Recensioni / Totalità e particolare. Sul Kant di Renato Solmi

Prima pubblicazione dei corsi inediti di Renato Solmi tenuti presso il Liceo scientifico Cattaneo di Torino, il volume, i cui materiali risalgono ai primi anni Ottanta, è in effetti ben più che una serie di lezioni: si tratta in realtà di una monografia completa su Kant, che comincia dalla formazione del suo pensiero nel cosiddetto “periodo pre-critico” per svilupparsi in un commento dettagliato delle tre Critiche.
La Prefazione di Marco Gatto ricostruisce il rapporto di Renato Solmi con la pratica dell’insegnamento e con l’istituzione scolastica, cui converrà guardare al prisma delle pratiche e delle istituzioni dell’edizione e dello “spazio pubblico” militante e ideologico, che Solmi ha attraversato in modo intenso e singolare lungo la sua vita. Possiamo quindi concentrarci, in questa lettura, sulla struttura e sulle poste in gioco di questo volume e del lavoro di Solmi su Kant.

Innanzitutto, è possibile constatare che un tale lavoro eccede largamente le norme del quadro istituzionale cui è destinato: quale possa essere lo scrupolo con cui Solmi ha assolto alle sue funzioni di insegnante liceale, mi pare difficile, anche per un’epoca in cui la familiarità degli allievi con la lettura e con la cultura della civiltà borghese-europea era certo differente da oggi, poter considerare queste Lezioni come un prodotto scolastico riducibile ad un programma e a dei criteri di valutazione. Solmi ha infatti scritto una vera monografia su Kant, ispirata da una lettura sistematica delle opere principali dell’autore: una sistematicità che emerge dalla costruzione stessa del profilo di Kant e dall’organizzazione della materia lungo i differenti capitoli. Si ha quindi a che fare con una lettura filosofica a pieno titolo, e non con un semplice capitolo di storia della filosofia – nella tradizione dell’insegnamento italiano della materia, ispirato dallo storicismo e associato in modo strategico all’insegnamento della storia, questo significa spesso mere dossografia ed erudizione –, né con un’esposizione divulgativa – che, nella suddetta tradizione di matrice neoidealista, tende a ridurre l’autore a ciò che interessa o comprende l’interprete, giusta la ricerca crociana di “ciò che è vivo e ciò che è morto”. Rispetto a questi approcci, derive ben note di un insegnamento ispirato certo da principi non banali (l’esigenza di storicizzare il pensiero e il primato della storia contemporanea…), ma ridotto nella pratica della scuola di massa ad aneddotiche superficiali e ad attualizzazioni selvagge, la ricostruzione sistematica di un autore significa affermarne la consistenza dei concetti e delle argomentazioni, riconoscerne cioè il pensiero come struttura e come processo non riducibili alla storia esterna né all’impressionismo interpretativo. Il criterio sistematico non va però opposto all’interpretazione. Ricostruire un sistema significa scegliere un certo ordine di ragioni, e quindi una certa costruzione, contro altre possibili, il cui principio di differenziazione è in genere dato dal tema o dal nocciolo che si ritiene centrale per l’intelligenza di un autore (o di un’opera). Certo, l’esecuzione della ricostruzione sistematica mostra concretamente che un certo filo conduttore è virtualmente presente nel materiale, e quindi suscettibile di essere reso visibile dall’organizzazione di quest’ultimo. Ma la scelta di privilegiare uno o l’altro filo conduttore tematico non può che essere una decisione dell’interprete, la quale esprime in tal modo un orientamento filosofico determinato. È quindi possibile chiedersi, di fronte a queste Lezioni, quali opzioni abbiano governato la ricostruzione del pensiero kantiano, quale sia dunque, tra i vari Kant possibili, il Kant di Solmi.
