Recensioni / Una birra per Walser

Le bizzarrie indecifrabili del nostro Paese non riguardano solo la politica. Per l’editoria vale altrettanto. Lettori stabili o in calo; confusione di generi; rubriche televisive "culturali" che combinano più danni che altro; classici che devono trovare ospitalità all’estero (buon ultimo Giordano Bruno, le cui opere complete escono in Francia. Mica in Italia). Epperò, contemporaneamente, libri di qualità in testa alle classifiche (ora Il cardillo addolorato dell' Ortese), e un fiume carsico di iniziative editoriali, piccole e piccolissime, più che ragguardevoli. Ultimi arrivati, un gruppo di studenti di Macerata, che con la loro Quodlibet esordiscono con tre titoli di tutto rispetto: L' uomo che camminava per le strade di Silvio D' Arzo, due saggi di Gilles Deleuze e Giorgio Agamben su Bartleby, La formula della creazione, e infine Una cena elegante di Robert Walser. Poi, per la ripresa autunnale: un altro saggio di Deleuze sul pittore Francis Bacon e una importante raccolta sulle fonti di traduzione nell’intera storia occidentale. Già da questi primi titoli la linea editoriale di Quodlibet appare evidente. Basta fermarsi ai volumi in libreria: non dico certo nulla di nuovo mettendo a raffronto l’opera e l’esistenza di Robert Walser con il Bartleby di Melville, esempi entrambi di una individualità abitata dalla negazione, dal desiderio di scomparire nel più assoluto anonimato. Nella più perfetta impersonalità. La traduzione di Aloisio Rendi In tal senso, proprio la riproposta dopo tempo immemorabile della produzione walseriana degli anni 1913-1914, restituita nella magistrale traduzione di Aloisio Rendi, che segnò la prima apparizione dello scrittore svizzero in Italia, risulta particolarmente felice. E meritevole di segnalazione. In questi Saggi e Poemetti in prosa ritroviamo infatti al meglio quella "inumana, imperturbabile superficialità" di cui parlava Benjamin. Perché la vera peculiarità walseriana, come noto, consiste proprio nella totale mancanza di intenzione. La sua - stando a Calasso - è una perenne deviazione, che pare acquietarsi solo in prossimità dell’"insignificante", e del candido terrore che produce. Incantato, stregato dal magnifico spettacolo del mondo, lo scrittore svizzero saltabecca con grazia stupefatta ed enigmatica da una cena elegante a una piazza di mercato, da un viaggio in pallone alla sede di un ufficio polveroso. L’Io, di proposito, è sempre messo tra parentesi. E l’angoscia azzittita, dunque tanto più sinistramente presente: sicché, leggendolo, si ha sempre l' impressione di tenere in mano un esilissimo foglio di carta di riso che da un momento all' altro può levitare, dissolversi. Come bene scrisse Claudio Magris qualche anno fa, Walser si impose da subito "come una figura esemplare di quella generazione di scrittori nella quale si compie, con risultati di altissima poesia, la fondamentale rivoluzione della letteratura moderna, ossia la disarticolazione della totalità del grande stile classico...Minacciato dall’anonimità sociale contemporanea, il soggetto qui cerca di autoreificarsi per sfuggire al potere, identificandosi col sistema che vuole stritolarlo, e mimetizzandosi per non venire individuato". Convinto che il disordine del mondo vada accettato senza piagnistei o accuse perché altro non è che il riflesso del nostro disordine interiore, Walser si raffigura come "un bottone penzolante che nessuno si prende la premura di attaccare". Istintivamente avverso alla propria affermazione (celebre la sua battuta rivolta ad Hofmannsthal:"non potrebbe dimenticare un pò di essere famoso"), egli dichiara di poter respirare a pieni polmoni soltanto nelle "regioni inferiori" dell’esistenza. Sì, perché se la società di massa sospinge inevitabilmente verso l’indifferenziato e l’equivalente, non ha alcun senso cercare di imporsi, in vista di quei cinque minuti di celebrità che ormai non vengono negati a nessuno, come Andy Warhol ci ha ricordato una volta per tutte. Si tratta, al contrario, di avvicinarsi progressivamente a uno "zero magnifico, rotondo come una palla", perché solo un progressivo eclissarsi dell’io, e con esso il definitivo abbandono di qualunque preteso governo sulla realtà, ci porterà finalmente a diventare semplice occhio che guarda. A cogliere l’ammaliante rappresentazione della natura e delle cose. Per questo, spossessamento dell' Io ed elogio della servitù vanno di pari passo: perché solo l’assoluta dipendenza dall’anonima macchina sociale - afferma Walser - ci consente di ritrovare un’autentica indipendenza interiore, ovvero una totale dimenticanza di sé. Tanto, volenti o nolenti, siamo comunque tutti ugualmente impiegati della stessa "potente concezione collegiale". Anche gli dei dell’Olimpo, come afferma un personaggio della raccolta, lo sono. E pure loro si annoiano non poco nelle proprie giornate. Perciò "accolgono spettacoli e scene popolari e gratuite con gioia sonora e