Recensioni / Cronaca di una rinascita dolorosa, su La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera

«Un mattino d’agosto Guglielmo Sputacchiera si svegliò col muso sprofondato in un bel paio di seni: i suoi»1, inizia così questo sorprendente La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, opera prima dello scrittore Alberto Ravasio (filosofo non praticante, come ci dice nella quarta di copertina), e così potrebbe finire, per quanto icastico e riuscito è il suo incipit. Leggendo queste pagine è il Kafka delle Metamorfosi, naturalmente, il primo grande riferimento per il lettore. Ma è Tiresia, proseguendo con la lettura, a farsi largo nella narrazione, l’indovino venne infatti mutato da uomo in donna mentre, passeggiando sul Citerione uccise una femmina di serpente battendola con un bastone mentre era chiusa tra le spire del coito.
Ravasio racconta dunque la miracolosa mutazione sessuale di un giovane trentenne della provincia lombarda (lo Sputacchiera) transessualizzato e continuamente impegnato nella riscoperta del suo passato virile e nella gestione del suo nuovo corpo. Ne viene fuori un piccolo memoriale del fallimento, quasi il manifesto di una vita sprecata dal quale spunta fuori un esausto millennial e allo stesso tempo un personaggio incredibilmente riuscito, grazie alla scrittura ironica di Ravasio.
Il luogo che fa da sfondo a questa storia è un paesino della bergamasca: «il paese è periferico ma non è periferia: se la periferia è assenza frustrata della città, il paese, quando chiude gli occhi, sogna se stesso»»2, ma interessante è anche la successiva descrizione della periferia milanese, un luogo «tutto benzinai, case popolari, rotonde e foschia»»3.
Sputacchiera, prima della sua trasformazione, è un malato d’amore, proprio perché ne è digiuno, è privato delle gioie della conquista e i suoi tentativi di approccio con l’altro sesso, dai sei ai trenta anni, sono tutti fallimentari: «Della vulva il seienne Sputacchiera non sapeva nulla, nemmeno il nome, ma aveva riconosciuto in lei, nel suo profumo marziano, l’unico impossibile possibile. L’aveva divinizzata, ci aveva proiettato sopra lo stupore e la devozione e lo spavento del fedele»»4. Questa astinenza «ammirata», questa continua sete lo costringe dunque a ripiegare sulla pornografia. È su internet che il giovane Sputacchiera vive l’era onirica del sesso adolescenziale, su un luogo in cui tutto è raggiungibile, facile, accessibile. È il migliore amico di Guglielmo a masticare la sentenza più lucida sulla faccenda, Guido Coprofago (forse così chiamato perché quieto cittadino del paese stercoso), afferma infatti che «di certo nessuna donna reale potrà mai competere con un esercito di sogni, sempre nudi e online»»5, disegnando il rapporto dei coetanei di Sputacchiera con la pornografia online, invischiati come sono in quell’acceleratore di apparizioni e di informazioni o, come le chiama il filosofo tedesco Byung Chul Han, di non cose: una serie infinita di infomi digitali, tra cui figurano, ovviamente, anche quelli pornografici.
Guglielmo Sputacchiera, prima di diventare Carmela Pene (questo il nome che Ravasio sceglierà per la parte femminile), è un membro perfetto della classe disagiata, «un lussuoso e nullafacente gatto d’appartamento»»6 la cui dipendenza dalla famiglia è, oltre che psicologica, anche materiale. Il ragazzo non riesce a completare l’Università, non riesce a lasciare il ventre materno e a quello torna, metaforicamente e non, anche con i continui rifermenti alla visitazione microbiologica della sua vulva. Freud dice che i rapporti del figlio con la persona che ha cura di lui sono «una fonte inesauribile di eccitamento a partire dalle zone erogene»»7, su questo la bellissima lettera finale al padre si dimostra illuminante. Il transessualizzato scrive che «la generazione dei padri mangia completamente il futuro a quella dei figli, la fotte in ogni senso» fino a quella rinuncia alla vita attiva che, per la prima volta, incrina la rocciosa ironia del protagonista di Ravasio che arriva a vaticinare, terrorizzato, «che possano spuntarmi i capelli grigi mentre ancora dormo nel letto di quando ero bambino»»8.