Ad un primo sguardo, possiamo constatare che la lettura di Solmi esclude da ruoli sistematici centrali una serie di temi classici nella storia delle interpretazioni kantiane: la differenza fenomeno-Cosa-in-sé, la fondazione della scienza newtoniana, e la temporalità come luogo dell’autoaffezione del soggetto finito. Con ciò, la distanza è presa rispetto alle tre principali letture sistematiche di Kant fino alla prima metà del Novecento, fondate ciascuna su uno di questi temi: l’Idealismo post-fichtiano che tenta di annullare l’alterità della Cosa-in-sé rispetto alla produttività del pensiero, il neokantismo interessato alla costruzione enciclopedica del sistema della scienze e l’esistenzialismo heideggeriano incentrato sul nesso storicità-finitudine. Tre letture che, secondo il filosofo francese Jules Vuillemin, suppongono ciascuna una diversa visione della “svolta copernicana” e quindi una diversa proposta di riorganizzazione del sistema “Kant”. Pare insomma che il Kant di Solmi non corrisponda a nessuna di queste opzioni filosofiche. Quali dunque i principi della lettura, e pertanto del sistema, che troviamo in queste Lezioni? Poiché Solmi non li enuncia esplicitamente, possiamo tentare di riconoscerli attraverso l’analisi di alcune scelte nell’organizzazione del materiale, che possono indicarci su quali assi portanti si edifica il sistema ricostruito dall’interprete. Innanzitutto, nel primo capitolo, dedicato ai tre periodi dell’attività di Kant, subito prima di passare al periodo critico, Solmi avverte che tutto il progetto della critica nasce dalla tensione tra, da un lato, l’esigenza di rigore e di controllo delle affermazioni e delle pretese della mente umana, e, dall’altro, il «bisogno irresistibile di trascendere il mondo dell’esperienza, di condurre a termine l’unificazione e la sintesi organica delle nostre conoscenze, di collocarsi dal punto di vista della totalità». Raggiungere il «punto di vista della totalità», costruito con strumenti concettuali idonei, è quindi l’obiettivo finale del processo critico, in quanto terminus ad quem dello sviluppo intellettuale di Kant: poiché questo punto di vista è innanzitutto evocato come correlato di un «bisogno», possiamo concludere che la totalità non è un dato, ma l’oggetto di una ricerca, la quale orienterà quindi la costruzione kantiana e la sua ricostruzione nelle Lezioni. Un progetto che è forse comparabile a quello della monografia kantiana di Gilles Deleuze, del 1963, per il quale «l’oggetto della ricerca è il sistema kantiano – e anzi, sottolinea come il messaggio kantiano si identifichi con il suo sistema». Quanto allo sviluppo delle posizioni di Kant, è caratterizzato da Solmi, in questo primo capitolo, in un modo che suggerisce già la costruzione successiva della totalità ricercata: Kant approda al periodo critico dopo aver attraversato un periodo dogmatico ed uno scettico. Troviamo qui, nella prima frase delle Lezioni (p. 17), una scansione concettuale – ma anche biografica e storica, poiché Solmi ricorda che, per Kant, la «ragione umana» attraversa queste medesime tappe – nettamente triadica, che ritornerà costantemente, fornendo una matrice decisiva della ricostruzione sistematica: come vedremo, gli schemi a triade ricorrono in tutte le Lezioni nei punti decisivi della lettura, in cui emergono gli orientamenti fondamentali del pensiero kantiano. Solmi attribuisce quindi un ruolo sistematico all’architettura di tale pensiero, e riconosce esplicitamente che quest’attenzione all’«apparato categoriale» (p. 102-103) gli viene dalla lettura di Kant da parte di Hegel, contro l’idealismo italiano (storicista o attualista) ostile alle strutture e incline a compiacersi di una certa indeterminatezza del discorso. Insomma, perché vi sia totalità occorrono delle differenziazioni e delle articolazioni precise in ciò che deve essere totalizzato: che si tratti dello sviluppo di Kant, del suo sistema o dell’insieme delle attività umane. La centralità dell’architettura nell’intelligenza del pensiero di Kant è affermata anche dalla monografia di Deleuze, che si divide in tre capitoli (uno per ogni Critica), inquadrati da un’Introduzione e da una Conclusione, e che, come ricorda Enrico Forni nel suo Saggio introduttivo, «studia la dottrina delle facoltà dell’anima come un sistema di permutazioni» la cui combinatoria riesce a far emergere tutti i temi capitali della riflessione kantiana. Si potrebbe dire che, analogamente, Solmi fa emergere i temi kantiani attraverso un sistema di totalizzazioni i cui due primi termini funzionano come opposti polari di cui il terzo termine organizza e risolve la tensione in seno ad un equilibrio più alto.

