Gianni Pettena - ottant'anni suonati da due anni, architetto veramente radicale, non solo perché
appartenente alla famosa faccenda
fiorentina di fine anni Sessanta - è
una meraviglia d'uomo. C'è da imparare subito. "Sono il pigro più attivo del mondo", mi dice quando lo
accuso bonariamente di essere riuscito a non aver mai fatto una mazza, cosa difficilissima. "Non sai la
fatica di convincere mia moglie tutta la vita che per me guardare fuori
dalla finestra era lavorare". Nonostante la lotta strenua per l'ozio,
non ha mai smesso di fare cose. A
una condizione: la ricerca e la difesa del benessere. "Non ho mai pensato che per vivere si dovesse soffrire". Per questo la megantologia di
tutto il suo lavoro, TUTTO TUTTO
TUTTO, uscita da Quodlibet da alcune settimane (a cura di Brugellis,
Salvadori e Trincherini), va considerata, più che un compendio essenziale del suo pensiero/azione, un
manuale su come arrivare dei fiori
fino alla quinta età.
La cosa che mi interessa di più in te
è in che modo sei riuscito a campare
finora.
Ah beh, ci sono molti modi! Il modo più semplice mi è capitato a circa un anno dalla laurea, anche meno: mi hanno invitato a insegnare
negli Stati Uniti. Io mi ero laureato
e avevo detto: "In questo posto di
merda non ci metterò più piede". Intendevo la Facoltà di Architettura
di Firenze. E sono andato a Minneapolis, perché era il luogo dove mi
offrivano più denaro.
Come mai proprio a Firenze in
quell'arco di tempo - che poi è brevissimo, dimmi se mi sbaglio, tra il 1968 e il
'69 - si crea questo bailamme di gruppi,
Archizoom; Superstudio, Ufo, ecc?
Beh, non è stato un anno. Era già
dal 1965 che questi studenti della
Facoltà di Architettura erano un po'
irrequieti. Occupavano quasi una
volta l'anno, pre pre Sessantotto.
Devi tener presente che i componenti di Archizoom e Superstudio
avevano visto la mostra della Pop
Art alla Biennale di Venezia del
1964. E infatti utilizzano in qualche
modo quelle proposizioni di quei
linguaggi. Ma questi erano fondamentalmente Natalini e Branzi, che
erano più o meno i cavalli di razza e
che per le loro tesi di laurea, `67-'68,
avevano prodotto i due gruppi.
Tu eri di lato, in una posizione parallela. Ma qual era il pensiero che correva trasversale tra voi tutti?
Quello di eliminare in architettura l'automatismo tra linguaggio e
produzione, secondo gli schemi ereditati dal modernismo, diciamo, dal
funzionalismo.
Gli altri erano tutti fiorentini, tu
invece altoatesino. Dentro il tuo lavoro successivo sono bellissime le riscoperte dei tuoi luoghi, il riconoscimento del carattere architetturale delle
Dolomiti.
Certo! Sono la vera scuola di architettura che ho fatto: quella della
loro monumentalità. Le avevo intorno fin da quando ho memoria del
mio essere bambino, durante la
guerra. Perché le Dolomiti sono delle scogliere coralline preistoriche
che appartengono ai grandi mari
preistorici da cui emergevano e proprio a pelo dell'acqua. Calando il livello delle acque, emergono e diventano la parte più alta di queste
montagne, dalla Val Gardena alla
Val di Fassa.
Da lì precipiti nel tutto piatto, nel
vuoto pneumatico degli Stati Uniti.
Sì, esatto, cioè, vado perché l'Europa era piena di tracce delle civilizzazioni precedenti. Volevo andare via dall'Europa che era troppo
contaminata.
E invece lì trovi un piatto ricco,
un terreno nel quale non c'è architettura...
Era il deserto, cioè era il foglio
bianco. Mentre l'Europa era un foglio già disegnato.
E nel deserto cosa ci hai combinato?
Hai camminato...
Ho camminato, ho fotografato, ho
cercato di capire cos'era.
E non a caso incontri un artista fondamentale come Robert Smithson.
Sì, lo avevo già conosciuto nel '69
a Roma, alla mostra per la Galleria
L'Attico fece l'Asphalt Rundown. Lo
ritrovo e lo frequento molto.
Senti, lì come ti vedevano? Questo
strano tipo dall'Italia, un po' che scrive
James Wines, no? "The Curious Mr.
Pettena", "Peripatetic Pettena". "A
Wanderng Visionary". Che interventi
facevi?
Io non intervengo! Non faccio come i land artist di quegli anni. Non
taglio come faceva, non so, Heizer
facendo il double negative. Io studiavo il deserto e i lavori che i cittadini/artisti di New York o Los Angeles, rifiutando la città, cercavano
anche loro per fare tabula rasa. Però facevano un segno del loro passaggio.
Tu no. Osservi e basta. E in questo
senso sei un architetto che non costruisce.
Non costruivo, apparentemente.
