Recensioni / Illusioni ritrovate: La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, l’esordio di Alberto Ravasio

In un panorama editoriale saturo di pubblicazioni, che per eccesso di titoli in uscita rischiano di soffocare la qualità a discapito della quantità, esistono ancora isole felici.
Scritture radicali, che non hanno paura di guardare in faccia l’abisso, e che si consegnano volentieri agli artigli dei propri demoni: perché la scrittura non è mai terapeutica, come scrive Michele Mari: alcuni scrittori «hanno nell’ossessione non solo il tema principale ma l’ispirazione stessa» e scrivendo «finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano».
Questo è lo spirito che anima la nascita di questa rubrica, dal titolo che rimanda al celebre romanzo di Balzac Illusioni perdute: le vicende di Lucien, aspirante scrittore nella Parigi della prima metà dell’Ottocento, sono lo specchio di una società in cui le aspirazioni di ognuno fanno a pugni con i giochi di potere, gli inganni e le sopraffazioni per svettare sopra gli altri. La ricerca di nuove voci capaci di sorprendere, di raccontare le metamorfosi del tempo in cui viviamo abbagliati da uno schermo luminoso qualunque, perennemente acceso come un faro sulla notte del mondo: gli esordienti e la scrittura, questo è l’ordine del discorso.

«Vallo a capire. Forse a transessualizzarmi è stato l’uso compulsivo del Porno, questo contromondo che ha colonizzato il nostro immaginario erotico, o quantomeno il mio e quello di chi, come me, muore ogni giorno di fame vaginale».
Quanti altri Guglielmo Sputacchiera vivono in mezzo a noi, in molti casi siamo noi senza dirlo mai, responsabili del proprio stato di minorità? Monadi cibernetiche chiuse nella propria autoreferenzialità, prive di porte e di finestre: specchio di una «generazione pigiamata e depressa», distante da tutto, la cui unica cifra caratterizzante sembra l’indifferenza che tutto lega, nell’abisso incommensurabile che separa i figli dai genitori, ereditieri dell’«unica ricchezza reale rimasta, ovvero il risparmio privato».

Alberto Ravasio esordisce con La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera (Quodlibet, 2022), tra i finalisti del Premio Calvino della XXXIV edizione.
Un romanzo che non si limita a raccontare le vicende di uno qualunque degli esponenti del proletariato colto del ventunesimo secolo, ma delinea una più profonda e generale autobiografia generazionale, individuale e collettiva al contempo. Lo Sputacchiera si sveglia e si scopre trasformato, o meglio: transessualizzato. Cos’è successo?: «Il governo ladro, il surriscaldamento globale, un manipolo di ex compagni di scuola ingrati», chi può essere stato la causa di una metamorfosi così radicale? A trent’anni, disoccupato sociale e sessuale, convivente con i propri genitori, Sputacchiera della vulva nutre assoluta devozione, «l’assenza onnipresente, il buco convesso che riempie gli spazi vuoti dell’esistenza». Dipendente dalla pornografia, inetto sociale ma distruttore (solo a parole) di tutto, l’avvenuta trasformazione diviene espediente narrativo per raccontare gli incontri che, lo Sputacchiera – ribattezzato, ora, Carmela Pene –, farà lungo il pellegrinaggio che lo porterà finalmente lontano da casa: gli abitanti del paesello stercoso, psicanaliste ricontadinizzate, amici di vecchia data come Guido Coprofago, la manipolatrice di testicoli dottoressa Casoncelli, sedicenti santoni che preparano intrugli simili al catino dopo il pediluvio, studentesse umanistiche terzomondiste e ricche ereditiere centrosocialare, passando per la madre bipolare e un misterioso personaggio conosciuto in chat che si fa chiamare il Negro.
A scorrerci davanti è un’umanità reietta ridotta in scala, che riproduce vari tipi sociali accomunati dalla devianza dei tempi, dalla stortura dell’esistente, svuotata del futuro e tossicodipendente: dalle droghe legali e dalla pornografia («All’assuefazione artificiale non si accompagnava alcuna esperienza reale, e nonostante Sputacchiera rimanesse vergine, accumulava la conoscenza e dunque il disincanto di un bagascione millenario. Non aveva mai assaggiato, ma ormai era già sazio, e per godere, o anche solo per sopportare il quotidiano, doveva andare sempre più giù, raschiare il fondo del possibile»). Il Porno come inconscio artificiale e collettivo: iperconnessi ogni giorno e a ogni ora, ci si dimentica di vivere appagati da dosi quotidiane sempre più alte di consumo bulimico di immagini che soddisfino i nostri desideri inesauribili, «ma dopo un po’ capisci che sei finito in una sorta di circolo capitalistico, come per il fumo o l’alcol […]. Buffo no? Il destino dell’uomo virtuale poliamoroso è morire sessualmente di overdose pornografica». Come non pensare ad alcuni passaggi di Estensione del dominio della lotta di Michel Houellebecq, di cui lo stesso Ravasio ha curato un bel pezzo apparso per La Balena Bianca in cui ripercorre alcuni dei principali snodi poetici dell’autore francese, quando il liberalismo economico viene accostato a quello sessuale: espressione dilatata di un conflitto esteso e spietato, specchio dello spirito del tempo, in cui alcuni vincono e altri falliscono miseramente nel ciclo riproduttivo di tutte le cose, dove solo la legge del più forte regola l’avvicendarsi di successi e collassi tra le pedine della scacchiera. Ritratto impietoso del Paese, dilatato nella compressione del piccolo paesello stercoso, autentico concentrato di fascismo, machismo, misoginia: «Immune al bacillo della cultura, ripulito e ingrassato dal boom economico ma eternamente mezzadro nella calotta cranica, il paese crede di aver visto tutto perché in fondo non hai mai visto niente, non ha altro obiettivo a parte quello di reiterare se stesso, in un circolo gastrico chiuso, lavoro–casa–chiesa, dove il battesimo coincide con il funerale, la bocca con lo sfintere».