Vediamo quindi il funzionamento di queste triadi. Come si è detto, la critica è già il tertium che ricomprende in sé dogmatismo e scetticismo. Il dogmatismo corrisponde alla metafisica scolastica tedesca di Christian Wolff, in cui Kant si è formato, e consiste in un procedimento logico-deduttivo su cui riposa la soluzione di tutti i problemi intorno alla realtà nel senso più ampio del termine. In quanto deduttivismo, la metafisica di Wolff è anche un teoricismo, poiché ogni aspetto della vita umana è ritenuto interamente conoscibile e regolabile da un procedimento logico uniforme e necessario. Lo scetticismo corrisponde all’interesse crescente di Kant per l’empirismo inglese e per Rousseau, che affermano l’autonomia o il primato dell’affettività e l’irriducibilità alla deduzione dell’esperienza singolare, data all’evidenza intima di un soggetto individuale. Attingere il punto di vista critico significa per Kant articolare tra loro, da un lato, l’immediatezza dell’esperienza diretta, pratica ed affettiva, di un reale non logicizzabile, e, dall’altro, la validità e l’universalità delle operazioni dello spirito umano. La critica si interroga dunque sulla tensione tra il valore e il fatto, tra la validità e la genesi, e sulla loro composizione organica nelle attività dell’uomo. Nel secondo capitolo, dedicato alla Critica della ragion pura, la polarità dogmatismo-scetticismo riappare sotto forma di opposizione, nell’ambito della conoscenza, tra razionalismo ed empirismo, e, più precisamente, tra due tipi di giudizio su cui paiono riposare tutte le operazioni conoscitive: i giudizi analitici e i giudizi sintetici. Nei primi, com’è noto, il predicato è interamente contenuto nel soggetto e la conoscenza non fa che sviluppare gli impliciti di una definizione (ciò che corrisponde grossomodo all’ambizione deduttiva del wolffismo); nei secondi, il predicato aggiunge alcunché al soggetto, ma solo nel modo di un’associazione contingente, da cui nessuna conclusione generale potrebbe essere tratta. La sintesi a priori è quindi il luogo geometrico in cui cooperano la novità reale apportata dal predicato e l’universalità-necessità della relazione di questo con il soggetto. Nelle parole di Solmi, nei giudizi sintetici a priori abbiamo l’impressione «di apprendere qualche cosa di nuovo e di diverso, anche se, d’altra parte, abbiamo ugualmente e contemporaneamente l’impressione che le cose non potrebbero stare altrimenti che così». In altri termini, la sintesi a priori riunisce due determinazioni opposte: l’eterogeneità dei termini del giudizio e la «necessità o spontaneità con cui si saldano fra loro come sotto l’azione di una forza ineluttabile». Per descrivere la sintesi a priori, Solmi insiste sulla spontaneità e l’organicità della sua operazione, fino a darne una caratterizzazione quasi vitalista:

L’affermazione secondo la quale “in un punto possono incrociarsi ad angolo retto tre sole rette” non può essere già implicita nell’idea di un punto collocato nello spazio, ma si può formare, per una sorta di crescita organica o di sviluppo generativo paragonabile al modo in cui si espandono i rami o le radici di una pianta, solo sulla base dell’intuizione pura dello spazio […]. Opera una costrizione analoga ad uscire da un determinato concetto per metterlo in rapporto con un altro (senza che quest’ultimo sia già contenuto e implicito in esso) e che questa costrizione si determina in corrispondenza a una legge immanente all’attività o al funzionamento della nostra ragione, e non si può considerare in alcun modo come un effetto o un derivato dell’esperienza.