Costruivo invece la maniera di analizzare quello che era successo. O
che non era successo come segno
dell'uomo. In tutto questo io scopro
che la maniera dei nativi di utilizzare la natura come luogo abitato era
non lasciare tracce sul piano visivo,
ma solo sul piano concettuale e naturalmente sacrale. La trascrizione
dell'uso del territorio del nativo non
è una modificazione del luogo naturale, ma è un uso del territorio naturale come architettura.
Poi stranamente, dopo, tu fai anche
operazioni di architettura effimera, ad
esempio una torretta per intercettare,
raccogliere le palle rotolanti del deserto, i tumbleweed. Una piccola struttura che, te l'avranno già detto mille volte, somiglia molto al Bosco Verticale di
Boeri...
Certo, che ha fatto 60 anni dopo. Eheheh!
Quando l'hai visto ti ha fatto ridere?
Sì, sì, mi ha fatto ridere, ma io ero
già abituato a sentire, a vedere opere non solo di architetti ma anche di
artisti che attraversavano pensieri
che io avevo avuto 30 anni prima.
E tra l'altro con molti lavori che utilizzavano la natura (incluso il ghiaccio) per ricoprire le case, per cancellare
i segni dell'uomo.
Più che cancellare, per affermare
che i materiali dell'architettura erano gli elementi della natura. I nativi
scelgono una grande grotta e all'interno costruiscono strategicamente
un edificio, una piccola città.
Sai che tutto questo è andato perduto, sì?
Sì, sì, certo. Oggi le facoltà di architettura stanno stranamente cercando di utilizzare l'architettura come posto di pronto soccorso del genere umano. Costruiscono le architetture di emergenza per chi sta male. In pratica costruiscono qualcosa
per correggere. L'architettura è
un'altra cosa che essere il pronto
soccorso dell'antropocene.
Senti, tu stesso diventi nei primi anni 70 un nativo all'Elba, che vive nudo
dentro una grotta. A partire dalla costruzione di quella tua fantastica casetta lì.
All'Elba semplicemente mi capita di acquistare un vecchio magazzino di una rete da tonni, una piccolissima costruzione a picco sul mare
con la sua poca terra attorno, e cerco di adattare quella costruzione, di
togliere il meno possibile di ciò che
la natura aveva fatto e fare spazio
anche a me.
L'hai intesa come una forma che
chiami di anarchitettura, per citare un
tuo libro ben noto?
È semplicemente un'architettura
costruita utilizzando solamente i
materiali che la natura ti offre in
quel momento.
Nel frattempo, facciamo un passo
indietro, sei tornato dagli Usa, sei andato a Londra, e poi sei tornato in Italia.
Io faccio la mia carriera dentro la
Facoltà di Architettura a Firenze,
alternandola all'insegnamento a
Londra all'Architectural Association (dove mi pagavano bene), fin
quando divento assistente di Eugenio Battisti nel '72. Io lo ero a Firenze, mentre il suo assistente a Genova
era Germano Celant, per dire. Battisti avrà un influsso enorme su di me.
Che nasce essenzialmente dalla sua
libertà nel fare integrare la sua cultura con il divenire delle culture in
quel momento.
A un certo punto diventi - piano
piano - professore ordinario nell'odiata Firenze e finita lì, giusto?
Divento professore di ruolo, sì.
Con la solita trafila all'italiana.
All'inizio, quando accetto il primo
incarico precario, la metto giù chiara al direttore del dipartimento:
"Devi stare attento - gli dico - perché io voglio fare i figli, e se non
riesco a farli mangiare vengo a casa
tua".
Perché volevi fare i figli?
Per avere i figli ci vuole una moglie che li vuole. E lei mi ha convinto così: "Pettena, guarda che fare un
figlio può essere un bel trip, sai".
A proposito, droghe?
No, niente, solo hashish. Ma non
l'ho mai comprata, semplicemente
quando gli amici mi passavano una
canna la fumavo. Era più a buon
prezzo del vino e del whisky e aveva
una conseguenza meno pesante. Mi
ricordo di aver visto l'anteprima a
Roma di "2001 Odissea nello spazio"
insieme agli amici di Musica elettronica viva, in prima fila. Loro avevano delle canne e fu una bella cosa.
Sbaglio o sei una persona che è priva di invidia?
Esatto, esatto.
E ti consideri una persona libera?
È una bella domanda. Non mi è
mai stata fatta. Sicuramente libera
dalla seduzione dell'architettura.
Puoi dire di aver fatto una vita felice?
Mi ritengo fortunato di aver evitato il ricatto che il mondo reale ti fa
se non lavori.
Paura di morire?
Non ci penso. Quando ho compiuto 80 anni mi son detto "Pettena, hai
scalato l'Everest". Ero in piedi. Mi
guardo i piedi ma qui davanti c'ho il
burrone! Io sono un ex scalatore. Il
trucco nei punti difficili è non trattenerti nel passaggio. Il piccolo appiglio non regge e devi farlo in continuità, sennò cadi, mai devi guardare il burrone. Io se non cammino sui
cornicioni non mi diverto.