riconoscente". Erede naturale della tradizione cinica del clochard virtuoso, Walser traccia così in queste pagine, come del resto in tutte le altre migliaia stese lungo la sua vita, un elogio ininterrotto e incondizionato dell’anominato. E quello che fa sulla pagina scritta, lo raddoppia nell’esistenza: frequentando a Berlino un corso specializzato per servitori, lavorando come commesso di libreria e impiegato di banca, come domestico in un castello. Masochismo? Piacere della sofferenza? Tutto al contrario. Il soggetto walseriano, ribaltando il nostro comune sentire, ritiene che proprio nella provvisorietà, nella incapacità di giudizio, nella assoluta inettitudine, risiede il migliore viatico per smarrirsi felicemente nell’evanescente spettacolo del mondo: in quel presente inesplicabile, in quella successione di istantanee che quotidianamente ci si offre e di cui è vano e insensato cercare connessioni, rimandi simbolici, significati. Come vano e insensato è apporre un giudizio di valore, sia esso morale o estetico."Lei conosce le birrerie alpine?", chiede il narratore a un ipotetico lettore."Forse proverà una volta a farci una capatina. Anche se vede la cassiera mangiar pane e salsiccia, non deve tornarsene via disgustato, bensì riflettere che è la cena che viene in tal modo consumata. La natura fa valere ovunque i suoi diritti. Dove regna la natura vi è sempre dignità". Un’immensa chiacchierata. Il nostro successivo commento, al contrario, è soltanto un’immensa, ininterrotta "chiacchiera". La scrittura walseriana, riconoscendolo, non va in cerca di un improbabile riscatto bellettristico ("dove si sente la poesia non c' è bisogno di velleità poetiche"), ma mira piuttosto a minare alla radice quella pretesa "comprensione" che vorrebbe rendere tutto universalmente fungibile: distruggendo in tal modo la palpitante e segreta verità dell’esistenza, che si svela solo se la si accosta riconoscendone la sua congenita inafferrabilità."Non è forse il pensiero più bello quello che è andato perduto? Ciò che si ha non si stima, e ciò che si possiede perde di valore". Nella celebre passeggiata walseriana, si manifesterà compiutamente questo irresistibile Sì ad ogni immagine di vita. Questo aprirsi senza residui all’infinita possibilità dell' incontro. Perché se il mondo è soprattutto Caso, proprio nella passeggiata si misura meglio come l' esistenza sia soltanto un succedersi traboccante di situazioni, occasioni, impressioni. "Io sto sulla terra: questa è la mia posizione. Le ore scherzano con me, e io scherzo con loro". Nessuna superiore sapienza redime da questa inarrestabile casualità. Nessuna eccezionalità imperitura può valere quanto la commovente caducità delle cose: "non si usa parlare di giorni o notti medie, e neanche di una natura media. Forse che ciò che è medio non è anche quanto vi è di più solido e migliore? Ne faccio volentieri a meno di giorni e settimane geniali, o addirittura di un Padreterno eccezionale". Scrittore privo di intenzione perché indifferente alla redenzione come alla dannazione, Walser assume davvero e fino in fondo l' orizzonte nichilistico contemporaneo. E mostra come la mancanza di Valore, se portata alle sue estreme conseguenze, possa anche aprire miracolosamente all’incanto. A una misteriosa gioia "di fronte al provvisorio". In una straordinaria paginetta intitolata Mercato, travolto dall’abbondanza e dall’allegria di merci e luci; tra un banchetto di carne che risplende purpurea dai ganci, uno di pesci che nuotano in larghi mastelli pieni d' acqua, e uno di frutta dove le arance "scherzano in sfarzosi mucchi gialli", il protagonista sosta inebriato davanti a un gruppo di donne magnificamente grasse. "Figure umane grossolane che ci ricordano proprio la terra, la campagna con la sua vita e il suo lavoro. E Dio stesso, che certo non ha neanche lui un corpo esageratamente bello". Perché "Dio è il contrario di Rodin". Ammirare il mondo nel suo stato germinale: come se fosse appena stato creato lui, e l' osservatore che lo contempla. Scrittore "puerile" per eccellenza, Walser riesce proprio in questo, che è il più straordinario degli esercizi: coniugare l’anima di un adulto con gli occhi stupefatti di un bambino. "Mi pareva che fosse eternamente inutile esser buoni ed eternamente impossibile nutrire delle oneste intenzioni, e che tutto fosse assurdo e noi tutti fossimo soltanto dei bambini piccoli, abbandonati fin da principio alle assurdità e alle impossibilità. E subito dopo tutto andava di nuovo bene, ed io continuai il cammino, con l' anima inesprimibilmente felice, attraverso la bella e pia oscurità". A lungo, molto a lungo, gli riesce questa pratica conturbante. Ma nel 1929 la sua particolare "lotta per la vita" appare compiuta. Il grado zero è stato raggiunto. E lo scrittore svizzero finisce in manicomio, "il convento dell' epoca moderna", dove trascorrerà gli ultimi ventisei anni della sua anonima, quanto singolarissima esistenza.