Se l’empirismo postula un’esperienza dotata di immediatezza e intensità, ma irrimediabilmente contingente, mentre il razionalismo concepisce una necessità razionale obbligante, ma priva di qualunque densità “esistenziale” diretta, nella sintesi a priori la ragione diventa essa stessa una forza produttiva, un conatus tendente all’unificazione del diverso, la cui necessità non è quella di una deduzione, ma quella dell’espressione di un’attività immanente. La conoscenza è quindi un atto vitale, inseparabile dal coinvolgimento diretto del soggetto, e al tempo stesso i suoi risultati possiedono una certezza universale e necessaria, che non è però quella della pura deduzione, ma quella che viene al produttore dal sapere i suoi prodotti essere le forme in cui si esprime la sua potenza immanente.
Mi pare che questa posizione governi anche un’osservazione di Solmi sull’“io penso” in quanto appercezione trascendentale (cioè lo schema formale che accompagna ogni pensiero in quanto attribuibile ad un soggetto pensante): malgrado gli sforzi di Kant per fare dell’“io penso” un’istanza puramente formale, muta quanto alla natura della “cosa-che-pensa”, secondo Solmi «è impossibile eliminare dall’“io penso” ogni riferimento all’esistenza concreta e immediata, all’essere che è direttamente implicito in quel “cogito”». Se “io penso”, allora “io esisto”, anche se ignoro chi sono “io”, e la finitudine dell’io concreto in quanto heideggeriano essere-nel-mondo, il cui contenuto reale è dato dall’esperienza sensibile e dal commercio pratico con le cose, sembra potersi in effetti dedurre dai concetti kantiani, mentre la dissoluzione idealista del mondo nell’atto del pensiero è da scartarsi come conseguenza legittima del criticismo poiché essa elimina il rapporto ineliminabile con l’alterità che è la base della sintesi. L’“io penso” non è l’io empirico, ma lo slittamento dall’uno all’altro «si determina con una necessità automatica e irresistibile». A questo punto, ci si può chiedere, andando oltre la lettera del testo (e di Kant), se sarebbe accettabile definire il rapporto tra “io penso” e io empirico come una forma di sintesi a priori, poiché tra questi due elementi eterogenei il passaggio sembra farsi in nome di un’esigenza irreprimibile del pensiero. Si può intanto osservare che il recupero del tema della finitudine, e, correlativamente, la riaffermazione dell’impossibilità di sopprimere la Cosa-in-sé, dipendono nella ricostruzione sistematica di Solmi dal principio della totalizzazione degli opposti e dalla sua espressione nella sintesi a priori in quanto totalizzazione di dogmatismo e scetticismo, logica ed esperienza, razionalismo ed empirismo.

