Vincitore della XXXIV
edizione del premio
Italo Calvino, La
vita sessuale di Guglielmo
Sputacchiera
di Alberto Ravasio.
da Quodlibet, è un piccolo capolavoro
della letteratura italiana contemporanea: appena 160 pagine
per unviaggio kafkiano, ma anche picaresco e fantozziano, all'interno
della transessualizzazione
di Guglielmo Sputacchiera, un
protagonista che è al tempo stesso
eroe e propria nemesi, all'interno
di un romanzo che l'autore definisce
di «de-formazione», paradigmatico
e simbolico. Un tono
ironico e alto, o «alticcio», come lo
definisce l'autore, rende la lettura
entusiasmante e accattivante a
ogni capoverso.
La trama
Pornodipendente, ritirato sociale
e sessuale, Sputacchiera è il perfetto
prototipo del fallito: tra la sua
collezione di insuccessi ne vanta di tutti i tipi, da quelli universitari
e lavorativi a quelli con le donne, iniziati già in età puerile. A
trent'anni suonati vive ancora con i genitori, ovvero una madre
«bipolare monoteista» e un padre «ammaccalamiere arricchito» e
«timorato bestemmiatore».
Un mattino d'agosto Guglielmo
Sputacchiera si trova a fare una terribile scoperta. Svegliandosi intento a «poppare il suo stesso capezzolo», si accorge di essersi trasformato
in donna. Lui, proprio
lui che le donne hanno sempre allontanato
e disprezzato, è ora vittima
della più spietata transessualizzazione.
Comincia, così, il pellegrinaggio
del protagonista (ora nei panni di
Carmela Pene), un cammino di
formazione che lo porterà a interrogarsi
sulla vita e sul significato della parola uomo.
Lungo la via incontrerà, infatti,
una serie di bizzarre figure del panorama
italiano, come Il parentume ciucciaostie, il santone di famiglia e gli anici coprofagici,
ognuna intenta a fornire una propria
versione dell'avvenuta transessualizzazione.
Nel romanzo, sin da subito, entra in gioco il tema della sessualità e
dell'identità di genere maschile, nonché il rapporto con una mascolinità in crisi, spesso ingombrante
nel secolo delle rivendicazioni
femministe. La transessualizzazione in donna, se da una parte
rappresenta per Sputacchiera
“la paura dell'umiliazione virile,
derivante dagli stereotipi patriarcali”,dall'altra è come un dolce abbraccio,
un ricongiungimento altrimenti impossibile con il femminile.
«Da te ho imparato che uomo non si nasce né si diventa, ma
uomo si recita, giorno dopo giorno,
rinunciando all'emotività, alla
comunicazione (...) non svelandosi
mai, nemmeno a sé stessi, per tenere su la famiglia», scrive
Sputacchiera al padre, non arrabbiato,
ma intenerito per una virilità che si rende conto essere come
«una roccia delicata, friabile e disperatamente
cava».
Le figure femminili che Sputacchiera
incontra nella sua vita, fatta eccezione
per la madre, sono risolute e irremovibili, alle prese con un processo di liberazione
sessuale e sociale che le rende epifanie
fugaci, creature sfuggenti agli occhi del maschile. Sono donne
che vanno di fretta, che non hanno né tempo né pazienza di
stare appresso agli uomini, come
quella volta che aveva trovato il coraggio di scrivere un sms alla
sua amata, Amelia, dove recitava:
«Sono vergine, ma ti amo», e lei gli
aveva risposto «Tesoro caro, sei dolce, ma in questo periodo mi
sento lesbica». O come quella psicologa
che l'aveva assecondato
«mossa da un sentimento di pietà», perché Sputacchiera le sembrava solo «un tipo di folle innocuo
».
L'unico rifugio alla paura del dialogo
con l'altro sesso è il porno, il luogo dove Sputacchiera può sperimentare
artificialmente i propri
gusti sessuali e dare libero sfogo alle proprie fantasie. A questo consegue, perciò, un paradosso
singolare: la sterminata conoscenza
in materia non è accompagnata
da alcuna esperienza pratica. Così. come molti suoi coetanei,
Sputacchiera «non aveva mai assaggiato,
ma ormai era già sazio». È una condizione definitiva, che non lascia scampo, e che, nella sua ultima tappa, porta addirittura alla mutazione, ovvero alla separazione
di corpo e desiderio: «Quando Sputacchiera perse l'uso
desiderativo del corpo e si dimenticò
persino di com'era fatto, perché
il suo unico specchio era lo schermo, si scelse un'altra pelle
con cui continuare a esplorare quel continente sperduto. A questo punto non solo il Porno aveva guardato dentro di lui, ma era entrato
dentro di lui e lo aveva mutato: il Porno era lui, era diventato il
Porno».
Un manifesto generazionale
Sputacchiera diventa allora emblema,
simbolo per aprire a una più ampia riflessione generazionale,
che vuole porre l'accento sulla
condizione dei giovani d'oggi, «disoccupati sociali e sessuali»,
vittime della disumanizzante digitalizzazione,
della sessualità e
dei rapporti affettivi, un gregge di «pigiamati e depressi».
Il racconto, con un finale che ha
dell'inimmaginabile, si conclude con la lettera di Sputacchiera al
padre, un lascito frustrato, ma al
tempo stesso commovente, di un
figlio che parla la voce di tutti i
giovani italiani, una generazione
a cui «per la prima volta nella storia
i padri mangiano completamente
il futuro», «fottendoli in
ogni senso».
Quello di Sputacchiera è il grido nichilista di chi ha perso le speranze che la cultura possa fare ancora
la differenza nel nostro paese
e nel nostro mondo. «Di non più tanto giovani, mantenuti dai
genitori come adolescenti, che
non studiano e non lavorano da
anni, ce ne sono molti, troppi», scrive Ravasio.
Ë un esercito di laureati dati in pasto
al mercato del lavoro, precari per lo più nullatenenti. Giovani
che sguazzano nell'individualismo
«straccione» di un mondo dove ci si racconta la beffarda bugia che «il successo di poche eccellenze
sia una prova sufficiente della
democraticità del sistema». La
massificazione dell'istruzione
universitaria, nel fallace tentativo
di abbattere le diseguaglianze
sociali, non ha fatto altro che trasformare
la laurea in un pezzo di
carta straccia, accessibile a tutti e,
per questo, insufficiente a garantire alcun tipo di sicurezza. Gli
Sputacchiera d'Italia, come afferma
Ravasio, sono una generazione
«perduta in partenza, sin dall'utero». E nonostante quello dell'autore sia solo un racconto rocambolesco,
ci restituisce l'immagine
di un paese più reale che mai, dove, dopo Turchia, Montenegro e
Macedonia, c'è il maggior tasso di
Neet, ovvero Not in employment,
education or training, d'Europa
(circa tre milioni nella fascia d'età 17-34 anni, secondo i dati Istat del
2020).