Il libro di Fabio Moliterni raccoglie diversi articoli apparsi in volume o in rivista
tra il 2006 e il 2020 e che accompagnano il lettore nel paesaggio multiforme della
poesia italiana degli ultimi decenni. La conoscenza approfondita di questo
paesaggio da parte dell’autore gli permette di spiegare con simpatia poetiche che
procedono a volte in direzioni opposte. I saggi sono di taglio metodologico
variegato, tuttavia alcune piste interpretative si stagliano con chiarezza; esse
scaturiscono dalla costatazione che “i poeti da me convocati [...] partono tutti da
un’istanza tipicamente modernista, la coscienza di una rottura irreparabile dei
legami tra linguaggio, esperienza e verità che si consuma nei primi decenni del
Novecento” (12) e che però “considerano la parola poetica come lo strumento di
una inesausta quête conoscitiva [...] che non si arrende né al nichilismo né alle
metafisiche dell’inesprimibile e del silenzio” (12-13).
Moliterni concede spazio a poeti che considera estranei alle tendenze
principali della letteratura del XX secolo, come Girolamo Comi. La sua poesia
nasce dalla fede che esista un’“armonia prestabilita” da celebrare, dalla
“categorica certezza [...] che il poeta ha della presenza ininterrotta di Dio”
(citazioni di Comi, qui a 33); essa “sembra crescere al riparo dalla crisi dei
fondamenti o della consapevolezza paralizzante dell’insufficienza conoscitiva del
linguaggio lirico” (32) e si intende come una “poesia orfica o innica” (36); aperta
a ciò che trascende l’uomo, essa non è interessata “allo scavo privato” (32). L’io
tende a scomparire e il soggetto lirico “diventa sempre più spersonalizzato e
impersonale” (37).
Il saggio sulla poesia di Comi è da considerare come introduttivo, quasi una
premessa per chi desideri comprovarne sui singoli testi le affermazioni; in altri
capitoli del libro, i più stimolanti, Moliterni approfondisce, via l’analisi testuale,
singole poesie, così nelsaggio sul Frammento LI di Rebora, in cui Moliterniscrive
che “LI costituisce una di quelle pause ragionative di segno negativo, un ostacolo,
un ‘residuo’ o una ‘battuta d’arresto’ che Fortini definiva (à la Rebora) [...]. La
natura si staglia nel Fr. LI in tutta la sua negativa inafferrabilità [...]
l’attraversamento del paesaggio si risolve in un accumulo indifferenziato di
frammenti visivi e uditivi” (20). In questo senso, il Frammento LI è esemplare
delle tendenze che Moliterni aveva definito nell’introduzione, quelle di una poesia
novecentesca italiana che non aspira a essere unitaria e al contempo persegue la
ricerca della comprensione di frammenti di realtà. Sia nell’ambito narrativo che
in quello della poesia, la letteratura italiana del XX secolo è di qualità grazie agli autori che “con la realtà hanno voluto continuare a confrontarsi”, aveva scritto
Onofri (Il sospetto della realtà, Cava de’ Tirreni: Avagliano, 2004, 6).
Una tendenza dominante della poesia novecentesca è quella anticlassica, a
volte espressa via un ricupero consapevole del periodo barocco, considerato per
esempio da Vittorio Bodini come innovatore, come una rivolta positiva, spiega
Moliterni. Bodini, che valutava nocivo per la poesia italiana avere mancato una
fase surrealista (45), pensava che necessaria alla poesia fosse “‘la fede in una
missione di conoscenza. Se tutto è già noto, alle spalle e di fronte a noi, dove
andare? Seguitare a fare atto di presenza?’” (cit. a 43). La fede nella poesia va
conservata anche di fronte ai dubbi sull’umanità, così Anceschi, su cui Moliterni
si sofferma individuando alcune differenze tra il suo approccio alla poesia e quello
di Bodini, si domandava in Le poetiche del Novecento in Italia (Venezia: Marsilio,
1990) come potesse diventare la poesia del XX secolo dopo che “l’uomo ha
avvertito se stesso come escluso dai miti e dalle speranze” (112).