La conclusione della Critica della ragion pura, cioè la Dialettica trascendentale, è in ogni caso inconcepibile senza il principio dell’insuperabilità della finitudine da parte della conoscenza, poiché vi si tratta dell’esclusione dall’ambito della conoscenza delle Idee della Ragion pura: l’Anima, il Mondo, Dio. Com’è noto, queste entità, che trascendono l’esperienza fenomenica, sono nondimeno accessibili all’essere finito che è l’uomo attraverso una “potenza” diversa da quella conoscitiva, cioè l’agire in quanto determinato dal rapporto alla Legge morale. Nella dimensione pratica, si manifesta di nuovo la tensione, il conatus, verso un orizzonte di totalità in eccesso sui limiti immediati della condizione umana: le idee intorno «alla triplice totalità dei fenomeni dell’esperienza interiore, dei fenomeni del mondo esterno e dell’essere in generale nel suo fondamento ultimo» sorgono nell’uomo in virtù di un bisogno troppo radicato nello spirito per poter essere soppresso. Così, la Critica della ragion pratica tematizza una dimensione dell’uomo che costituisce il secondo dopo la conoscenza esplorata dalla Critica della ragion pura. L’analisi della vita morale appare allora come lo sviluppo di un’opposizione che ripete tanto quella tra razionalismo, empirismo e criticismo, quanto quella tra giudizi analitici, sintetici e sintetici a priori. Le conclusioni della Dialettica trascendentale rappresentano una riproposizione dell’empirismo, in quanto l’esistenza delle totalità espresse dalle Idee della Ragione non può essere dimostrata sulla base della nozione empirista dell’esistenza: «L’esistenza è una posizione assoluta dell’oggetto, che è attestata unicamente ed esclusivamente dall’intuizione sensibile». Di fronte a ciò, il bisogno dello spirito di afferrare queste totalità non sarà soddisfatto restaurando una conoscenza diretta del soprasensibile, come vorrà un certo idealismo, ma opponendo alla conoscenza un’altra facoltà capace di totalizzare ciò che sfugge all’esperienza sensibile.

La Critica della ragion pratica studia quindi la legge morale in quanto facoltà non conoscitiva. Solmi insiste sul fatto che la ricerca del tertium tra l’immediatezza cieca dell’empirismo e la necessità vuota del razionalismo si ripropone anche in seno a quest’opera, il che configura la ricostruzione del sistema kantiano come una triade di triadi. Così è rifiutata la morale fondata su un ideale di perfezione, con argomenti che, nella ricostruzione di Solmi, esprimono di nuovo il valore nel sistema kantiano dell’esistenza concreta in quanto forza espressiva: condizionare la qualità morale dell’agire ad un ideale di perfezione stabilito dalla conoscenza significa che

un ideale di questo genere può essere attuato solo dai dotti, dagli intellettuali o dalle persone colte, mentre la legge morale si impone universalmente a tutti, qualunque sia la loro condizione sociale o il loro grado d’istruzione, con la forza irresistibile di una voce che emana dalla coscienza stessa, e che è l’espressione diretta e immediata della volontà di un essere razionale.

Ancora una volta, la soluzione dell’opposizione risiede nell’idea di un movimento espressivo che si impone in modo ad un tempo spontaneo e necessario: la legge morale deve scaturire dalle profondità del soggetto, e al tempo stesso costituire un’espressione universale, come la sintesi a priori era un atto al tempo stesso immediato e necessario. Ma in cosa consiste l’universalità e necessità di un’espressione non conoscitiva? È qui che interviene la nozione della volontà. Un’azione sarà moralmente buona se la volontà che è alla sua origine si sarà determinata sulla base del principio kantiano dell’imperativo categorico. Tale principio, in quanto criterio di giudizio e fattore determinante dell’azione morale, è ricostruito da Solmi secondo uno schema triadico cui corrispondono le sue tre definizioni in Kant: «Agisci in modo da poter volere che la massima della tua volontà possa valere come principio di una legislazione universale», «Agisci in modo da considerare l’umanità, in te stesso come negli altri, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo», «Agisci in modo che la tua volontà possa considerare sé stessa, attraverso le sue massime, come autrice di una legislazione universale». Solmi insiste sul nesso sistematico di queste tre formule, che ripetono ancora una volta la sintesi tra l’astratto-universale del pensiero e il particolare-contingente dell’esistenza concreta:

Nella prima formula prevale l’elemento della costruzione, o, se così si può dire, dell’autodisciplina della volontà (la sua autonomia è per il momento del tutto nell’ombra), che deve agire unicamente secondo le massime che sono suscettibili di generalizzazione indiscriminata e di applicazione universale in qualsiasi circostanza e da parte di tutti […]; una volta pagato questo duro ma necessario prezzo, il soggetto può acquisire coscienza della propria dignità e del proprio valore assoluto, che lo pone al di sopra del mondo delle cose e gli conferisce dignità di persona (e la seconda formula esprime già questo sentimento di soddisfazione e quasi di liberazione […]); mentre la terza formula tira tutte le conseguenze del fatto che la volontà umana dà le proprie leggi a sé stessa.