Il primo romanzo di Alberto Ravasio possiede la stessa carica di un detonatore scoppiettante, scritto attraverso un linguaggio pirotecnico e una prosa alticcia, di chi ha alzato un po’ il gomito e dice tutto quello che vuole, e che in altre circostanze si sarebbe preferito tacere, contro il decoro e il politicamente corretto, è il ritorno a un’ estetica letteraria sofisticata e densa di contenuti: dall’analisi impietosa della condizione della scuola e dell’università («Ora che tutti l’avevano, la laurea non bastava più, occorreva rafforzarla con specialistiche all’estero, viaggi di studio, conoscenza delle lingue esotiche, tutte integrazioni che facevano rientrare dalla finestra quel che la massificazione aveva cercato di cacciare dalla porta, vale a dire il classismo insito nell’esperienza universitaria. La laurea di oggi era la quinta elementare del popolo primonovecentesco»); alla pornografia e la solitudine come conseguenza del progressivo isolamento individuale informatico; alla crisi delle identità di genere passando al rapporto con la famiglia, la religione, l’impotenza sentimentale e sessuale. Un testo talmente carico che chiede di essere sottolineato a ogni frase, data la densità dei contenuti che veicola e le modalità espressive con cui sono rese, e il tutto che risuona come una lapidaria sentenza definitiva sulla generazione della crisi, guinzagliata al cordone ombelicale della dipendenza economica. Ma è anche un ritratto impietoso della generazione precedente, descritta come «calciomane», «ipervirile», «giovanilista», anch’essa attratta dalle gioie obnubilanti del telefono cellulare, con il risultato di una comunicazione che gradualmente si va sempre più assottigliando. Come nel ritratto della madre, sorta di sintesi di una visione della donna–casalinga che con la scusa «dell’allucinazione collettiva femminile chiamata polvere» sembra ritirarsi dal mondo per adempiere le proprie funzioni domestiche. Il microcosmo del paesello, così come del mondo interiore di Sputacchiera–Pene, diviene chiave di lettura di più fenomeni estesi al macrocosmo della società liquida e di mercato, una nazione come gli autobus in perenne ritardo, e un’umanità diventata irredimibile, ormai prossima al collasso generale, priva di vita interiore, incapace di dare forma alle proprie emozioni, ostaggio di un «analfabetismo emotivo» totale.
Una lingua beffarda, tagliente, a volte cinica e spietata, dove anche nel finale osceno – secondo l’etimo originale della stessa parola porno – non risparmia veramente nessuno, e il padre del protagonista è lo sfondo di uno scontro più antico, primordiale e metafisico. In meno di duecento pagine scorrono i personaggi della commedia umana rappresentata da Ravasio e attraverso le loro voci distinguiamo un’idea nitida e cristallina di letteratura che vorremmo leggere sempre di più: «In pochissimi sono venuti al mondo nel fango e hanno saputo, dal nulla, conquistarsi una lingua. La letteratura è un’arte poveraccia, che non richiede soldi, titoli e neanche sanità mentale, e può venire da chiunque e da qualunque luogo», perché è soltanto scrivendo che diventa possibile «trasformare in consapevolezza il dolore».

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