza non è l'ornamento della conoscenza, ma la sua sostanza e la sua ragion d'essere. Roberto Antonelli, nella sua bella introduzione, azzarda un credibile paragone tra Curtius e l'Italo Calvino delle Lezioni americane; quanto a me, aggiungerei il nome di Jorge Luis Borges. In fondo, anche Letteratura europea e Medio Evo latino è un «libro di sabbia», ovvero un'immagine, un'intuizione simbolica dell'infinito.
Si dirà che sono cose da poeti, non da professori tedeschi. Nella sua vita tenace e operosa, Curtius aveva capito che un buon poeta è pur sempre qualcuno che ha qualcosa da insegnare, e un buon professore qualcuno che sa conferire a ciò che trasmette il soffio vitale della poesia.