In altri termini, la volontà dapprima si conforma al criterio dell’universalità, in seguito si orienta secondo l’esigenza insopprimibile di dignità e di valore che esprimono i fini propri della persona umana, infine si afferma come posizione di fini in se stessi universali. Di nuovo, la triade opera la sintesi tra una tendenza all’unificazione razionale e l’irriducibilità dell’esistenza concreta, concludendosi nella posizione di un atto al tempo stesso razionale e concreto. Nella Critica della ragion pratica, questo schema triadico riappare in modo decisivo nel problema del rapporto tra virtù e felicità. Secondo Kant, il Sommo Bene non può consistere solo nel rispetto puro dell’imperativo categorico (specificato nella serie delle sue tre formule), ma deve implicare anche la ricompensa dell’agire buono attraverso la pienezza della soddisfazione. Ancora una volta, la densità e la materialità della condizione umana si trovano di fronte alle esigenze della purezza razionale: l’imperativo categorico appare come una Legge assoluta il rispetto della quale non può del tutto far tacere la richiesta insopprimibile della felicità. E di nuovo, si tratta di operare una sintesi tra queste due esigenze, che appaiono dapprima eterogenee:

Kant dice che epicurei, stoici ecce., concepivano l’unione di virtù e felicità, in cui consiste il sommo bene, in termini analitici (come se l’una cosa fosse implicita nell’altra e viceversa): mentre quel rapporto deve essere invece concepito, dal punto di vista postcristiano di Kant, in termini sintetici, e cioè come un’addizione di due fattori diversi, di cui il secondo (la felicità) dipende necessariamente dal primo e non è possibile senza di esso, ma il primo può sussistere anche senza il secondo.

L’unione di virtù e felicità è un’aspirazione irresistibile dell’anima umana, che non può accontentarsi del compimento del dovere, ma desidera che ad esso segua una beatitudine impossibile da garantire. Questa aspirazione, al tempo stesso desiderio umano ed esigenza razionale di unità, si traduce nella credenza all’immortalità dell’anima e all’esistenza di Dio: la religione, di cui la conoscenza non poteva dimostrare, né invalidare, i postulati, ricompare come «un prolungamento e un completamento della moralità, procurando una soddisfazione sia pure ipotetica e prospettica a quel bisogno di integrazione della virtù con la felicità».16 Solmi precisa che questa soddisfazione ipotetica non è il presupposto dell’azione morale, orientata dall’imperativo categorico, ma il suo risultato: la sintesi virtù-felicità scaturisce come un sentimento e una credenza irresistibili nell’animo di chi agisce secondo l’imperativo categorico, cioè dell’uomo virtuoso. È quindi l’esperienza concreta del dovere compiuto nelle circostanze sempre particolari e contingenti della vita che fa sorgere in noi il potere di operare la sintesi tra virtù e felicità in quanto credenza nel Regno di Dio, in cui si realizza l’armonia tra la buona volontà e i risultati dell’azione. Come nella prima Critica la conoscenza è un atto di sintesi dei termini eterogenei dell’esperienza, nella seconda Critica la religione è un atto di sintesi dei termini eterogenei della vita morale. Naturalmente, la logica del sistema non può mancare di fare delle due prime Critiche i due poli di un’altra grande triade, di cui la Conoscenza e la Volontà costituiscono i due primi termini. La Critica della ragion pratica si conclude sul ruolo, nella sintesi tra virtù e felicità, di una sorta di sentimento immanente all’agire morale. La terza Critica, quella della capacità di giudizio, è dedicata all’universalità possibile che possiamo ricavare dal sentimento:

La filosofia antica, quella medioevale e anche quella moderna fino all’inizio del Settecento avevano attribuito allo spirito umano due facoltà relativamente ben distinte fra loro: quella teoretica o conoscitiva e quella pratica o deliberativa, l’intelletto e la volontà […]. Nel corso del Settecento comincia a fare la sua apparizione, se si può dir così, una terza facoltà dello spirito, che si colloca, da un lato, fra l’intelletto e la volontà, essendo meno passiva o ricettiva del primo, ma anche meno attiva e dinamica della seconda, e dall’altro, secondo un’altra ripartizione o suddivisione delle facoltà psichiche, che si riferisce soprattutto alla sfera morale, fra la ragione e la sensibilità: e cioè il sentimento.