Bellissimi sono, in apertura, i ritratti del padre e della madre: l’uomo, «ammaccalamiere arricchito» è un «eroe del proletariato rurale», fiero di aver sempre cambiato in meglio il suo impiego; la donna, presa dal suo «dottore della testa» e dalle dieci pasticche che deve ingerire per controllarsi, è una disoccupata volontaria (altra strizzatina d’occhio, questa, alle possibilità economiche e sociali delle famiglie monoreddito del secolo scorso).
È dalla madre che sembra partire la trasformazione, la prima parte del romanzo è infatti il dominio di lei e dell’affezione ammirata che Sputacchiera riserva alla vagina (quasi un’invidia della castrazione), un percorso di continua scoperta del corpo, in cui i seni e poi la vulva fungono da catalizzatori e continuamente sembrano indicare l’altrove mai visitato, l’oscenità della nuova realtà.
Ma è con la figura paterna, sviluppata nella seconda parte del testo, che il protagonista ingaggia la lotta decisiva. Il padre assente, il padre lavoratore è una figura totemica del virile a cui il figlio in fuga, all’apice della paura per il nuovo corpo, dedica una splendida lettera: «Se provo ad autoipnotizzarmi, risparmiando i soldi dell’analista, il primo ricordo che ho di te è il tuo pene, un campanaccio di carne rossa e schiumosa, penzolante sopra la mia testolina, mentre m’insegnavi a fare la doccia»»9.
La lettera finale appare come la parte più intima e forse più riuscita di questo testo. «Qui – ancora con Freud – l’amore eccessivo per il padre, che aveva reso necessaria la rimozione, ha trovato finalmente uno sbocco in una sublimazione ideale»»10 e la certificazione di un interminabile e odioso amore per una generazione distante e sorda ci ricorda che la storia a cui assistiamo non è che una cronaca della vita psichica di un protagonista bloccato nella sua fanciullezza. «Ho bisogno di piangere – ci comunica Sputacchiera – ho bisogno di piangere tra le braccia di una donna, come un neonato gigante»»11 e il correlativo oggettivo dell’infantilismo (causa prima del suo polimorfismo sessuale) è l’affezione verso quell’oggetto transizionale»12 che è il suo orsacchiotto di peluche: Vladimir Karenina, feticcio e, agli occhi di chi scrive, punctum del testo, che viene infatti introdotto «a pugni e pedate» dentro il trolley strapieno di vestiti maschili e femminili di Guglielmo/Carmela. Proprio in quanto oggetto transizionale l’orsacchiotto offre la visione dell’incontro precosciente con l’altro, prima che i rapporti convenzionali, sociali e politici costringessero Sputacchiera entro i confini della sua pornogonia privata.
La parabola di Sputacchiera arriva nel finale al suo disvelamento, e ha il sapore di una rinascita, quando Carmela, di nuovo su un letto, si abbandona finalmente al suo dolore e sembra accettare la wiedergeburt, la rinascita, perché «la ricettività nei confronti dell’altro presuppone però una vulnerabilità. La ferita che fa male è un’apertura primordiale verso l’altro»»13.

1 Alberto Ravasio, La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, Macerata, Quodlibet, 2022, p. 9.
2 Ivi, p. 47.
3 Ivi, p. 146.
4 Ivi, p. 13.
5 Ivi, p. 127
6 Ivi, p. 157
7 Sigmund Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, p.110.
8 Alberto Ravasio, La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, op. cit., p. 159.
9 Ivi, p. 155.
10 Sigmund Freud, L’uomo dei lupi – dalla storia di una nevrosi infantile, Torino, Einaudi, 2014, p. 124.
11 Alberto Ravasio, La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, op. cit., p. 133.
12 Locuzione utilizzata dallo psicanalista e pediatra statunitense Danald Winnicott che descrive in questo modo gli oggetti che permettono al bambino di arrivare alla realtà.
13 Han, La società senza dolore , Torino, Einaudi, 2021, p. 70.

Recensioni correlate