Recensioni / La civiltà di Bagnoregno è la nostra letteratura

Trovare uno studioso capace con la sua scrittura di rivelare una nuova strada letteraria è cosa assai rara e faticosa. Ma ancora più insolito è trovare uno scrittore contento di non nascondersi dietro a facili voghe, pronto ad affrontare la realtà stritolando con una tenera retorica la nostra vuota ipocrisia, capace di affermare il nostro bisogno di resistenza e di fragilità su cui innalzare, viva, la nostra operosa coscienza. Giovanni Attili, con il suo Civita: senza aggettivi e senza altre specificazioni (Quodlibet, 2021), è innegabilmente riuscito in quest’impresa, apparendo non soltanto per il fine studioso che è, ma per essersi presentato ai nostri occhi come un nuovo scrittore.

Attili ricostruisce in maniera esemplare, come evidenziato da Giorgio Agamben nella prefazione del libro, la storia di una Città che solo inizialmente dovremmo pensare come Civita di Bagnoregio e che, ben presto, diviene il paradigma triste della nostra incoscienza di luogo, e perciò il punto di partenza per la comprensione della nostra storia. A Civita, nata tra terre matrigne, il tempo della vita ha finito per coincidere con quello della sua fine, eppure, proprio in questo canto è originata una bellezza alessandrina, naturalmente instabile e mai decadente, capace di splendere in penombra come una poesia, in cui l’assoluta bellezza che «condanna al silenzio e alla vertigine» nella fragilità – come fosse un verso zoppo – trae la sua forza e non la debolezza, ricordandoci al contrario come sia proprio nel silenzio e nell’instabilità che origina lo stupore del mondo: il «soprasensibile».

Eppure, come uomini disabituati all’immaginario, abbiamo noi lottato contro draghi malvagi per ancorare il destino delle nostre città alla loro più neutra commercializzazione, che vale un po’ come asettica necessità di significato, come nuovo prodotto, quasi fosse la parafrasi di una poesia etrusca di cui non abbiamo assimilato neppure l’alfabeto. Non abbiamo mai compreso che anche dietro a una via sono velati i sogni di un bambino, credendo che il cemento potesse rendere più solidi i nostri desideri non abbiamo mai saputo che per le civiltà (e quindi per le letterature) è semmai il tufo sbriciolato a rendere solidi i destini degli uomini. Davanti alla grandezza di queste città costruite (e prima ancora pensate) in penombra, dovremmo lasciare la narrazione alle grida del popolo, ai loro rituali stravaganti, ed è quanto Attili, reverente, riconosce e cerca di fare, contrapponendosi alla narrazione semplicistica che ha fatto piuttosto della città in questione l’etichetta vendibile della decadenza, della museificazione, di un urbano congenito anche al cittadino che sceglie di tornare alla campagna.

Ed è così che la narrazione di questa terra, tanto polverosa quanto fragile, rimbomba in una esposizione che rimanda alle descrizioni di Aliano. A quelle realtà che la politica non aveva voluto comprendere ieri e che oggi partecipa a svendere in vuoti composti totemici; innalzando, parallele, infinite realtà di contorno che contribuiscono soltanto a snaturare l’interno vivo di un borgo. Così, ciò che finiamo per compiangere oggi non è tanto una «città che muore» ma il compianto stesso. Oggi, a Civita, non è tempo del futuro ma tempo del passato, e quella città splendente che abbiamo provato a salvare è la luce di una stella già morta, l’abbaglio sfocato di una foto turistica lasciata ormai a futura memoria.

Dobbiamo allora essere grati ad Attili per aver riconosciuto quella bellezza ancora nascosta nei «troni di tufo», nella necessità di mantenere vive le tante «geografie sonore famigliari», affermando l’esigenza di un genius loci capace di contrapporsi naturalmente al mondo del consumo. Un mondo che rende possibile l’acquisto della totalità degli immobili da parte di progettisti e architetti che si dimostrano essere piuttosto fondi di investimento, quel mondo che uccide i dialetti e le tradizioni popolari con la stessa facilità con cui propone una calamita o un biglietto di ingresso alla città, rincorrendo la fame del successo e spegnendo l’anima della terra quasi fosse un piccolo Calcifer in un castello errante. L’operazione di Attili è così una pratica di resistenza: poetica nel suo senso politico e perciò politica nella sua accezione letteraria.

La voce di Zia Luisa, che Attili registra e riporta, come un rigoroso etno-antropologo, inseguendo i segni di una nuova microstoria, è del resto più importante di ogni discorso elettorale, più necessaria di ogni promessa di felicità colonizzante, ed esprime meglio di altro il disagio di questa civiltà dell’abbandono. La memoria orale non è soltanto la trama storica di un territorio ma la possibilità di affermare una letteratura, il fare sacro, il produrre mito. Non è sbagliato asserire che tra mito e realtà passano generazioni di uomini in sella a dei muli o – come nel caso di Civita – a dorso di asini. Uomini che abitano le realtà locali quali veri testimoni, capaci di affermare quanto il mondo chiama, con troppa facilità, letteratura.

Se lasceremo abbandonare le nostre terre imponendo città di biglietti, se faremo spegnere i canti del gallo di notte (e non solo al mattino), se confonderemo i dialetti perdendo di vista le speranze e le sapienze popolari, imponendo una civiltà della cura e non piuttosto della fragilità (che imporrebbe al contrario un esercizio continuo di pensiero), finiremo ben presto per non scrivere più alcun libro, ovvero, per distruggere la nostra Civita, la nostra ultima civiltà. La letteratura e la cultura popolare esistono da sempre in uno stesso luogo, ed esistono nelle terre scoscese, magari di tufo, tra crinali in penombra. Poiché come la fragilità, la minuscola e l’accapo sono i primi valori della letteratura, essi sono anche i termini su cui si fonda una civiltà. Ed è per questo che l’unica «residenza eccellente» rimarrà per sempre una vecchia stalla e l’alterazione della forma di una città equivarrà sempre a un turbamento dello stile.

Concludendo, se tra città e letteratura esiste una naturale sovrapposizione, questa non permetterebbe mai di pensare uno spazio diversamente dalla sua origine, imponendo, al contrario, la necessità di un prima e di un dopo, di un rapporto simmetrico con il territorio. Attili, come Bonaventura di Bagnoregio nel quarto Cielo del Sole, ha allora il merito di integrare la materia all’anima del luogo (che ne’ grandi offici sempre pospuosi la sinistra cura), di recuperare lo spirito, il genius di una terra che, senza altri aggettivi, non è più altrove ma ovunque. Ed è anche per questa ragione che il suo testo appare come un’opera finemente letteraria: poiché il suo autore è capace di partire dall’unica origine possibile della grande letteratura, dalla cultura popolare, e da quell’oralità essenziale che muta in mito, decide di trasformare la memoria in epica come un grande scrittore.