Solmi si chiede per quale ragione l’opera kantiana dedicata allo studio del sentimento si presenti come una struttura teorica fondata sulla classificazione dei giudizi. La risposta è innanzitutto nel titolo: Kritik der Urtheilskraft, cioè letteralmente della “forza giudicativa”. Ancora una volta, ciò che media tra l’astrazione razionale e l’immediatezza vitale è una specie di dinamismo produttivo, o di slancio creatore, insito nelle profondità dello spirito umano.
Solmi ricorda che nel Saggio sull’intelletto umano di Locke il giudizio è contrapposto alla conoscenza «come una manifestazione dell’attività razionale (o intellettuale) dell’uomo che, pur non potendo pretendere all’esattezza e alla certezza della conoscenza matematica o scientifica, possiede un indiscutibile valore». Il giudizio si applica a conclusioni non dotate di certezza matematica, e tende a coincidere con la ragionevolezza immanente alle pratiche sociali e ai criteri di gusto (il sapere dello storico, del giudice, dell’intenditore o del creatore di opere d’arte, del contemplatore della natura…). Questo tipo di giudizio, che Kant chiama “riflettente” per distinguerlo dal giudizio “determinante” proprio ai saperi esatti, è ancora una volta un’operazione «conforme a una tendenza profondamente radicata nella natura umana», che ci spinge ad apprezzare e a valutare senza possedere la certezza di una regola esplicitabile e pienamente razionale. In altri termini, la Critica della capacità di giudizio studia i prodotti e le operazioni della nostra tendenza a giudicare, non già a partire da una legge generale applicabile a dei casi singoli, ma a partire da casi singoli trattati “come se” esistesse una legge generale. A questo proposito, Solmi osserva che

nell’ambito del giudizio riflettente (e in particolare di quello estetico) l’oggetto o il fenomeno particolare viene ad assumere un interesse, un significato e un’importanza che non gli spettavano in alcun modo nell’ambito della teoria della conoscenza e neppure in quello della dottrina morale […]. Si direbbe che, in questo campo, la vita, che è sempre quella di un singolo individuo o ente particolare, rivendichi imperiosamente i suoi diritti nei confronti dell’universalità impersonale e astratta della legge naturale come di quella morale.

Nell’ultima Critica ha luogo quindi «il riscatto o la redenzione del particolare, che può compiersi solo alla duplice insegna della comprensione della specificità dei fenomeni della vita e del valore autonomo dei prodotti dell’arte». Questa osservazione può fungere da chiave per intendere il significato ultimo della lettura di Kant operata da Solmi. Da cosa il particolare deve essere riscattato o redento? Senza dubbio dall’assorbimento e dalla neutralizzazione entro le strutture logico-razionali: si tratta di un tema tipicamente “francofortese”, il cui indizio è il vocabolario messianico della “redenzione”. Abbiamo visto che, lungo tutta la ricostruzione sistematica dell’opera di Kant, il reale irriducibile al concetto astratto è apparso sotto molteplici figure, ogni volta totalizzate in seno ad una triade dialettica e ad una sintesi con l’esigenza dell’universalità logica: l’empirismo, i giudizi sintetici, l’io empirico, la volontà, i fini della persona, l’esigenza di felicità e infine il sentimento appartengono a tali figure della “vita” concreta che sfugge o resiste alla razionalità universalizzante. In queste brevi frasi di Solmi, però, troviamo qualcos’altro che non una semplice mediazione dialettica tra ragione e vita, universale e particolare: l’universale del concetto appare non più solo come un punto di vista limitato, bisognevole di una mediazione dialettica col suo opposto, ma implicitamente come un’istanza violenta, espropriatrice, da cui il particolare deve essere “salvato” attraverso un’analisi che permetta la sua espressione, non solo con l’universale, ma contro di esso. Solmi dice però che «la Critica del giudizio rappresenta, se si può dir così, il momento della sintesi o della conciliazione finale»; ma per aggiungere subito:

