Recensioni / LETTURE/ L’intimo e l’estraneo: vicissitudini e ragioni dello spazio interiore

Che la filosofia, a partire dal suo primo apparire nella Grecia antica, si sia modulata come insieme di domande intorno all’identità, intorno al chi e al che cosa del mondo e di quanto contiene, è sicuramente cosa nota. Che dietro e dentro il domandare della filosofia fosse celata la domanda sul chi o cosa fosse che domandava, vale a dire l’uomo, è cosa altrettanto nota. Le risposte a tali domande prodotte nel corso dei secoli, risposte mai scontate e difficilmente semplificabili, non appartengono semplicemente a un passato che sarebbe dietro di noi e che costituirebbe quanto chiamiamo tradizione: le risposte parlano ancora e chiedono di essere interrogate.
Si viene dunque a creare un interessante e curioso cortocircuito, perché il filosofo che le interroga, dal momento che riguardano l’uomo e la sua identità, non può fare a meno di interrogarsi sul proprio interrogare, mettersi in discussione su quanto anima le sue ricerche, sdoppiare i suoi percorsi come riflettendoli in uno specchio.

Il libro di Luigi A. Manfreda dal titolo L’intimo e l’estraneo. Scrittura e composizione di sé (Quodlibet 2021) propone un vasto e originale itinerario dentro il rifrangersi e rinviarsi delle domande e delle risposte che l’uomo ha elaborato intorno alla propria natura, e tale itinerario si sviluppa proprio intorno alla coppia intimità/estraneità che intitola il volume. Nonostante l’apparente opposizione la coppia intimità/estraneità si mostra nel lavoro di Manfreda come un’endiadi, vale a dire come una figura in cui due parole disgiunte sono in realtà l’una il complemento dell’altra.

Attraverso raffinatissimi percorsi che muovono dall’antichità classica (con il centrale ruolo giocato dalla tragedie greche) e, dopo aver incontrato Montaigne, Pascal, Rousseau, Sade, Hegel, Nietzsche (solo per citare alcuni nomi che non esauriscono quelli presenti nell’opera), Manfreda approda alla contemporaneità e, in particolare, all’amato poeta Rilke. L’autore mette alla prova una idea (e ideale) di “spazio interiore” sempre alla ricerca di una forma (che si tratti di filosofia, di letteratura, ma anche di pittura o di scultura) che sia in grado di superare la forma di una mera rappresentazione.

Così, dunque, le pagine in cui viene tratteggiata l’inafferrabile figura del daimon (demone) elaborata in Grecia (basti pensare a Socrate), mostrano come tale figura non sia scindibile dal compito di dire l'”individualità”, e come dunque il demone sia, in un certo senso, l’ombra che istituisce un rapporto necessario fra un destino personale e un destino cosmico. Nell’idea di daimon, inteso di volta in volta come potenza interna ed esterna all’anima, convergono l’idea di carattere, del destino personale, e di quello cosmico: il daimon intreccerà, fino ad identificarsi, con il problema dell’origine della stessa coscienza (p. 20).

Nel libro di Manfreda sono splendide le pagine dedicate a Hegel e alla questione del formarsi della coscienza che si intreccia con la questione del formarsi dell’oggetto: la questione dell’oggetto, infatti, cioè la verità della cosa, consiste nell’universale. Il sapere della cosa, dell’oggetto, muove dalla certezza sensibile, ma tale certezza è nell’oggetto? E ancora: l’oggetto è mio o piuttosto lo ritengo come mio? L’implacabile ragionamento hegeliano giunge alla conclusione che l’oggetto sembra tale perché io ho un sapere su di esso. Ma chi o che cosa è questo io? L’adesso, il qui e l’ora della singolarità consentono alla vacuità dell’universale perché, come l’autore chiarisce, “certo intendo dire un Io singolo, ma tuttavia dicendo questo singolo Io dico ogni Io in generale”.

Ecco allora che, a differenza di tanta scolastica affrettata intorno a Hegel, Manfreda sostiene che il filosofo tedesco non è polemico contro la coscienza dell’unicità da parte dell’io, ma ritiene piuttosto che su questa base non sia possibile edificare un sapere (p. 41). Detto altrimenti se si rimane sulla base del puro linguaggio si rimane nell’aporia. L’esperienza originaria del proprio sé è spettrale. L’esperienza originaria del proprio sé è una evidenza, ma uno scarto implica uno scomparire. la coscienza fenomenologica scopre, al fondo di sé, che la certezza sensibile, contrariamente alle apparenze, non può fondare in nessun modo un sapere. Nessuna scienza può auto-fondarsi, perché il suo vivere è tale in quanto anche tolto. Come gran parte della cultura romantica, Hegel contesta un potere universale della scienza. Una scienza è tale in quanto ospita un originario segreto interiore e pone la necessità di un “sacrificio” dell’Io in cui, seppure accolto nella comunità linguistica, seppure passato nell’esteriorità del linguaggio, l’Io va a fondo, svanisce.

Nel mio parlare, nel mio sapere emerge o, meglio, lampeggia il perduto di un proprio che non può essere dominato dalla filosofia, anche la più esigente. La necessità del sacrificio affinché si dia accesso al senso, porta in sé una lacerazione e mostra i segni di una resistenza che, seppure in mutate condizioni storico-culturali, presenta i tratti dell’uomo tragico antico in lotta contro il destino.