La fede nella poesia non si esaurisce neppure quando essa sposta i confini
delle sue perlustrazioni interrogandosi sull’estensione del rappresentabile; lo si
costata leggendo il lungo saggio del 2006 sulle “Poesie (postume) degli anni
Zero” (137-72), in cui Moliterni scrive che nelle poesie di Viviani, Benzoni e De
Angelis prevalgono “il mutare delle scene, l’intensa mobilità e articolazione
formale, l’irruzione di voci provenienti da altre dimensioni—la spinta allocutoria
ai limiti dell’irrappresentabile” (171).
Uno dei capitoli più degni di rilievo è quello dedicato a “‘Questo trepido
vivere nei morti’. Una Stimmung dantesca nell’opera di Vittorio Sereni” (81-107).
La poesia di Sereni, nella sua prima fase segnata da motivi stilistici ermetici, non
è frenata da costrizioni ideologiche (90). Già nell’“Introduzione” del 1966 a
Poesie scelte (1935-1965) (Milano: Mondadori, 1973), Caretti scrisse che Sereni,
“non confortato da speranze metafisiche, né illuso da ideologie profetiche”, era
“legato fedelmente e appassionatamente alle figure e agli oggetti umani” (ix),
sempre radicato nel presente. Sulla distanza di Sereni dalle ideologie ci si può
riferire al capitolo del libro di Moliterni “‘Vincendo i venti nemici’: sul carteggio
Roversi-Sereni” (109-19, 112). L’analisi della poesia Non sa più nulla, è alto sulle
ali, tratta dal Diario d’Algeria (1947), mostra che il suo significato “inizia a
disporsi come allegoria universale o impersonale [...]: un’allegoria negativa che
comunque viene collocata in un tempo storico e individuale ben riconoscibile” e
che si accompagna a una “resistenza stoica” (95) espressa in un classicismo
stilistico connotato da una ripresa di allusioni e stilemi danteschi.
Un altro dei tratti comuni alla parte maggiore dei poeti trattati in questo
volume è, come a proposito di Sereni scrive Mazzoni, citato da Moliterni, la
“volontà [...] di continuare a riproporre i valori dell’humanitas in un contesto che
li rende paradossali e li smentisce” (97). In campo letterario e culturale i valori
dell’humanitas non si possono disgiungere, dalla prospettiva del poeta, dal
confronto con le forme della tradizione letteraria e, dalla prospettiva del critico,
da un’analisi che oltrepassi il livello dei contenuti, per cui il capitolo meno
interessante del volume è quello dedicato alla poesia di Fortini, non perché Fortini
non sia un poeta, anche in questo senso, umanista (nel testo “Che cos’è la
poesia?”, Enciclopedia Multimediale delle scienze filosofiche in rete, 8.5.1993,
Fortini dichiarava che la poesia per essere riuscita deve essere consapevole della
tradizione e della propria “collocazione nella realtà di oggi”), ma perché Moliterni
ha in questo capitolo deciso di concentrare la sua attenzione quasi esclusivamente
sui contenuti dei suoi testi.
Concludono il volume un saggio su “La poesia (e la prosa) di Andrea Inglese”
(181-91) e uno su Enrico Testa, nella cui poesia Moliterni considera essenziale
un’“identità ‘sdoppiata’,” la presenza di un “soggetto ‘solo’, ‘isolato’ [...], che
tuttavia viene attraversato da voci plurali” (175), anche se i dialoghi inscenatisono
“spesso mancati e sospesi” (176). Formalmente, a causa anche dell’assenza di una
maiuscola all’inizio dei testi e, spesso, della punteggiatura, si mostra un discorso
continuo, “senza origine né fine” (176). Testa è citato sovente nel libro anche
come critico e scrivendo della poesia di Sereni ha alluso “agli scomparsi, ai
futuri... agli altri,” spiegando che “solo quando altri parlano in noi, c’è speranza
che altri ci ascoltino” (cit. a 106); un’osservazione che riassume bene la
disponibilità di molti dei poeti studiati in questo bel volume, spesso loro stessi
critici e promotori di poesia, a interagire con altre voci poetiche contemporanee e
passate.