Dato il carattere aperto e non del tutto sistematico della costruzione filosofica di Kant, che susciterà le critiche degli idealisti successivi, non si può dire assolutamente che essa comporti il superamento delle conclusioni raggiunte nelle due opere precedenti.
La sintesi finale, allora, non è affatto, paradossalmente, una sintesi, né una conclusione sistematica, ma un’apertura del sistema aldilà di sé stesso. L’apparizione del particolare può essere quindi vista come un limite estremo del processo di sintesi, e come una sua trasformazione in una logica differente, in cui la totalizzazione dialettica si tende fin quasi al punto di rottura. Ciò è tanto più visibile quanto più anche nella terza Critica Solmi mette in evidenza delle sintesi dialettiche, il cui carattere però tende a restare incompiuto e problematico. Così, nella sfera estetica, sembra prodursi una riconciliazione tra universale e particolare, poiché nel bello «il particolare, il sensibile, diventa, per così dire, la sede e il ricettacolo dell’universale», e tra libertà e necessità, poiché la libertà dell’uomo «sembra riflettersi e compiacersi nella natura esterna, o nell’oggetto che ha creato, sembra riconoscere sé stessa nell’opera che ha di fronte o nell’ambiente che la circonda»; e tuttavia, il bello non è l’ultima parola del sistema, poiché anch’esso, in quanto «redenzione del particolare» in cui questo «acquista un significato e un valore di per sé stesso», è inquietato da un altro rapporto in cui la condizione umana non riesce a risolversi in una sintesi:

Il sentimento del sublime nasce e si sviluppa, secondo Kant […], dalla constatazione, più o meno opprimente e angosciosa, di un divario e di una sproporzione incolmabile fra la natura fuori di noi e la nostra inconsistenza e fragilità costituzionale di esseri umani.

Nel sublime, l’intelligenza e l’attività dell’uomo non riescono a riconoscere nella natura l’impronta della loro potenza di dare forma e ordine alle cose e al divenire. La “vita” dell’uomo è segnata da una sproporzione che la forma universalistica della razionalità concettuale non riesce a racchiudere. Mi pare che, nella ricostruzione di Solmi, la vera conclusione del sistema kantiano risieda nella sintesi mancata del sublime, poiché le restanti analisi sulla finalità della natura e la prova dell’esistenza di Dio non faranno che ribadire il primato del sentimento sulla conoscenza. A partire da questo punto, il processo della totalizzazione si arresta e si fissa in un movimento indefinito tra i due poli della sproporzione.
Solmi però suggerisce, poche pagine prima, un’apertura aldilà del sistema kantiano. Quest’ultimo si chiude sulla precarietà e l’insufficienza delle capacità formatrici e sintetiche dell’uomo di fronte al caos naturale. Con un rovesciamento che ancora una volta non potremo non definire adorniano, Solmi suggerisce che, nel Novecento, la sproporzione che ci opprime non viene da fuori di noi, ma dai nostri propri poteri divenuti ormai incommensurabili rispetto all’esigenza della sintesi e della totalità:

Oggi sappiamo che anche l’umanità, assai più che come un fattore di ordine e di equilibrio, tende o minaccia o rischia di operare come un elemento distruttivo e dissolvente degli equilibri spontanei che si costituiscono […] nel mondo della natura (ciò che sembra comportare addirittura un rovesciamento del rapporto fra i due termini rispetto al […] Settecento).